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L’uovo di cioccolata - 2a parte

Argomento: Cultura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 23/03/2016 19:11:00

‘L’UOVO DI CIOCCOLATA’: EVENTI, LIBRI, MUSICA, CINEMA, ED ALTRO … (parte seconda).

Dentro l’uovo o fuori dell’uovo? La poetessa Amina Narimi, ha lintelligentemente risolto il ‘quesito’ in modo alquanto perspicace: ‘dischiuso l’uovo, l’uovo è tornato’. Ora, ciò può anche sembrare banale, ma non lo è affatto, perché affonda le sue radici nella filosofia. Quella che per l’appunto si fonda sull’ uovo universale. Non lo sapevate? Si pensi alla possibilità che nell’uovo che rompiamo vi sia un pulcino e che potrebbe anche essere femmina, ècco che un secondo uovo è così assicurato. Ciò a dimostrazione del rigrenerarsi della natura e, quindi, la continuità nella ‘rinascita’ dei diversi generi, sia vegetale e animale che quello umano. E che sia in prevalenza donna, diciamocelo pure, ‘ben venga!’, tanto per rifare il verso a un noto film di successo: “Speriamo che sia femmina” dell’indimenticabile Mario Monicelli, il quale alla domanda, quale fosse la vera felicità, rispondeva: «La vera felicità è la pace con se stessi. E per averla non bisogna tradire la propria natura.»

… da ‘Fedele all’Invisibile’ di Amina Narimi

Ti celebro così dentro i paesaggi
come in fondo al vuoto del mio letto
nell’esatta simbiosi della gioia
madre dalla lunga voce -
fango che dorme nella luce
con tutto il silenzio fuori dal torace
della carne, allo scoperto. Amo.

Ciò che nasce non è altro
da questo uccello azzurro nei polmoni
con il dorso carico di latte
“Cosa vedono i tuoi occhi, Aman,
quando vai a fare i fiori..
la porta stretta di una retina dove s'inginocchia il cielo
quando non arriva in cima ? la sua parte di luce
è quel prodigio
fedele all’invisibile
nel rosso della gola fino a sera …

Dunque, un grazie sincero ad Amina Narimi, mia amabilissima amica, le cui liriche potete leggere sul sito larecherche.it, da cui ho tratto questi pochissimi versi.

Non era che un gioco per sdrammatizzare gli effetti della ‘quaresima’ che incombe, ma ecco che la Pasqua s’avvicina e nell’attesa possiamo prepararci ad esultare per la ‘resurrezione’. Non è forse così, non è quello che vorremmo tutti? Io dico di sì, si, siiii! E allora prepariamoci ad affrontare un’altra meta del nostro ‘viaggio’ musicale. Non era forse questo il tema improntato nella prima parte di questo lungo articolo? Certo che sì. Quindi partiamo da dove ci eravamo lasciati, e lo facciamo a tempo di rock. Il rock? Certo, l’opera / concerto rock, realizzata da Ray Manzarek sui “Carmina Burana” nel 1983, ovviamente quella rivista e corretta in modo gogliardico dai Jaculatores Upsalienses che già nel medioevo ne avevano trascritta una versione ‘carnascialesca’, ripresa successivamente da Carl Orff che nel 1935 l’ha trasformata nei canoni dell’ Oratorio per orchestra e coro che più comunemente ascoltiamo:

11.
“In taberna quando sumus, / non curamus quis sit humus, / sed ad ludum properamus, / cui semper insudamus. / Quid agatur in taberna, / ubi nummus est pincerna, / hoc est opus ut queratur, / sid quid loquar audiatur …”.
16.
“ O Fortuna, / velut luna / statu variabilis, / semper crecis / aut decrescis; / nunc obdurat / ludo mentis aciem / egestatem, / potestatem /dissolvit ut glaciem. / Sors immanis / et inanis, / rota tu volubilis, /status malus, / vana salus … / mecum omnes plangite! ”

Dite la verità, vi ho sorpresi o no? E non finisce qui, quel geniaccio di Andew Lloyd Webber autore di tanti ‘musical’ di successo, forse preso da un raptus mistico, improvvisamente si è messo a scrivere musica sacra con tutti i crismi del caso, ed ha fatto le cose in grande. Un cast eccezionale a cominciare dal direttore d’orchestra Lorin Maazel, le voci soliste di Placido Domingo, Sarah Brightman, Paul Miles-Kingston, nonché il Winchester Cathedral Choir con la English Chamber Orchestra. Il risultato è migliore di quanto si possa pensare, il suo “Requiem” (1985) è straordinario, musicalmente diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto, indubbiamente più vicino ai giorni nostri non solo come struttura e musicalità, a tratti (azzardo) quasi una ‘colonna sonora’ cinematografica. Potrei citare dei nomi ma non avrebbe senso. Un senso invece ce l’ha se ascoltiamo alcuni brani come il ‘Dies irae’ e ‘Ingemisco’ in chiave decisamente ‘drammatico-operistico’ hendeliano (del Messiah tanto per capirci), e il delicatissimo quanto ispirato ‘Pie Jesu’, dalla voce bianca di Paul Miles-Kingstom, che l’autore ha voluto inseriti in moderna continuità con la tradizione antica.

Alla tradizione si rifà anche la “Messa Arcaica” (1994) per soli, coro e orchestra, di e con Franco Battiato (voce), Akemi Sakamoto (mezzosoprano), Filippo Maria Bressan direttore del Athestis Chorus, Antonio Ballista con l’orchestra de I Virtuosi Italiani, Filippo Destrieri e Angelo Privitera rispettivamente alle tastiere e computer, e Carlo Guaitoli al pianoforte. Un cast d’eccezione per una resa che molto s’avvicina alla spiritualità del nostro tempo in cui i suoni e le ricercate trame delle voci ‘recitante-lirico’ ci mostrano un cantautore musicista e quant’altro, alle prese con quella trascendenza mistica capace di accumunare suoni e mondi diversi, quei ‘mondi lontanissimi’ propri della poetica del musicista, espressa in modo ‘eccelso’ nel ‘Kyrie’ d’apertura, per piano solo della durata di 15’, seguito dal ‘Gloria’, ‘Credo’, ‘Sanctus’ e dall’ ‘Agnus Dei’ per voce e coro, con una resa misurata di sublimazione.

Dalle temperanze solenni della ‘musica liturgica’ passiamo alle sregolatezze della ‘musica profana’ quale è da sempre considerato il Jazz, se pure abbia dato esempio di improvvisazione assoluta, così vicina a quel senso di ‘misterioso’ (T.Monk) che pure esiste nella inter-comunicazione umana con la divinità, nella parola che si fa preghiera che si fa canto, così come nel rumore che diventa suono che diventa musica, in cui si esprime la creatività e la genialità umana, nel suo disporre alla conoscenza (quella musicale) che ha molto di sovrumano e così poco di terreno. Ma bando alle elucubrazioni filosofiche e immergiamoci in quell’impasto di cacao e latte che è ‘l‘uovo di cioccolato’ che, una volta scartato degli orpelli che lo rivestono per la ‘festa’ che qui si celebra, rivela al suo interno quel dono ‘talvolta un po’ sciocco’ ma che la tradizione vuole ‘significativo’ di una rigenerazione insita nella sorpresa che si rianima in noi e ci predispone a una positiva entusiastica accoglienza.

