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Tell spring not to come this year - recensione film

Argomento: Cinema

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 18/11/2015 06:43:50

‘TELL SPRING NOT TO COME THIS YEAR’

Un film di Saeed Taji Farouky e Michael McEvoy, presentato nell’ambito di Milano XXth Film Festival 10-20 Settembre 2015, allo Spazio Oberdan e non ancora apparso nelle nostre sale cinematografiche, se mai questo possa avvenire.

 

È la prima volta che mi spingo a recensire un film sulla guerra e lo faccio volentieri per questo documentario dal titolo letteralmente poetico, solo perché ‘nel suo insieme’ dichiara apertamente gli orrori della guerra, denunciando tutte quelle false-ideologie che tanto attraggono i giovani d’oggi in ogni paese del mondo, per dire loro che piuttosto sono i messaggi di pace che si devono portare avanti, che la guerra porta solo altra guerra, distruzione, morte. Lo so, anche questa è una frase fatta che sentiamo ripeterci da sempre, ma che tuttavia risulta inascoltata. Voglio ricordare ai giovani che seguono la musica, che vanno ai concerti, ai rave-party, che anche lì si può trovare la morte se non ci si conduce con intenzioni pacifiste, di semplice incontro, di fraternità sotto l’egida di quella musica che tutti ci accomuna. Voglio qui ricordare loro un brano che oggi può sembrare sciocco, in cui si diceva: ‘Mettete dei fiori nei vostri cannoni’; oppure quell’altro: ‘C’era un ragazzo …’ che pur nella sua semplicità racconta dei guasti d’una guerra infame, perché ogni guerra è infame, quando porta via la gioventù del mondo uccidendola brutalmente, rovesciando sulla terra un fiume di lacrime e di sangue che nessuno potrà lavare. Solo la pace, che tutto accoglie in sé e cancella in noi i ricordi del nefasto passato che ci portiamo dietro; che tutto perdona e tutti affratella nella giustizia e nella libertà, può colmare le fosse del diverbio, della vendetta, dell’olocausto in nome di una qualche verità che sappiamo essere falsa. Oggi, dopo quanto sta accadendo in diverse parti del mondo, dopo che a centinaia i giovani e intere famiglie sono state depredate della loro gioia di vivere, non abbiamo una canzone da cantare, perché nessun canto può risollevarci dal massacro finale cui andiamo incontro, questo documentario ci dice, e lo fa con le sue immagini, che dobbiamo voltare le spalle alla guerra, ai falsi-ideali che ottenebrano la visione illuminata del creato in cui noi siamo destinati e beneficiati di vivere.

 

Sinossi di Paola Piacenza (pubb. in MyMovies 2015)

'Se sentite paura vuol dire che la morte è vicina\': è questa l’unica verità che il comandante Jalaluddin, consegna ai propri soldati. Sul campo, a Helmand, nel sud del Paese, da un anno senza il supporto delle forze Nato, dopo il ritiro della missione nel 2013, i registi embedded nella terza brigata dell’Afghan National Army, entrano in un territorio proibito. Filmano la quotidianità della vita in caserma, la febbrile monotonia dell’attesa, l’ordinaria amministrazione delle attività di pattuglia alla ricerca dei talebani e la sanguinosa frenesia del combattimento. Un film che ci trasporta sul campo di battaglia di una guerra mai finita, ma tragicamente non più raccontata.

 

Note di regia: 'Tell Spring Not to Come This Year' sfida le tradizionali rappresentazioni mediatiche della guerra in Afghanistan e dell'Esercito Afghano, affrontando una grande lacuna nella copertura di notizie: il punto di vista degli stessi soldati afghani. Il film segue la storia degli uomini di un’unità mentre vivono, lottano, ridono e muoiono insieme. È uno sguardo sottile e umano nei confronti di un tema ampiamente coperto dai media, ma poco compreso. È il primo film a cui è stato concesso un vero e proprio inserimento nell’Esercito Nazionale Afghano, e i registi sperano che contribuirà al dibattito sul futuro dell’Afghanistan umanizzando i soldati afghani, mostrando cosa sia veramente la loro guerra ed esplorando le sfumature del conflitto e del paese. L'Afghanistan inevitabilmente scomparirà dai titoli dei giornali una volta che le truppe straniere se ne andranno, ma il film si propone di fissarlo saldamente nell’agenda dei media, presentando le storie di chi vivrà a contatto con la guerra anche molto tempo dopo che la NATO sarà andata via.

 

Saeed Taji Farouky

Premiato documentarista e direttore della fotografia, da oltre dieci anni focalizza la sua attenzione sul tema dei conflitti. Nel 2011 è stato premiato con un Senior TED Fellowship per il suo lavoro sul documentario, ed è stato in precedenza nominato Artist-In–Residence presso il British Museum e la Tate Britain. I suoi film precedenti sono stati trasmessi su Channel 4 (Regno Unito), CBC (Canada) e ARTE / ZDF, tra gli atri. Tell Spring Not to Come This Year, il suo terzo documentario cinematografico, è stato presentato alla Berlinale 2015 ed è stato premiato con Saeed Taji Farouky l’Amnesty International Human Rights Film Award e l’Audience Choice Award.

