La recitazione è differente dal normale comportamento?
Ho notato i corsivi, Maestro. Lei voleva mettermi di nuovo in difficoltà. Questo discorso sulla recitazione non si alza dal livello teorico. La recitazione è sempre la recitazione di qualcosa e – nel caso del teatro rappresentativo – è la rappresentazione di un ruolo. Franco Graziosi che interpreta Cotrone (in costumi di scena, in una scenografia, con altri attori, sotto la regia di Strehler) non è Corrado d’Elia che interpreta gli scriti di Strehler (vestito normalmente, da solo, senza scenografia, senza regista all’infuori di d’Elia). Eppure Franco Graziosi e Corrado d’Elia recitano. Il verbo è lo stesso, recitare, ma il fatto è diverso.
La recitazione che fa di Graziosi un Cotrone non è la recitazione che fa di d’Elia uno Strehler. La recitazione di Graziosi è “differente dal normale comportamento”; e – sempre in casa di Strehler – la Ilse di Andrea Jonasson non ha nulla – ma proprio nulla – del “normale comportamento”: sia per come la parte è voluta da Pirandello sia per come la interpreta Jonasson. Voglio dire che la recitazione o si mostra nella casistica – e noi giudicheremo la casistica – o è un’astrazione.
Qual’è la differenza tra un attore e un non attore?
Nessuna: sono umani. Ma l’attore è un professionista, il non attore fa un’altra professione. A certi livelli, l’attore – Artaud, Bene – si dissocia dall’umanità. Naturalmente è un modo di dire, come è un modo di dire l’immortalità di Gino De Dominicis.
Eppure.
Eppure le esigenze umane sono superabili. C’è chi pensa di poterlo fare, e nel momento stesso in cui lo sa, deve “cessare di saperlo” (come Martin Eden quando passa a miglior vita), salire al Mistico, tacere, muto e morto, stop, fine.
Di un attore io dico solo: funziona? Va bene. Dà più svantaggi che svantaggi? Perfetto. E poi mi chiedo sempre: quali sono le condizioni? Queste o quelle. Bene. In queste condizioni io chiamo Alvaro Vitali, in quelle chiamerò un altro. A Ninetto Davoli, ad Alvaro Vitali, a Pierluigi Zerbinati, io chiedo solo ciò che possono fare. Mi accontento dei loro limiti e ci faccio il meglio che posso. Possono trasumanare e superare i loro limiti, sotto una regìa carismatica, ma è un sorpasso illusorio: i limiti sono superabili all’interno di una gabbia precisa di possibilità. A me va bene così.
Come può un attore, senza alcuna formazione psicologica, comprendere in modo diretto il funzionamento della psiche umana?
Maestro, lei mi mette di nuovo in difficoltà. Prima di tutto, e davvero in principio: non è necessario avere una “formazione psicologica”. In ogni caso, chi è privo di questa formazione, ha comunque una psiche. Metalinguisticamente, autocriticamente, ogni volta che il non-psicologo si interroga su se stesso, fa della psico-logia, cioè un discorso su se stesso, a se stesso. Non vedo il problema.
Io non posso assentarmi dal particolare (e dal particulare, sempre). Va bene? Mi faccia pure un’altra domanda. Mi impegno, vede.
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