Certo che sì, quell’entusiasmo che ogni volta dovremmo dimostrare nell’andare incontro agli altri (papa Francesco), a quanti vivono in mezzo a noi, con noi in qualsiasi punto dell’emisfero terrestre, siano essi gente comune, artisti, musicisti, teatranti, scrittori, filmakers, organizzatori di eventi ecc. e che, con il loro lavoro, manifestano la gioia di essererci. È con questo spirito che oggi andiamo a incontrare alcuni artisti jazz che, in quest’ultimo frangente di tempo, hanno dato un vigoroso impulso alla musica contemporanea coi loro amalgami più creativi in cui si rispecchia la nostra attuale esistenza. Ma se il presente per molte ragioni ci spaventa, la musica da sempre si lascia ascoltare da tutti in qualunque parte del mondo, rappresentativa di quell’ ‘anima mundi’ che accoglie in sé tutte le diversità, per quanto ‘l’ira del tempo’ che pur viviamo non ci permette di mantenere quella serenità che tutti vorremmo.

Due sono i suggerimenti musicali, per quanto datati, che mi sento qui di dare e che segnano il passaggio di registro di tutto questo discorso e che, vi anticipo, non sarà breve. Si tratta della colonna sonora del due volte Premio Oscar Ennio Morricone con la The Londo Philharmonic Orchestra: “The Mission” (Virgin 1986) Soundtrack dell’omonimo film di Roland Joffé con due mostri del cinema americano Robert De Niro e Jeromy Irons. La particolarità di questa colonna sonora di fatto sta negli effetti della strumentazione del gruppo Incantation, in cui il flauto indio e gli effetti acustici utilizzati ricreano un’atmosfera paradisiaca incontaminata di mistica suggestiva bellezza, seppure infine stravolta dal massacro sanguinario dei colonizzatori.

Laltro suggerimento è ancora più toccante, si tratta della colonna sonora del film “Passion: The last temptation of Christ” (Virgin / Realworld 1989) di Martin Scorsese, con i pur bravi Willem Dafoe e Harvey Keitel. Composta e diretta dal ‘mostro sacro’ del rock-progressivo Peter Gabriel, cantante, polistrumentista, compositore, produttore discografico e attivista britannico che, dopo aver raggiunto il successo negli anni settanta nel celebre gruppo dei Genesis e aver intrapreso una carriera solista di successo sperimentando numerosi linguaggi musicali, negli anni ottanta si è impegnato nella promozione della ‘world music’ attraverso la sua etichetta Real World, andando alla ricerca di moderne tecniche di incisione e nello studio di nuovi metodi di distribuzione della musica online. È anche noto per il suo costante impegno umanitario. La colonna sonora de ‘L'ultima tentazione di Cristo’, pubblicata un anno dopo l’uscita del film sotto il nome di ‘Passion’ voluto da Peter Gabriel, è oggi considerata un capolavoro dell’allora neo-nata world music. Per la realizzazione l'ex-Genesis si avvalse della collaborazione di artisti internazionali di musica tradizionale quali Youssou N'Dour, Billy Cobham e Nusrat Fateh Ali Khan. Ad esso si accompagna l'album 'Passion sources' il quale completa la colonna sonora e promuove gli artisti che hanno collaborato con Gabriel proponendo dei loro brani importanti, finora sconosciuti al grande pubblico.

In tutta questa ‘diversità’ di opposti intenti culturali, spesso caotica e rumorosa, alcuni artisti hanno avuto il coraggio di trasformare il rumore e il caos in una composizione ‘vocale-strumentale’ di forte impatto evolutivo. Si tratta del guro del sintetizzatore Bob Ostertag e del quartetto d’archi Kronos Quartet che in “All the rage” (1993) hanno sviluppata da un'incisione realizzata durante un'insurrezione nell’ottobre 1991 a San Francisco e che fece seguire al veto del Governatore della California Pete Wilson, di un progetto per proteggere gay e lesbiche dalla discriminazione. Mi è sembrato molto interessante conoscere come si è proseguiti nella sua realizzazione che apprendiamo dallo stesso Bob Ostertag: «Prima ho setacciato ed isolato quelle sezioni che al mio orecchio suggerivano una qualche forma di musica. Alcune di queste riguardano le grida i fischi e le finestre fracassate; altre invece i motti che venivano scanditi dalla folla, come: ‘Noi non torneremo indietro' e 'Riprenderemo di nuovo la lotta', più alcune voci individuali come uno che grida: ''Vaff…” e altre persone che gridano 'Bruciatelo!'. In seguito sviluppai questi frammenti ricavandone una struttura musicale attraverso varie tecniche digitali, ed infine ho aggiunto il testo.»

«Riguardo alle parti elaborate dal Kronos Quartet – scrive ancora Bob Ostertag – furono sviluppate direttamente sul materiale registrato, riprendendo la trascrizione minutamente particolareggiata dei suoni registrati. In altre sezioni, il processo da nastro a parti di sequenza fu più complesso, e la relazione tra i due meno ovvia. Tuttavia, molta della musica composta risultò propedeutica al suono delle migliaia di fischi(etti) che molte lesbiche e gay usavano come strumenti di autodifesa di base, e quali emersero dalle tasche di quanti prendevano parte all'insurrezione successivante stimati in almeno un milione di persone.» Va qui ricordato che il Kronos Quartet fondato nel 1973 a San Francisco non è nuovo a certe operazioni di contaminazione in musica, gli eccellenti musicisti della formazione ci hanno abituati a un minimalismo grammaticale che può contenere e trasformare qualunque invenzione musicale. Infatti i loro lavori più apprezzati vanno dai contemporanei Arvo Pärt a Jimi Hendrix, da Steve Reich a Philip Glass, da Astor Piazzolla a Thelonius Monk, abbracciano la musica africana e quella giapponese, solo per citare la dimensione della loro spazialità e sempre con risultati eccellenti di straordinaria creatività.

Di sorprendente bellezza, anche se molto singolari, a voler dire ‘per orecchie sofisticate’, vanno citati i lavori del georgiano Giya Kancheli con Kim Kashkashian e la Hilliard Ensamble “Abii ne viderem” (ECM 1995) e “Caris Mere” per soprano e viola (ECM 1997). John Cage con “The season” per prepared piano e Chamber Orchestra (ECM 2000); il bellissimo “Elogio per un’ombra” (ECM 2000) con Michelle Makarski al violino e Thomas Larcher al piano, che eseguono musiche di Berio, Dalla Piccola, Carter, Petrassi, Rochberg, Tartini la cui rilettura si offre per un piacevole incanto. Bene si affiancano a queste esecuzioni le musiche per i film di Theo Angelopoulos composte da Eleni Karaindrou: “Ulysses’ Gaze” (ECM 1995) con la partecipazione alla viola della straordinaria di Kim Kashkashian insieme a un ensamble di strumentisti greci di primo livello condotti dal direttore d’orchestra Lefteris Chalkiadakis; “Eternity and a Day” (ECM 1998) ancora un film di T. Angelopoulos; e le musiche per il teatro greco di Epidauro per “Troian Women” da Euripide, con il grande stage director Antonis Antypas.

