'TIMBUKTU' un flm di Abderrahmane Sissako
‘Quando la poesia è nelle mani di chi sa usarla e la distribuisce in forma di immagini’. Non vuole essere uno slogan ma il riconoscimento di un ‘dato di fatto’ che investe l’arte cinematografica e narrativa e finisce per essere musica e, come la musica, si propone come linguaggio. Di fatto questa stravolgente ‘opera’ potrebbe fare anche a meno di seguire una sceneggiatura o, permettetemi la digressione, uno straccio di ‘copione’ che spieghi ciò che nel film accade (come nella realtà). Basta osservare/immergersi nelle immagini, nella luce degli avvenimenti narrativi, nei colori di una natura che tutto fonde nell’oro puro del creato, per comprendere ciò che stiamo distruggendo.
La bellezza della poesia infine ci salverà?!
È quanto vorremmo sentirci dire ed è quello che questa pellicola sembra affermare pur nel dramma che in essa si consuma. Nella sequenza straordinaria nella gazzella impaurita che non avrebbe scampo se un ‘uomo’ armato fino ai denti a un certo punto non avesse un sussulto d’amore e la lasciasse andare. Nessuno ha mai giocato una partita di calcio senza un pallone da calciare, sì che risulta vera più che mai, la cui autenticità impressa nei volti dei ragazzi che la giocano è una pagina di pura illusione poetica. C’è amore in ciò che Abderrahmane Sissako, uno dei pochi registi dell'Africa nera ad aver raggiunto una reputazione internazionale, regala all’occhio dello spettatore che incredulo assiste alla visione di un mondo edenico che scorre lento davanti alla macchina da presa quasi fosse per il racconto del tempo.
Che forse l’amore ci salverà?
Salverà l’Africa, questo mondo primordiale che non si lascia conquistare dalla negletta affermazione umana che quasi offende il suolo che calpesta? Sì, afferma il regista del film, se altri, come lui sapranno cogliere la dimensione dell’amore per la vita come lui ha colto e con questo film ha distribuito con pienezza poetica. Ma c’è in esso qualcosa in più che ancora non ho detto e che meglio di me hanno già detto altri commentatori e critici cinematografici cui lascio la parola volentieri per aver assaporato attraverso le recensioni (almeno una in particolare) quanto detto precedentemente.
È il caso della recensione di Giancarlo Zappoli apparsa in Mymovies.it e che trascrivo pur senza autorizzazione, perché ciò che è universalmente concepito al dunque merita di essere divulgato: “La fonte di ispirazione di questo intenso quanto rigoroso film di uno dei Maestri del cinema africano è rintracciabile in un fatto di cronaca accaduto in una cittadina del nord del Mali. Una coppia è stata lapidata perché portatrice di una colpa inaccettabile agli occhi accecati degli integralisti islamici: i due non erano sposati. Sissako però non vuole essere il narratore di un fatto di cronaca accaduto in un Paese che non fa notizia e non origina mobilitazioni internazionali. Vuole raggiungere, riuscendoci, un obiettivo molto più elevato. Lo testimonia la stessa struttura del suo film che si sviluppa sul piano di una continua alternanza per almeno tre quarti della narrazione. Da un lato uomini che cercano a fatica nella lingua araba la loro radice mentre impongono norme che condizionano anche la più quotidiana delle attività avendo spesso di mira le donne e dall'altra la vita di una famiglia che conosce l'armonia e la fedeltà (quella vera e profonda) nelle relazioni parentali e al cospetto della divinità.
Allo stesso modo che ci fa percepire la distanza abissale tra questi mondi grazie anche a una fotografia di straordinaria bellezza e intensità che non si perde mai nell'estetismo autoreferenziale. Non è un film anti-islamico il suo (il discorso che l'imam locale fa al neofita jihadista ne costituisce la prova più evidente). È piuttosto un grido di allarme lanciato a un Occidente spesso distratto (salvo quando si presentino episodi mediaticamente rilevanti come il sequestro di giovani studentesse) e talaltra incline a pensare che in fondo l'integralismo sia una rivolta contro i secoli di colonialismo che si propaga dall'interno delle varie realtà nazionali. Nulla di tutto ciò risponde a verità ci dice il regista: siamo di fronte a un'oppressione che arriva da fuori e prende a pretesto una supposta fede per sottomettere intere popolazioni. Non resta allora alle nuove generazioni che fuggire come gazzelle dinanzi a belve assetate di sangue infedele oppure, come ci viene proposto in una sequenza al contempo di grande forza ed eleganza, di continuare a giocare una partita proibita. Anche se non c'è il pallone.”
Forse ci salverà il perdono!?
E' il grido 'primo e ultimo' - dice il regista - che riscatta infine la sua opera e il nostro operato di giudici (occidentali) da ciò che non siamo più capaci di comprendere e di attuare, quel 'perdono' pesante da contenere e difficile da attuare, insito in ognuno di noi e che va oltre il genere, la razza, il colore della pelle, e che non sappiamo come gestire ... o che forse non abbiamo mai saputo arginare al di là d'ogni nostra possibile dimensione di religiosa umanità.
Titolo originale del film « Le chagrin des oiseaux » ( il dispiacere ‘o anche pianto’ degli uccelli), diretto da Abderrahmane Sissako; con Ibrahim Ahmed, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara, Hichem Yacoubi. Con le musiche di Amine Bouhafa. Lingue utilizzate nel film oltre all’arabo, il francese e il tamashek (Mali). Assolutamente da non perdere.
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