 

Michael McEvoy

Ha prestato servizio per nove mesi in Afghanistan dove ha lavorato come traduttore intermediario ufficiale per le forze armate britanniche nell’Afghan National Army. L'esperienza lo ha aiutato ad avere una conoscenza più approfondita delle difficoltà quotidiane dei soldati. Ha inoltre lavorato per svariate ONG in Medio Oriente e Asia.Tell Spring Not to Come This Year è il suo primo film.

 

Intervista a Saeed Taji Farouky di Thomas Humphrey (pub. in Cineuropa Magazine il 16/11/2015)

 

Il regista palestinese-britannico Saeed Taji Farouky racconta com'è stato girare Tell Spring Not to Come This Year, il suo ultimo documentario, con l'esercito afgano in una zona di conflitto, chiaramente determinato a spingersi oltre i confini del genere documentario. Farouky ha dimostrato quanto sia impegnato nella ricerca di nuove forme e nuove verità. Girando ripetutamente in zone di guerra, però, sta anche diventando rapidamente un punto di riferimento per coloro i quali vogliono documentare in modo simile la verità, dove a volte è più necessario. Questo avviene sul campo, a Helmand, nel sud del Paese, da un anno senza il supporto delle forze Nato, dopo il ritiro della missione nel 2013, i registi embedded nella terza brigata dell'Afghan National Army, entrano in un territorio proibito. Filmano la quotidianità della vita in caserma, la febbrile monotonia dell'attesa, l'ordinaria amministrazione delle attività di pattuglia alla ricerca dei talebani e la sanguinosa frenesia del combattimento.

 

Cineuropa: Quant'è stato difficile girare in una zona di guerra?

 

Saeed Taji Farouky: Sa, in quel tipo di situazione credo che diventi solo una questione di fortuna. Che tu sia al sicuro o meno. Voglio dire, Mike ha un background militare, io no. Quindi abbiamo fatto un po' di briefing prima di andare lì, e mi ha dato un training di base. Mi ha insegnato dove camminare (in modo da rischiare il meno possibile di calpestare una mina), e mi diceva cosa fare se fosse successo questo o quello. Così ho avuto una conoscenza di base di come destreggiarmi in una zona di guerra, e mi è stato utile. Ma in realtà, alla fine, quando non si ha la possibilità di prendere decisioni da soli, credo che si tratti solo di fortuna. Voglio dire, c'era gente accanto a noi che è stata ferita gravemente. Diventa solo una questione di trovarsi nel posto giusto o sbagliato, al momento giusto o sbagliato.

 

E quant'è stato difficile reperire i fondi, di conseguenza?

 

Saeed Taji Farouky: È stato molto difficile. Penso che in generale sia davvero difficile finanziare documentari non ortodossi - diciamo, documentari non strettamente basati su informazioni o notizie. Ma sì, questo è particolarmente vero se il documentario è ad alto rischio e imprevedibile come questo. Voglio dire, non c'era modo di sapere come si sarebbe sviluppata la nostra storia, o cosa ci sarebbe successo. Inoltre, il mio approccio non è mai veramente tipico o commerciale. Quindi, per vari motivi, è stato un progetto piuttosto difficile da finanziare.

 

Come ci siete riusciti, alla fine?

 

Saeed Taji Farouky: Essenzialmente, usando in parte il nostro denaro. Il primo viaggio mio e di Mike in Afghanistan l'abbiamo pagato interamente con i nostri soldi. Poi, con il materiale raccolto in questo viaggio, siamo riusciti a trovare un co-produttore britannico. Ci hanno dato un'iniezione di liquidità, che ci ha permesso di continuare a girare fino a quando abbiamo avuto altri soldi dalla NHK (l'organizzazione di radiodiffusione pubblica nazionale giapponese). Infine, abbiamo presentato un premontaggio alla Goldcrest a New York, che è diventata la nostra casa di post-produzione. Hanno coperto i costi di post-produzione. Così tutto ciò che rimane ora da recuperare lo ricaviamo dalle vendite TV, online, dai cinema, ecc.

 

Avrebbe qualche consiglio per coloro i quali vogliono fare documentari simili?

 

Saeed Taji Farouky: Insegno molto ultimamente, o tengo corsi di perfezionamento sul documentario; ma non consiglierei mai a nessuno di fare il lavoro che faccio io. Ho lavorato in diverse zone di conflitto per circa dieci anni, quindi ho una certa esperienza. Ma è anche una decisione che ho preso personalmente perché valeva la pena rischiare. Per quanto mi riguarda, rischierei la vita solo per fare un film davvero unico e che contribuisca al panorama del cinema di guerra.

 

A cosa desidera contribuire di più?