Comprendo, vi state chiedendo ma ikn tutto questo il Jazz dov’è? La risposta è insita nella domanda stessa; vengo al dunque rispondendo con un’altra domanda: quali sono le strade intraprese dal jazz negli ultimi decenni? Chi sa rispondere lo faccia attraverso i commenti che si possono tranquillamente lasciare in fondo agli articoli che vi sottopongo e che saranno da me presi in considerazione e inseriti oppure utilizzati in altri articoli ovviamente citando la fonte. Ciò che posso aggiungere riferito al Jazz come lo intendo io, è tutta la musica creativa, non ripetitiva, sebbene il minimalismo in musica porti a una distensione delle note e delle pause non proprio consone all’orecchio ormai ostruito dal sottofondo ‘caotico’ che non gli permette più di ricevere i suoni puri. Ma, come abbiamo visto, che gli ‘artisti’ quando sono tali, riescono comunque a utilizzare al meglio. Ovviamente l’ascolto della musica ‘live’ anche se filtrata dalle moderne tecnologie permettono di usufruire della bellezza di accordi e assonanze che recuperano in pieno la loro primaria sonorità degli strumenti.

È questo il caso di Fabio Giachino il pianista italiano che si è aggiudicato quest’anno l’ambito premio MIDJ 2016 che gli permetterà di risiedere e svolgere tutta i suoi progetti musicali a Copenaghen e approfondire così la sua ricerca artistica, attraverso una serie di impegni e interazioni con il contesto culturale e musicale della città. Un primo traguardo internazionale ricevuto con l’album per piano-solo “Balanciong Dreams” (Tosky Records 2015) di cui sto ascoltando il brano appena pubblicato nella video-clip su Youtube. Pensate, il giovane pianista ha superato i 56 candidati davanti a una giuria composta da signori del jazz quali Rita Marcotulli, Rosario Bonaccorso e Michele Rabbia. Negli anni Fabio Giachino è stato inoltre insignito di importanti premi: "Premio Int. Massimo Urbani 2011"; "Premio Nazionale Chicco Bettinardi 2011" e il Red Award "Revelation of the year 2011" JazzUp Channel; inoltre, con il suo Fabio Giachino Trio (completato dal contrabbassista Davide Liberti e dal batterista Ruben Bellavia) ha ottenuto il "Premio Carrarese Padova Porsche Festival 2011"; il premio "Fara Music Jazz Live 2012" (sia come miglior solista che come miglior gruppo), il premio "Barga Jazz Contest 2012" e il Premio Speciale come "BEST BAND" al "Bucharest International Competition 2014", votato tra i primi 10 pianisti italiani secondo il referendum "JAZZIT Awards" indetto dalla rivista JAZZIT.

Viene quasi da chiedersi e chiedergli se vuole vincere anche le Olimpiadi di Rio, sarebbe un gran bene per l’Italia. Prossime date sono per ascoltarlo live in Italia c’è una data da tenere a mente: il 21 aprile un concerto di anteprima del Torino Jazz Festival 2016. Ma potete sempre leggere la mia intervista apparsa recentemente su questo stesso sito www.larecherche.it dal titolo “The special touch of Fabio Giachino”. Da consultare il
Video "The Making of" https://www.youtube.com/watch?v=rdr6c6xckZU
Videointervista https://www.youtube.com/watch?v=B5M683YsBvA
www.fabiogiachino.com - www.toskyrecords.com
www.fiorenzagherardi.gmail.com

Dal piano al sax-tenore per incontrare Danielle di Majo con il suo Quintet formato da Antonello Sorrentino (tromba), Francesco Diodati (chitarra), Riccardo Gola (double-bass), Ermanno Baron (percussioni) che abbiamo ascoltato in “Eccedere di Blu”(Picanto Records 2008) prodotto da Sergio Gimigliano. Uno di quegli album che continuano a tirare e che non si smetterebbe mai di ascoltare per l’impasto sonoro che crea, avvolgente e coinvolgente al tempo stesso e che, pur evidenziando le diverse personalizzazioni dei vari strumenti, starordinariamente riesce in un ‘sound’ che l’eccezionale Danielle ha giustamente derivato dal ‘blues-rock’. Non in tutto, certo, tuttavia in ogni singolo brano fuoriesce quell’amalgama fluido che solo una forte concatenazione di intenti riesce a tirar fuori. Brani come ‘Cicada song’, ‘Bluetango’, ‘Mare infinito ..di che?’, ‘Eccedere di blu’ da cui il titolo dell’intero album per l’appunto, riescono a coinvolgere anche il più sofisticato degli ascoltatori per la musicalità e la determinazione dei suoni. È il caso di dire bravi per le forti emozioni che ci date. Il suo curriculum è denso di avvenimenti, incontri, premi e riconoscimenti impossibile da pubblicare, ci sono però delle date e dei nomi importanti che mi sembra giusto sottolineare in questo breve spazio che la riguarda e che sono certo a Danielle non piacerà per il suo essere stranamente riservata, ma che poi quando nel bel mezzo di un concerto, il suo sax sembra perdere, ècco che si trasforma in un’esplosione di dinamite-rock che per fortuna non fa vittime. O meglio, ne fa musicalmente parlando.

Nel 2004-2005 Danielle vince la borsa di studio per il Corso di alto perfezionamento per la musica Jazz al "ROMA JAZZ's COOL" presso la Saint Louis Music College & La Casa del Jazz a Roma. Frequenta i seminari tenuti da Rosario Giuliani & Maurizio Giammarco. Partecipa alle Master Class di Giovanni Tommaso, Enrico Pieranunzi & Enrico Rava. Sempre nel 2005 svolge un’intensa attività concertistica con Francesco Diodati Quintet (Antonello Sorrentino: tromba, Francesco Diodati: Chitarra, Marco Piccirillo: Contrabbasso, Ermanno Baron: Batteria) eseguendo sia brani originali che reinterpretazioni di composizioni di C. Mingus, T. Monk, W. Shaw, H. Silver . E ancora, collabora con la Wonderband di Claudio Zitti, una funky band di 12 elementi (Claudio Zitti: piano, Marco Marvelli-Ina Maiuri-Lori Maiuri: voci, Cristiano Micalizzi: batteria, Alessandro Patti: basso, Fabrizio Aiello: percussioni, Stefano Antonelli: chitarra, Franco Santodonato: tromba, Giuseppe Ricciardo: sax tenore, Palmiro del brocco: trombone) sul repertorio di brani di Stevie Wonder. Partecipa al concorso Barga Jazz 2005 con Francesco Diodati Quintet vincendo il primo premio come ‘Miglior nuovo gruppo emergente’. Partecipa al concorso europeo con il Francesco Diodati Quintet all’Avignon Jazz Festival. Vive a Roma dove spesso si esibisce alla Casa del Jazz, al 28DiVino Jazz Club, al Teatro Palazzo.
Indirizzi utili: www.picantorecords.com; www.28divino.com.

