Opera prima, questa del cinquantenne milanese Camporeale, solida, ben scritta, assai stimolante nella ricchezza di echi di una formazione di non indifferente livello che si dimostra meditata e rielaborata entro una riflessione originale e personale che sa passare agilmente da un registro crepuscolare e quasi demodè a un timbro grottesco, ora salace ora impudente. A guidarlo una visione di bellezza sfigurata, di un mondo di piccola provincia o di periferia urbana, raccolto attorno a piccoli quadri di sogni smarriti o appena intravisti negli occhi di una giovinezza o di una infanzia ricucita in una età adulta forse compressa ma ben presente nella lucida malinconia della sua veglia. Che è quella della nostalgia, allora, della inarrivabilità come destino di cose non avute ma in quanto vagheggiate comunque conosciute, felicità di barlumi intravista per oratori, nei cortili, nei piccoli e grandi abbracci di fiere e stazioni, meraviglia di giovani donne ma soprattutto di campi descritti magistralmente con l'occhio di chi sa la compiutezza appartenere ad altri animali, agli animali sì e agli uccelli soprattutto. Così è un viaggio questo, come da titolo, tra dimenticanze, di aggraziate e crude mortalità condivise, di grida perse nell'indifferenza del tempo e del mito, restituite nella condizione di un amara confidenza che si fa arte nella tenacia presenza del suo distacco. E del suo dipingersi, perché Camporeale prima fa vedere e poi risuona dietro gli accenti di un raccogliersi che nel perdersi però poi ci dilata e dunque pur nell'ombra ci fa eterni. Un discorso dall'ombra come da lezione di autentica poesia, dettata come accennato dai banchi di autori che hanno informato e formato tanto nostro grande novecento, da Gozzano evidentemente ed amici, ma anche Cardarelli, Montale (per alcuni giri di affabile perplessità del reale), di Saba, Carderelli, Penna finanche nel fulmineo richiamo dell'icona. Ma pure da tanto esercizio transalpino, luogo caro e inseguito con l'ironia colta del piccolo scalpellino che guarda a se stessi e agli altri con affettuoso disincanto, con disincarnata ma viva pazienza che è poi quella del tenersi stretti "quel poco che il destino avanza/per la nostra sete di assoluti" nel mistero di una natura in cui si è sospesi. Non a caso l'immagine cara al pensiero, nella tensione del dialogo, è quella della neve col suo "potere d'attutire/i colpi dolorosi" cui nella consapevolezza della zolla provare l'attesa del filo d'erba, l'ora pronta dal solco a involarsi stella, a farsi canto per quel vuoto d'amore cui sangue non potrà bastare. Dimensione questa che è la vera misura di un dettato che non scantona, teneramente, ironicamente anche, vivo: vero.