 

Saeed Taji Farouky: La mia priorità è sempre e solo quella di raccontare una buona storia umana. Non voglio istruire le persone o dare loro un messaggio politico. Mi auguro solo che lo spettatore medio guardi questo film e pensi: "Sì, va bene, capisco questo tizio. Capisco la sua voce, le sue paure e il sogno che ha per questo Paese. Capisco il dolore che stanno provando, e le decisioni strane che possono averli costretti ad arruolarsi nell'esercito." Voglio solo che la gente possa identificarsi. Poi magari spero che pensino, "Va bene, quindi queste sono le conseguenze se il mio governo andrà in guerra."

 

E in futuro? Vuole continuare a fare documentari o ha anche progetti di finzione in mente?

 

Saeed Taji Farouky: Sì, è così. Sono stato introdotto al cinema attraverso la finzione; non ho mai diretto un lungometraggio di finzione, ma è sempre stata il mio primo amore. Quindi sì, mi piacerebbe fare film di finzione, e ho alcune idee. Solo che ho un sacco di documentari che si mettono in mezzo. Sono certo di fare un film di finzione a un certo punto, però. Ci sto solo arrivando molto lentamente.

(Tradotto dall'inglese per Cineuropa.org)

 

Il documentario di Saeed Taji Farouky e Michael McEvoy ci ricorda quanto fallace possa essere il giornalismo occidentale.Sembra incredibile pensare che il mese scorso ha segnato il quindicesimo anniversario dell'invasione dell'Afghanistan. Forse perché quelle orrende immagini degli attacchi dell'11 settembre sono ancora così indelebilmente impresse nella nostra memoria, mentre gli anni di occupazione successivi sono passati con una rapidità apparentemente impossibile. Inoltre, quasi a nostra insaputa, la lotta continua ad imperversare nella regione e pare sia un argomento degno di discussione. Quindi chiedetevi questo: quand'è stata l'ultima volta che avete visto l'invasione dell'Afghanistan analizzata dal punto di vista di un nativo? Anzi, quando mai avete sentito parlare un afgano della sua esperienza, al di là di qualche estratto di due minuti in un notiziario? Beh, è proprio quella parte del dialogo che Michael McEvoy e Saeed Taji Farouky hanno cercato di ristabilire con la loro co-produzione tra Regno Unito e Afghanistan, ragionata e poetica, che da il titolo al film-documentario: ìTell Spring Not to Come This Year'.

Ora, come suggerisce il titolo, questo non è necessariamente un documentario leggero e ottimista. Ma non è nemmeno un film che descrive la situazione afgana con inutile mestizia. Osserva semplicemente. Racconta con una calma apparentemente indifferente e aggraziata le lotte quotidiane dell'Esercito Nazionale Afgano. Lo fa seguendo una società di armi pesanti con sede in una delle zone più difficili della famigerata provincia di Helmand, e in alcune delle sue scene più assurde accanto a questi uomini, questo film è davvero avvincente. E neanche perché drammatizzi o glorifichi la loro sofferenza. Invece, Tell Spring Not to Come… ha un stile delicato e lirico, che sembra quasi assomigliare al ritmo espansivo e lento di Timbuktu di Abderrahmane Sissako. (da me recensito su questa stessa rivista letteraria) E proprio come in questo film di finzione, i registi catturano questo senso di clima e cultura diversi, e poi lo restituiscono abilmente a noi in sala. Infatti, artisticamente parlando, 'Tell Spring Not to Come…' si comporta un po' come un film di finzione, e in qualche modo questo lo fa sembrare ancora più fattuale, o meglio, più fedele alle emozioni catturate.

In gran parte questo è ottenuto dalle numerose scene a rallentatore ben misurate e artistiche e, talvolta, dal fatto che i suoi soggetti sono descritti con primi piani statici, dando il senso di trovarsi in un'esperienza che trascende i fatti di base. Inoltre, essendo montato su una solida miscela di registrazioni audio intime, il film raggiunge ugualmente il suo obiettivo di dare voce a chi sta ancora combattendo per assicurare la pace, e lo fa in un modo piuttosto piacevole. Il fatto che questo film eviti completamente i discorsi prolissi e le voci fuori campo sembra anche cancellare abilmente la presenza dei registi, e sicuramente rende la visione del film essenziale per chi è interessato all'attuale evoluzione dei documentari d'essai. Anche se di per sé, è assolutamente affascinante vedere degli uomini sfortunati che cercano di dare un senso alla guerra davanti alla macchina da presa. In più, questo film mostra le divisioni che esistono sul terreno in Afghanistan, in un modo che non avreste mai immaginato. Che siano tra l'esercito, la polizia o i talebani, i conflitti adrenalinici e ragionati a un tempo che vediamo, sembrano molto istruttivi. E sia che si metta in discussione la loro fedeltà all'America o al proprio esercito, o che assistiamo a uno scontro di religione, ideologia, cultura o disperazione, 'Tell Spring Not to Come…' non smette mai di sembrare un'istantanea vitale.

 

Il film inoltre ha ottenuto il primo premio alla XII edizione del festival internazionale di documentari. DocumentaMadrid 2015, appena conclusosi nella capitale spagnola.

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