Altro suono è quello del sax tenore di Marcello Allulli in trio con Francesco Diodati alla chitarre ed Ermanno Baron alle percussioni nell’album “Hermanos” (2009), special guest Fabrizio Bosso alla tromba, Glauco Venier al piano, e Antonio Jasevoli 2° chitarra, presenti in alcuni brani del concept album prodotto da MAT per Zone di Musica records.e che vede la partecipazione di un Coro nel brano che da il titolo all’album. Anche per questa registrazione è interessante conoscere l’insolito che l’accompagna, raccontato dallo stesso Allulli. «Tutto ebbe inizio l’estate del 2009 a Fabriano. Una candida serata ì, un concerto del MAT, le note della chitarra (Diodati) che introduce ‘Hermanos’, poi tutto accade in un attimo,. Ed ecco , come un grande unisono dal pubblico, il tema. Probabilmente ad oggi è stata l’emozione più forte che noi tre abbiamo mai provato su di un palco … Mi sono commosso fin quasi alle lacrime, io che avevo preparato il pubblico all’insaputa di Ermanno e Francesco. E così quasi per gioco è nato il coro Hermanos. Poi sono venuti i giorni della registrazione, tre giorni di un freddo dicembravalicco, in provincia di Udine. Dopo aver registrato il primo giorno in trio e il secondo con Fabrizio (Bosso), ecco arrivare il pulmino che ha raccolto da tutta Italia i ragazzi del coro Hermanos. Il terzo giorno, sulle magiche note del piano di Glauco … arrivammo alla fine della registrazione, ritrovandoci tutti a bere e a cantare, contaminando con la nostra gioia tutti gli avventori dell’agriturismo che ci aveva accolti. Sono stati giorni irripetibili, spontanei, diretti, intensi.» Un bel racconto, o no? Ecco il Jazz è anche tutto questo.

Dalla biografia pubblicata di Marcello Allulli: “Sassofonista di rilievo nel panorama jazz nazionale, si distingue sia come leader che come membro di formazioni tra cui MAT (Marcello Allulli Trio); Glauco Venier Ensemble; Ceccarelli-Allulli duo guest Greta Panettieri, Mufloni; RAJ trio, Ettore Fioravanti 4tet, Nohaybandatrio. Diplomato al Berklee College of Music di Boston, nel 2011 e 2012 è stato votato al JAZZIT AWARD tra i migliori sassofonisti italiani. Tra le collaborazioni: Kenny Wheeler, Norma Winstone, Glauco Venier, Fabrizio Bosso, Antonello Salis, Kamal Musallam, Israel Varela, Selen Gülün, John B. Arnold, Ettore Fioravanti,Roberto Gatto, Giovanni Falzone, Michel Godard, Maria Pia De Vito, Tony Scott, Dave Binney, Shai Maestro. Il suo MAT-Marcello Allulli Trio, formato con due tra i musicisti più interessanti del panorama italiano, il chitarrista Francesco Diodati e il batterista Ermanno Baron, ha riscosso un grande successo di critica e di pubblico con il disco “MAT Hermanos” (ed. Zone di Musica) con ospiti Antonello Salis, Glauco Venier, David Boato e Greta Panettieri e eccezionalmente Fabrizio Bosso, che JAZZIT ha inserito tra i migliori album nazionali e internazionali del 2014 e stato successivamente distribuito con il magazine JAZZIT come allegato al numero di gennaio-febbraio 2015.”
Indirizzi utili: www.zonedimusica.com – info@zonedimusica.com www.fiorenzagherardi.gmail.com

ALTRE PUBBLICAZIONI, POESIE, CONCORSI, CINEMA, MUSICA-TEATRO, EVENTI

Nella certezza di far piacere a molti lettori e nel voler dare un utile servizio alle finalità intrinseche della rivista www.larecherche.it dedico quest’ultimo spazio agli ‘eventi’, ai ‘concorsi’ e alle novità editoriali di scrittori emergenti, nonché a quei poeti di cui mi sono occupato nel corso del 2015. Inizio con la EEE editore di cui è responsabile Piera Rossotti Pogliano, una mecenate dalle grandi capacità imprenditoriali messe al servizio della letteratura e della poesia. Ha all’attivo un fornito catalogo di opere di autori ‘esordienti’ da lei stessa selezionati con cura e la necessaria considerazione. E che recentemente ha annunciata la seconda edizione di ‘Consumando i giorni con sguardi diversi’ di Andrea Leonelli. La raccolta, totalmente rivisitata, segna un momento importante nella evoluzione poetica di questo autore, ormai ben noto e, per due anni consecutivi, vincitore del Premio Polverini. Ed ha, inoltre, lanciato dal suo personale blog il consueto ‘video settimanale’ dedicato sempre alla poesia: «..vi troverete le solite quattro chiacchiere e il ‘bando di concorso’ della casa editrice EEE dedicato alle ‘sillogi poetiche’ in lingua italiana.» Un’occasione amici assolutamente da non perdere.

Altre opere tuttavia s’affacciano nel panorama del romanzo. Dal "Mondo Parallelo", ecco che spunta una nuova Cronaca: ‘Il peccato di Rennahel’, di Irma Panova Maino. «Un romanzo intenso, dove elfi e vampiri, in fondo, non sono poi così diversi dalle persone ordinarie, per quanto riguarda il bisogno di vivere, amare, realizzare se stessi. E, come noi umani, anche loro devono imparare ad accettare le reciproche differenze e questa accettazione diventa ricchezza.» Che dire, talvolta ritornano, ma noi non ci lasciamo spaventare, ci sono ben altri vampiri in giro che oltre a succhiarci il sangue, ci derubano di quel poco che abbiamo, in fatto di ecologia, economia, amministrazione statale, affari pubblici, territorio e quant’altro. Ma noi, poveri peccatori della parola scritta non ci arrendiamo e continuiamo a scrivere non soltanto per il piacere di farlo, quanto invece perché con le nostre storie cerchiamo di trovare una ragione per sopravvivere al marasma quotidiano e spingerci verso quell’ideale di bellezza che ancora sostiene in vita il mondo. Ovviamente è sempre una questione di scelte che prima o poi vanno comunque fatte.

A tal proposito sottolineo la pubblicazione del secondo interessante romanzo di Lu-Paer 'Non altro che me stesso' (EEE 2016) che ha scelto di vivere a stretto contatto con la natura e i suoi animali essendo un’attivista convinta nel sostenere i diritti degli animali. Dal 2000 si occupa di consulenze e formazione nel settore benessere ed estetico e cerca di ritagliarsi i più ampi spazi possibile per continuare a scrivere, il cui ricavato è interamente devoluto a progetti in difesa degli animali. In particolare, come nel suo primo libro 'Che cosa stai aspettando!' (Edizioni Esordienti E-book, 2012) e destinato ad un pubblico più vasto possibile che abbia a cuore la vita (difficile per certe specie) degli animali, la sua scrittura consiste nel riuscire ad incidere, in qualche modo, sull’opinione pubblica al fine di produrre un auspicabile cambiamento nel momento davvero difficile che questo nostro meraviglioso pianeta sta attraversando. Di Lu-Paer trascrivo qui di seguito una ‘poesia’ che ha concesso a noi lettori di larecherche.it, scritta appositamente per il suo nuovo romanzo e che, in qualche modo, ne svela il suo contenuto:

“Sognerai
mi dissero
ma son feroci le notti
come gli assedi.

Passerà tutto il tempo
e non sarà abbastanza
resteranno i ricordi
come ombre in agguato.

Senza stupore nè gloria
trascino i miei giorni su sentieri sicuri
Ma è nell'incertezza della terra gelata
che il pettirosso affamato becca la vita.

Cè un dolore ad ogni sponda
Ovunque esilio.”

Info e sitografia:
www.edizioniesordienti.com; www.amazon.it; www.ilgiardinodeilibri.it

Un nuovo libro di poesia anche per Carlos Sanchez, “Continuaré a cantar” – (Lìbrati, Ascoli Piceno 2015), che ci ha omaggiato/i con un suo testo presente nella raccolta:

‘Tozudez’

De grande aprendí
que los pájaros vuelan
guiados por la necesidad
que los amores se disuelven
en el viento del tiempo
que las revoluciones
terminan ahogándose
en los ríos de la historia
que la eternidad no dura.
Pero no me desespero
continúo a cantar.”

