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Passi sui sassi

Poesia

Cinzia Della Ciana
Effigi Edizioni

Recensione di Enzo Rega
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Pubblicato il 06/10/2017 12:00:00

 

Dopo il romanzo Acqua piena di acqua (2016), che fa seguito ad altre opere narrative, Cinzia Della Ciana esordisce in poesia con Passi sui sassi (Effigi, 2017). Come si vede (si “sente”) dai titoli, il lavoro di Cinzia Della Ciana è molto attento ai suoni. Nel primo caso l’iterazione di una stessa parola, nel secondo caso una sorta di rima interna al titolo, assonanza e consonanza insieme, con queste “s” che si ripetono in modo allitterativo. Così è anche per i titoli dei capitoli del romanzo (tutti incentrati sulla parola “acqua”) e delle sezioni delle poesie (“Scorticati passi”; Stazionati sassi”; “A spasso”; “Sorpassi”; “Sassaie”). Il lavoro sulla scrittura è dunque fondamentale: per usare la categorizzazione di Roman Jakobson, è pienamente centrata la “funzione poetica” nella quale l’attenzione è concentrata non tanto sul destinatario o sul contenuto del messaggio, ma sulla forma stessa del messaggio. “Nel caso del linguaggio verbale, essa [la funzione poetica] focalizza l'attenzione sull'aspetto fonico delle parole, sulla scelta dei vocaboli e sulla costruzione delle frasi. Il suo obiettivo è comunicare la propria forma, suscitare emozioni o riflessioni tramite la musicalità delle parole. L'alternanza regolare di fonemi vocalici e consonantici ha lo scopo di rafforzare l'espressività del messaggio” (wikipedia). In letteratura, in poesia soprattutto, è sempre così, ma ci sono autori nei quali tale aspetto ha una rilevanza maggiore. L’attenzione-concentrazione esasperata sul significante, il gioco fonosimbolico – fare del significato attraverso la “forma” del suono – sono una caratteristica della poesia di Cinzia, in un’accentuata sperimentazione che però non l’apparenta alla neo-avanguardia o ai suoi epigoni: una scrittura atipica oggi, ma anche nel panorama italiano. Questo scavo sulle risorse sonore del linguaggio l’allontana dalla linea petrarchesca che ha caratterizzato molta parte della lirica italiana – benché lei, nata a Montepulciano viva proprio ad Arezzo, patria di Petrarca. Questa poesia è invece ascrivibile al filone dantesco più petroso, e non a caso Dante compare in questo libro (vedi Ruina) il cui titolo richiama proprio i sassi, le pietre.

Passi sui sassi, un road-poetry, una poesia del viaggio, ma di un viaggio accidentato qual è quello di ogni vita, tanto che nei suoni, talvolta aspri, duri, prodotti da questi versi, e dal loro ritmo incalzante nell’incontro-scontro dei suoni, sentiamo il rumore delle pietre smosse dai piedi che compiono i passi. Un ritmo, come qualcuno ha detto, che può ricordare la musica di Beethoven che orchestra un’armonia di livello superiore, mai facile.

Di “viaggio iniziatico” parla Adriana Gloria Marigo nella prefazione, un viaggio arduo nel quale, “pagina dopo pagina, affiora con forza petrosa la catarsi resiliente che trova nella parola non consueta, ricercata, colta, arcaica, collocazione alta […]” (p. 7), con “voci trecentesche, molto sonore” (p. 8). La stessa prefatrice sottolinea il ruolo della poesia-manifesto La Route, una sorta di baudelairiano Invitation au voyage, possiamo dire, dove leggiamo: “Canto il cammino, nostro presente. / Meta è il passo sasso non teme, lo compie la mente / pronta risposta la staffa preme”. La meta è il passo, dunque il viaggiare stesso, in un eterno presente; il che ci ricorda, tra i tanti, il Nietzsche per il quale nel viaggio conta il viaggiare: non c’è meta finale perché ogni passo, ogni momento, è meta. Un viaggio non solo fisico, ma anche e soprattutto mentale. Questo viaggio è un nastro che si srotola, un fiume eracliteo che scorre. Ed Eraclito qui tiene insieme due eraclitei così diversi tra loro, il Nietzsche dell’inizio, ed Hegel della fine: “La strada dà il senso al nostro canto, / sarà così: d’improvviso scoprirsi arrivati, / col viaggio che ci avrà fatti e inventati” (p. 13). È il divenire che ci fa ciò che siamo, che costruisce la nostra identità che non è mai data all’inizio del percorso. Sono i Passi sui passi del testo successivo, altro gioco di parole sull’iterazione della parola intera e non solo sui suoni come invece nel titolo del libro (passi/passi invece di passi/sassi).