‘Testardaggine’

Da grande ho imparato
che gli uccelli volano
guidati dalla necessità
che gli amori si dissolvono
nel vento del tempo
che le rivoluzioni
finiscono annegando
nei fiumi della storia
che l'eternità non dura.
Ma non mi dispero
continuo a cantare.

Carlos Sanchez è nato a Buenos Aires e viaggiato in molti paesi dell’America Latina e del Medio ed Estremo Oriente come consulente ed esperto in comunicazione sociale per organismi delle Nazioni Unite e della cooperazione internazionale. Ha lavorato come lettore e professore di Lingua e Letteratura Ispanoamericana presso le Università ‘La Sapienza’ di Roma, Cassino e Napoli. Come giornalista, regista e fotografo ha collaborato con riviste e giornali di tutto il mondo. Ha scritto sceneggiature e diretto programmi televisivi per la RAI. Pratica il Qi Gong da oltre vent’anni e tuttora trasmette la sua esperienza ad un gruppo di allievi. Risiede in Italia dal 1968 e attualmente vive a Folignano (Ascoli Piceno).
e-mail sanchez.carlos@tiscali.it.

Ed ecco un fresco di stampa: “Sussurri dall’acqua” Poesie Scelte della poetessa canadese Maureen Scott Harris qui tradotte da Alessandra Bordini (Giuliano Ladolfi 2016). Nata nel British Columbia nel 1943 e cresciuta a Winnipeg - Manitoba, si trasferisce a Toronto nel 1964 dove prosegue i suoi studi. Durante il suo periodo universitario, lavora come catalogatrice presso la biblioteca dellsa stessa Università. Nel 2002 vince l’ambito WildCare Tasmania Nature Writing Prize e successivamente l’Arc's Poem-of-the-Year contest 2009 che segnano una svolta decisiva alla sua elevazione poetica. Le sue opere appaiono in ‘The Fiddlehead, The Malahat, Pottersfield Portfolio, Verse contemporanea 2’, che è stato che un evento per la Poesia in Canada, e ‘Prairie Fire, Graal, and field’. La raccolta appena citata è la prima tradotta in italiano. La Ladolfi Editore annuncia inoltre l’uscita di ‘Atelier 80’, la rivista trimestrale di letteratura, poesia e critica dedicata a ‘Inguaribili sognatori’ - Marzo 2016. www.ladolfieditore.it.; www.atelierpoesia.it.

Molte sono le novità in casa Inschibboleth, editrice di riviste specialistiche e libri di filosofia contemporanea voglio qui citare ‘Lo scambio di figura. Tre studi sulla somiglianza e sulla differenza’ – di Rosaria Caldarone (Inschibboleth, collana ‘Au dedans, au dehors’ (2015). , in cui lo scambio di figura (metabalèin to schèma), che compare in un passo poco studiato dell’Alcibiade Maggiore, scioglie la fissità dello schema che regola la relazione fra maestro e allievo, fra amante e amato. Allude al diventare maestro e amante (erastès) da parte dell’allievo amato mentre l’amante si trasforma in allievo e amato (eròmenos). Questo mutamento profondo nella dinamica di una relazione erotica rigidamente legata ai ruoli, come appare quella platonica, libera secondo l’Autrice un modello di differenza non più regolato sulla contrarietà e sull’opposizione, in cui si annida la gerarchia e il dominio, ma sulla somiglianza. La differenza di coloro che si somigliano fino a scambiarsi la figura sembra venire incontro in modo dirimente alla richiesta di ‘un’altra differenza sessuale’ lanciata da Derrida negli anni ’80 e oggi in parte condivisa all’interno del dibattito sul ‘genere’. Progettati in base a un disegno comune, i ‘tre studi’, che da Platone, attraverso Derrida, ritornano al pensiero greco e ad Aristotele, ripercorrono in filigrana l’eredità concettuale della teoria platonica dell’amore, mostrandocene un altro volto, più segretamente sovversivo e ricco di provocazioni teoriche. (Dalla quarta di copertina).

Di particolare interesse letterario-filosofico la pubblicazione in uscita dei ‘Quaderni di Inschibboleth n.5’ 2016, frutto di un ‘call for papers’ sul tema: ‘Figure dell’inganno’, che ospiterà fra gli altri un saggio inedito dell’autore di questo articolo, sulla figura di ‘Agamennone’ (..o la maschera ‘ingannevole’ del mito). Solitamente suddivisa in tre parti: una parte sul tema del numero. Una parte di saggi specialistici su altri temi, ed infine una parte di recensioni su saggi di recente pubblicazione non necessariamente legati al tema e che è lieta di ospitare ricerche e saggi di giovani studiosi. La proposta di saggi per la pubblicazione dev’essere inviata alla redazione della casa editrice in formato elettronico all’indirizzo redazione@inschibbolethedizioni.com.

Al medesimo indirizzo possono essere richieste le norme redazionali da seguire in fase di stesura dell’articolo. Gli autori devono certificare (nella mail che accompagna l’articolo) che il loro testo non è mai stato pubblicato, né simultaneamente sottoposto o già accettato per altre pubblicazioni. Tutti saggi e le recensioni dovranno essere in lingua italiana e di massimo 45000 battute, spazi e note incluse, e dovranno rispettare le norme redazionali che saranno fornite per mail. Dovranno, inoltre, essere accompagnati da un abstract di massimo 1500 battute in italiano e in inglese (l’abstract non è richiesto per le recensioni). Dopo una prima lettura la segreteria di redazione invia la proposta di articolo per un esame critico a due lettori anonimi (peer review) per la valutazione dei contributi proposti per la pubblicazione. Gli esiti della valutazione (accettato, rifiutato, proposta di modifica) verranno comunicati in seguito all’autore. Le recensioni saranno valutate dalla redazione senza referaggio.

Altro ‘Call for papers’ per ‘Phàsis’, European Journal of philosophy, diretto da Danielle Cohen-Levinas e Gianfranco Dalmasso, per la selezione di contributi originali in forma di saggi e recensioni da pubblicare sul prossimo numero dedicato al tema: ‘Frontiere dell’identità. Lingue e alterità’, la cui uscita è prevista per Ottobre 2016 e che si divide in tre parti: una parte sul tema del numero, una parte di saggi specialistici su altri temi, ed infine una parte di recensioni su saggi di recente pubblicazione non necessariamente legati al tema. La proposta di saggi per la pubblicazione dev’essere inviata alla redazione in formato elettronico all’indirizzo phasis.journal@gmail.com.
Per maggiori informazioni http://www.inschibbolethedizioni.com/riviste/phasis/

Per gli eventi intercorsi nel periodo segnalo inoltre: ‘Coolclub.it un ritorno alla carta stampata’. Dopo una pausa nelle pubblicazioni di oltre quattro anni, dal 4 marzo è in distribuzione gratuita il mensile di musica, libri, cinema, teatro, arte, eventi.
La Cooperativa Coolclub da oltre dieci anni si occupa di ideazione, organizzazione e promozione di eventi culturali e musicali. Sin dalle origini, però, la passione per la scrittura ha spinto i soci della Cooperativa a fondare anche un giornale. Dal 2003 al 2011 Coolclub.it è andato in stampa quasi ogni mese. Prima come semplice fanzine e poi, pian piano, come testata vera e propria con varie formule e dimensioni. Dal 2011 al 2015 il lavoro redazionale si è trasferito esclusivamente sul web ma senza grande convinzione. La nuova rivista in pdf lanciata a dicembre nel giro di pochi mesi e grazie al sostegno e all’incoraggiamento di molti si è subito trasformata nella nuova versione cartacea. «Questa lunga premessa – si legge nell'editoriale che accompagna la notizia – per spiegare a vecchi e nuovi lettori che, per noi, i fogli che avete tra le mani sono davvero molto preziosi. Leggere presuppone attenzione e concentrazione. Per questo chiediamo di prendervi tutto il tempo che serve per assaporare pian piano gli articoli che compongono Coolclub.it. Ogni mese cercatelo, leggetelo, prestatelo, conservatelo. Perché, come sospirano in molti scrollando le spalle, la carta è sempre la carta».

Il titolo del primo numero (disponibile anche su Issuu), “Riportando tutto in Puglia”, prendendo in prestito e modificando il titolo di un romanzo del Premio Strega Nicola Lagioia, è la sintesi perfetta del nuovo corso di Coolclub.it. «La nostra idea è quella di costruire un giornale tutto dedicato alla cultura che si muove dalla e nella nostra regione, con qualche piccola “divagazione”. Negli ultimi dieci anni da queste parti, cultura e turismo hanno vissuto un ottimo momento. Grazie ad alcune scelte pubbliche e all’impegno delle associazioni e delle imprese del “distretto creativo”, realtà come le nostre (e sono davvero tante) non sarebbero cresciute».
La prima copertina è dedicata al cantautore romano Daniele Silvestri che nel Salento ha registrato parte del suo nuovo disco “Acrobati” (tra lo studio di Roy Paci e la Masseria Ospitale), ha girato il videoclip del singolo “Quali Alibi” (la foto di Daniele Coricciati è stata scattata sul set diretto da Fernando Luceri e prodotto dagli amici della Passo Uno) e tornerà con il nuovo tour teatrale (appuntamento il 23 marzo al Teatro Politeama Greco di Lecce). Oltre al mensile cartaceo Coolclub.it è anche un sito (completamente rinnovato grazie alla collaborazione con il giovanissimo Antonio Scarnera) con altri contenuti, interviste, novità discografiche e videoclip. www.coolclub.it

CINEMA (visti per voi):

“LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT” un film di Gabriele Mainetti.

Quando la ‘poesia’ finisce nella discarica sociale è forse giunto il momento della rinascita culturale di una frangia umana nel compimento del proprio degrado e nello scoramento che l’ha portata alla deflagrazione ultima della propria esistenza ... Così ci si sente quando seduti comodi in poltrona nell’accogliente sala cinematografica prendiamo visione della surreale pellicola di Gabriele Mainetti, e ci accorgiamo che il cinema italiano, ha finalmente lasciato i vecchi schemi gogliardici per un film d’azione all’altezza della migliore produzione internazionale. E sì, perché finalmente abbiamo compreso, o almeno il regista sembra aver identificato quello ‘sprint’ che l’attualità richiede per stare al passo coi tempi. Non nuovissimo per originalità, in quanto prende le mosse dalla serie ‘Banlieue’ girata nella periferia di Parigi, pur tuttavia in Jeeg Robot è inserita quella ‘vena poetica’ che i cugini francesi non hanno e che personalmente mi ostino a reclamare in quanto umanità ferita, in ragione di una sensibilità che aggiunge alla pellicola, tutta ‘al negativo’, quel pizzico di ‘positività’ illuminante che tutto accoglie e trasforma, finanche all’interno della discarica sociale, lì dove l’umana presenza ha superato lo stadio di decomposizione per rinascere a nuova vita. Nel film è la scintilla rigeneratrice di Jeeg Robot (titolo di un famoso cartoon giapponese degli anni ‘80/’90) che, per così dire, ‘riscatta dalla realtà’ Enzo Ceccotti, il protagonista di questa storia surreale, trasformando la sua crudeltà senza ragione in una ‘realtà’ umana e spirituale che s’avvale della maschera, appunto quella di Jeeg Robot che, nell’idealizzazione antropica vince il male.
“Enzo Ceccotti non è nessuno, vive a Tor Bella Monaca e sbarca il lunario con piccoli furti sperando di non essere preso. Un giorno, proprio mentre scappa dalla polizia, si tuffa nel Tevere per nascondersi e cade per errore in un barile di materiale radioattivo. Ne uscirà completamente ricoperto di non si sa cosa, barcollante e mezzo morto. In compenso il giorno dopo però si risveglia dotato di forza e resistenza sovraumane ... » (pres. Mymovies.it) A momenti violento se non addirittura caustico, il film rottama tutti gli stereotipi generazionali con il cinismo e la crudeltà necessari per ricominciare a 'ragionare' su una nuova formula di società che tiene conto dell'alienazione contratta metropolitana dei perché senza risposta: dell'allontanamento sociale dei giovani dalla realtà, delle differenze di genere, delle classi che vanno abbattute, della segregazione nei ghetti abitativi. Insomma di quella fetta di 'proletariato' stufo di esserlo che reclama di vivere una 'vita' più autentica, magari fantastica, ma nel migliore dei mondi possibili. Tutti bravi 'a dir poco' gli interpreti, a cominciare dagli straordinari Claudio Santamaria (Enzo Ceccotti / Jeeg Robot), e Luca Marinelli (lo Zingaro), all’eccezionale quanto credibilissima Ilenia Pastorelli, e tutti gli altri come Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei impegnati nelle seconde parti e degni di almeno un premio. Non possono qui mancare i miei personali complimenti alla regia (da Oscar) di Gabriele Mainetti, giovane regista, compositore e produttore cinematografico al suo primo lungometraggio, per aver centrato al primo colpo e con maestria, una tematica ostica che, nel suo genere, rapporta il cinema italiano alla grande kermesse internazionale.

“FUOCOAMMARE” un film/documentario di Gianfranco Rosi che ha vinto l'Orso d'Oro alla Berlinale 2016.
Nel suo viaggio intorno al mondo per raccontare persone e luoghi invisibili ai più, dopo l’India dei barcaioli (Boatman), il deserto americano dei drop-out (Below Sea Level), il Messico dei killer del narcotraffico (El Sicario, room 164), la Roma del Grande Raccordo Anulare (Sacro Gra), Gianfranco Rosi è andato a Lampedusa, nell’epicentro del clamore mediatico, per cercare, laddove sembrerebbe non esserci più, l’invisibile e le sue storie. Seguendo il suo metodo di totale immersione, Rosi si è trasferito per più di un anno sull’isola facendo esperienza di cosa vuol dire vivere sul confine più simbolico d’Europa raccontando i diversi destini di chi sull’isola ci abita da sempre, i lampedusani, e chi ci arriva per andare altrove, i migranti. Da questa immersione è nato Fuocoammare. Racconta di Samuele che ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Ma non è un’isola come le altre, è Lampedusa, approdo negli ultimi 20 anni di migliaia di migranti in cerca di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.
“Fuocoammare si affaccia sulla porta per l’Occidente”, articolo di Camillo De Marco, per gentile concessione di Cineuropa alla redazione di larecherche.it
BERLINO 16/02/2016: Il regista Gianfranco Rosi, Leone d’Oro a Venezia con Sacro GRA, si è stabilito per più di un anno sull’isola di Lampedusa per girare il suo nuovo documentario. Facile ricevere così tanti applausi dalla platea della Berlinale con un documentario su un argomento, l’immigrazione, che sta spaccando in due l’Europa. Eppure Fuocoammare, in concorso al festival, sembra aver scaldato cuori e occhi soprattutto per come è realizzato. Sottile, asciutto, ma di respiro ampio, con la passione richiesta per affrontare questa immane tragedia ma la distanza necessaria per fissare lo sguardo senza le trappole della compassione. Lampedusa, come recita il laconico e spietato cartello che apre il film, è un’isola nel Mediterraneo che misura 20 km quadrati e 6mila abitanti. Dista 113 km dall’Africa e 205 dalla Sicilia. In vent’anni hanno tentato di sbarcare sulle sue spiagge 400mila migranti. 15mila sono morti nel tentativo. Il regista Gianfranco Rosi, Leone d’Oro a Venezia con Sacro GRA, si è stabilito per più di un anno su quest’isola per girare il suo nuovo documentario. Fuocoammare si apre su un bambino di 12 anni, Samuele, figlio di pescatori, ripreso mentre si costruisce una fionda con un ramo di pino marittimo che sbuca da un terreno aspro e roccioso. La natura dell’isola sarà un elemento dominante nel film.
Le rocce a picco sul mare, le onde minacciose sopra un’acqua purissima e profonda, le improvvise burrasche annunciate dai tuoni, un cielo azzurrissimo che diventa nero. Dopo avere introdotto il piccolo protagonista, Rosi ci assesta subito il primo pugno nello stomaco, e lo fa senza ricorrere alle immagini. Sulla radio di una nave della Marina italiana un uomo sta gridando: “Please please help us, we are sinking!”. Nel corso del film Rosi spesso opterà per una mediazione dello sguardo, lasciandoci osservare attraverso monitor militari, specchi, oblò bagnati e incrostati di salsedine. Ma negli ultimi minuti non ci risparmierà una visione totalizzante e dolorosa di morte nella stiva di un barcone. Sulla terraferma scorre intanto un piano narrativo parallelo: l’anziana zia Maria detta le sue dediche al dj di una stazione radiofonica locale; un pescatore si immerge con la muta per pescare ricci e patelle; Maria, la nonna di Samuele, si dedica al cucito e racconta al nipote vecchie storie di mare. I migranti, quelli che ce l’hanno fatta e sono in attesa, organizzano tornei di calcio.
Siria contro Eritrea, perché Somalia e Libia sono state già eliminate. Sembrerebbe solo un altro ‘perfect day’. Samuele va a scuola, gioca, non entra mai in contatto con quel mondo di disperazione, che gli scorre accanto. Ma allora perché quell’improvvisa difficoltà a respirare che lo prende di tanto in tanto, e lo costringe ad andare dal medico? Il medico, il dottor Pietro Bartolo, quello che da vent’anni cura le ustioni chimiche da carburante dei migranti, la disidratazione, che fa nascere i bambini delle donne africane appena sbarcate, che i bambini spesso è costretto a seppellirli. “Odio fare le autopsie. Ne ho fatte troppe. Ho gli incubi”, confessa. “Ma è dovere di ogni uomo, che sia un uomo, aiutare queste persone”. Rosi, dopo aver descritto gli universi chiusi dei drop-out del deserto americano di Below Sea Level e dei ‘freaks’ del Grande Raccordo Anulare di Roma, è andato dritto al cuore di una grande comunità fantasma che si affaccia sulla porta dell’Occidente, sul confine più simbolico d’Europa. Un film che va mostrato a studenti e parlamentari europei.

(Vedi anche l'indirizzo larecherche.it l'intervista di Vittoria Scarpa a Gianfranco Rosi regista del film, per gentile concessione di Cineuropa.)


NEWS FROM CINEUROPA 16/03/2016
In Alto Adige l’esordio di Andrea De Sica con “I figli della notte” di Camillo De Marco.
Unico italiano scelto nell’ultima sessione Eurimages, il film coprodotto da Vivo Film con la belga Tarantula. Unico italiano scelto nell’ultima sessione Eurimages per il sostegno alle coproduzioni ‘I figli della notte’ è il film d’esordio di Andrea De Sica, che ha battuto il primo ciak il 7 marzo scorso a Dobbiaco in Alto Adige. Andrea - nipote del grande Vittorio De Sica e figlio di Manuel, musicista autore di colonne sonore - ha lavorato al fianco di Bernardo Bertolucci, Ferzan Ozpetek e Vincenzo Marra dopo essersi formato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e prodotto da Vivo Film di Gregorio Paonessa e Marta Donzelli con Rai Cinema, in coproduzione con la belga Tarantula e con il contributo del MiBACT e Eurimages e il sostegno di IDM – Film Fund & Commission dell’Alto Adige. Il film narra la storia di Giulio (Vincenzo Crea), un ragazzo 17enne che riesce a sopravvivere alla solitudine e alla dura disciplina di un collegio per rampolli dell’alta società grazie all’amicizia con Edoardo (Ludovico Succio), un altro ospite del collegio. I due diventano inseparabili e iniziano ad architettare fughe notturne dalla scuola-prigione. Completano il cast principale Fabrizio Rongione nel ruolo dell’educatore Mathias e Yuliia Sobol. La location scelta dalla produzione per le riprese è il Grand Hotel Dobbiaco, un’antica struttura in stile asburgico che entrò in servizio come albergo nel 1878 ed è oggi diventato un Centro Culturale. Le riprese dureranno 4 settimane, interamente in Alto Adige. Nato da una idea originale di Andrea De Sica ‘I figli della notte’ è scritto dallo stesso Andrea con Mariano Di Nardo in collaborazione con Gloria Malatesta e prevede alla fotografia Stefano Falivene, con le scene di Dimitri Capuani, i costumi di Sabine Zappitelli e il montaggio di Alberto Masi.

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Ancora per il ‘teatro e musica’ suggerisco “FRAMMENTO” di e con Marco Colonna (clarinetti) e Natasha Daunizeau (voce-recitante).

La sera è quella della ‘prima’, vi assisto incuriosito di poter trovare in un ‘recitativo in musica’ una qualche originalità, forse solo perché è un genere che non ha avuto il tempo di logorarsi in quanto ha goduto di vita breve, in ragione di non aver mai davvero riempito gli spazi e i tempi propri del teatro, essendo un genere più adatto ai salotti della ‘bonne societé’ aulica e colta, con la puzza sotto al naso, che oggi, giustamente, non ha più ragione d’essere. Un genere quindi scomparso dalla scena pubblica da parecchio tempo, che solo in tempi più recenti ha fatto una qualche sporadica apparizione grazie al ridimensionamento degli spazi teatrali e comunque per la rilevante scarsa affluenza di pubblico ormai disinteressato a qualunque cosa. Trattasi pur sempre di un pubblico comunque avaro di eccitabilità, che rigetta le lungaggini di testi polverosi che hanno fatto il loro tempo, per rivolgersi a spettacoli più diretti che, a una obsoleta macchinazione teatrale preferiscono la dinamicità degli intenti, ai dialoghi concettuosi la ‘liquidità’ di contenuti che più si adattano al rinnovato temperamento di ‘consumatori della scena’, in cui le immagini in movimento e il freddo nichilismo la fanno da padroni.
L’ambientazione è per l’appunto quella sopra delineata, la cantina-pub-ritrovo è il 28DiVinoJazz nascosta in una via secondaria della sterminata ed eterna Roma che, proprio in ragione di questa sua immensità riesce ad occultare non poche e pregevoli sorprese a chi è alla ricerca di ‘autenticità’. E che sia in fatto di musica, sia di intrattenimento culturale, la ‘vinerie’ al 21 di Via Mirandola benché distante dal centro della movida cittadina, non viene dopo nessun’altra. I due owner, Natacha Daunizeau e il suo compagno Marc Reynaud che animano con passione e abnegazione il Jazz Club più amato d’Italia, come risulta dalla classifica Jazzit Award, al tempo stesso entrambi invischiati nella musica e nel teatro, ben sanno il fatto loro e accolgono ogni singolo avventore con il calore che solitamente si riserva agli ‘amici’. L’ambiente è angusto (per questo si richiede la prenotazione) ma ospitale; la scenografia essenziale presenta un drappo nero a simulare il buio, un tronco d’albero spoglio dove appendere un lume, e una luna piena ‘quella degli innamorati e dei disperati’ che aspettano la notte ... e che puntualmente arriva all’ora stabilita, con l’abbassarsi delle luci.

‘Lei' (Natasha Daunizeau), arriva attraverso il parco (dei tavolini e degli avventori) nelle vesti di aviatrice, con in mano un lume e una sacca in spalla, guarda davanti a sé e incomincia a camminare, quindi affretta il passo correndo in cerca di una meta che non c’è, che non ha ragione d’essere, dando così inizio al racconto … ‘come dentro una bolla’ - dirà. No, è solo un ‘frammento’ di vita, l’esplosione di uno specchio andato in frantumi nella fatica di emergere nel marasma della globalizzazione, in cui ogni piccolo pezzo riflette una parte di sé, una ‘realtà’ propria, autentica, vissuta fin nella trama del tessuto che ne ricopre il corpo. ‘Lei’, donna, amante, madre, ancor prima è femmina, per quella sorta di divinità che tutta la investe e la stravolge nel momento in cui è partecipe della ‘creazione’, nell’illusoria ‘verità’ del testo scabro quanto essenziale, paragonabile alla figura stessa dell’interprete, lascia basiti, immobilizza, perché scava profondamente in ciò che non si è mai voluto affrontare della insostenibilità dell’essere. Per quanto avvolta della sua ansietà di vivere ‘Lei’, abbandonati i panni di chi s’era organizzata per un lungo ‘viaggio senza fine’, si spoglia, fa il suo ingresso in società, per poi, spaventata, riprendere la corsa, quella che era ed è una fuga dalla realtà, per ritrovarsi infine sulla strada, a piedi nudi, insieme a tutti noi … che prendiamo a correre insieme a 'Lei'. Per andare dove? Per raggiungere chi? Per appropriarci di cosa? – sembra chiedersi e chiederci l’autore Marco Colonna. ‘Lei’ sa, ognuno di noi lo sa, stiamo fuggendo verso un domani che non ha fine.

Marco Colonna, jazzista, pluristrumentista, arrangiatore, compositore, è l’autore di questo testo travolgente che la bravissima Natasha Daunizeau, credibilissima nella parte di ‘Lei’, ha recitato con pieno senso della scansione vocale e gestuale, in cui la musica ‘concerta con la parola e diventa parola essa stessa’, dando luogo a quella formula alchemica che è all’origine del ‘teatro totale’, di quel fare teatro che ben conoscevano i greci, allorché fondarono l’istituzione dell’intrattenimento corale, appunto del ‘recitativo in musica’ che qui, intuitivamente, si vuole riscoprire. Già dagli accordi iniziali improntati al clarinetto era intuibile ciò che l’autore aveva intenzionalmente preparato per l’occasione, il suono fuoriusciva ‘neutro’ dallo strumento, asciutto ma non scarno, essenziale, avulso da qualsiasi scala musicale da sembrare quasi primitivo, tuttavia con una gamma di toni e suoni atipici da riempire tutto lo spazio attorno, i vuoti e le pause, l’andamento ora lento ora più concitato del testo. Quello che è seguito è inimmaginabile, Marco Colonna ha rivelato tutto il suo essere egli stesso ‘musica’: l’insieme degli strumenti a fiato e seconda voce recitante, un connubio tangibile, clamoroso di effetti che si rincorrono, ora anticipando l’affanno di ‘Lei’ nella corsa fin quando, placatasi, le fornisce il suono lungo della riflessione, dell’andatura piana e del riposo nella sosta.

La chiave di tutto questo è indubbiamente il Jazz, per il suo rincorrersi dei suoni, gli allacci verbali, l’uso lirico delle note lunghe, dei fiati trattenuti, delle pause. Un uso creativo magistralmente dei fiati nel jazz che Marco Colonna ha promesso di rivelarmi, seppure fosse lo svelare di un segreto nel corso di un’intervista prossima che non mancherò di pubblicare sulla rivista che mi ospita – larecherche.it – e che, di volta in volta mi offre lo spunto per ripercorrere tutte le strade possibili della musica e della poesia. Di per sé, è forse già questo il segreto che vorrei Marco Colonna mi svelasse e sul quale intendo soffermarmi, e che a mio avviso è intrinseco di quella stessa poesia che si è rivelata essere la cifra eleggibile del suo testo e della sua musica; quell’amore sconfessato per la donna in tutte le sue metamorfosi simbiotiche, l’essere la donna paritaria alla musica, in quanto contenitore di tutto ciò che ne concerne. Quella musica che nella mitologia popolare pur nasce dal ventre femminile, e che egli sembra vivere in sé con enfasi primordiale, estrapolandone i suoni più angusti, quasi un preludio al cambiare delle stagioni: dall’annuncio della primavera al susseguirsi delle altre stagioni, fino all’arrivo dell’inverno, l’ultima, estrema … ‘..di nostra morte corporale’.

Si replica al 28Divino Jazz - Via Mirandola, 21 - 00182 Roma Produzione Marc Reynaud, www.28divino.com. – 340.8249718 dopo le 16.00.
IN CONCLUSIONE

Non vorrei ammetterlo, ma credo di aver smarrito il filo. Se non erro siamo partiti dall’uovo di cioccolato dopo aver parafrasato sull’uovo univesale (?); sulla musica delle sfere (che non sono ovali), sui caratteri tradizionali della festività alle porte, (che racchiude come in un cerchio, questa volta sì ovale le feste calendariali); sulla rinascita della natura a primavera, nonché sulla rigenerazione della vita … No, non mi pare ci fosse dell’altro, anche perché mi sono dilungato abbastanza su aspetti non sempre consoni alla tematica di fondo, e cioè la Pasqua e sul mistero teologico della ‘resurrezione’, la cui accezione più estrema volge a significare ‘recupero’ e ‘reintegrazione’, vediamo di trovarci d’accordo nel condannare ogni forma di discriminazione di genere, che sia razziale o di diversa comunione, di sesso o di scelte politiche, nell’unico modo possibile per mettere fine alle guerre fratricide, alla fame nel mondo, alla salvaguardia di questo meraviglioso pianeta che ci è donato.

Con questi propositi nel cuore, lascio volentieri la parola all’Enciclica “Pacem in Terris” (1963) di P.P. GIOVANNI XXIII° , in cui è detto:

“Ogni essere umano ha diritto alla libertà di movimento e di dimora all’interno della comunità sociale e politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consigliano, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi con esse. Per il fatto di essere cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale”.

Felice Pasqua a Tutti.



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