Il senso del viaggio, del movimento c’è dato, anche in altri casi, dal moto dell’acqua, protagonista anche qui, come nel romanzo menzionato. Due esempi possono essere, in due sezioni diverse, Telamonio, scoglio (p. 33) e The Thames (p. 51). Nel primo caso vediamo giocare fra loro tutti gli elementi fondamentali – la terra, il sole come fuoco, il mare come acqua e un movimento di vento che ci suggerisce l’aria: “Gemano le spume sprezzanti / e lacere taglino gli spruzzi acuti”. Nella seconda, un fiume, il Tamigi, appare come “mare aperto”, dentro un argine che sì, regge la forza dell’acqua, ma non protegge. E “l’animo erra”: erra dunque nel senso di vagare, ma anche sbagliare e smarrirsi. Infatti, più giù due volte si legge interrogativamente: “È così perdersi?”.

The Thames potrebbe essere considerata “poesia d’occasione”, nata dalla visita di un luogo; ma la visita diventa a sua volta occasione per una riflessione poetica universale. È così anche in altri casi, nei quali il luogo, il paesaggio vengono stenografati. Se nella tessitura sonora viene sollecitato il senso dell’udito – anche solo nell’immaginazione del suono nella lettura in silenzio –, in questi casi viene coinvolta la vista. E udito e vista – sensi elettivi – sono a loro volta i testimoni del viaggio. Alla fine di Miraggio – non a caso così intitolata in una crasi di “mirare” e “viaggio” –, subito prima di The Thames, leggiamo,: “Appigli i tuoi passi, / artigli i tuoi occhi, / miraggio lassù” (p. 50). Siamo qui nella sezione A spasso, che già nel titolo si pone come luogo di visitazione di luoghi. Proprio per questa sezione, anche la prefatrice pone in stretto collegamento poesia e sguardo, e pittura. La poesia si fa stenografia dei luoghi attraversati, delle immagini, secondo il motto oraziano Ut pictura, poësis, “come nella pittura, così nella poesia”. E la Morigo risale fino a Simonide di Ceo che scriveva “la pittura è una poesia muta e la poesia, una pittura parlante” – riecheggiato successivamente, possiamo ricordare, nel Trattato della pittura da Leonardo Da Vinci: “La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede”. È la cosiddetta “poesia ecfrastica” che si è cimentata fin dall’omerica descrizione dello scudo di Achille nel rendere “visibile con le parole”. Ed esemplare, nel libro di Cinzia, è il primo testo di questa sezione, Santa Fiora (p. 48). Ma anche Sky Line (p. 37), nella sezione precedente, esprime il carattere ectodico di questa poesia, e nel finale compare un dito che dipinge: che dipinge, possiamo aggiungere, anche battendo i tasti di un computer. Tornando a Santa Fiora, c’è qui un neologismo – e i neologismi sono frequenti in questa ricerca poetica –, “grigiare”, nel quale, come altrove, un sostantivo diventa verbo rafforzando visivamente – in questo caso – la sensazione del mutamento atmosferico. Quindi l’immagine si fa poesia non solo attraverso il significato delle parole, ma più sostanzialmente attraverso la stessa materia sonora del significante. Anzi, sembra che le immagini stesse suggeriscano la sonorità che deve pronunciarle: “Mentre dall’alta piazza / palizzata di palazzi” ecc., e poi “aperta terrazza / carezza vuota”. Qui, e altrove, è come se dalle parole, dalla loro sostanza fonica, si volesse trarre tutto il possibile. Come scrive in una nota online Armando Saveriano (Facebook, 18 settembre 2017): “Una trafittura lessicale, una densità di scrittura e un intreccio che tien conto di tutte le possibilità offerte dalla lingua e dal reticolato di simboli, allegorie, arcipelaghi innovativi, al limite della generosità neologica”.

Non è solo il paesaggio antropizzato a essere investigato nella propria storia, ma anche la natura, rivissuta verbalmente come un quadro, come in Bosco lungo (p. 39), tra i cui alberi, in cerca di storie, muovono ora i passi. Il linguaggio si essenzializza poi, fino al verso di una sola parola, quando dal paesaggio lo sguardo si ferma sull’Umano, su quella parte dell’umano che il mondo femminile, l’altra metà – e più – del cielo: “Solo / umano / è / l’intera donna”.

L’insistenza sugli aspetti linguistici, sulla scrittura potrebbero indurre, leggendo queste analisi, a pensare a una poesia come puro divertissement formale il cui referente è solo un pretesto. Ma, come si diceva, la sperimentazione di Della Ciana è altro rispetto a quella volutamente ed allora necessariamente dissolutrice delle neo-avanguardie, e la ricerca del senso della vita è proprio portata avanti esplorando lo strumento che dice la vita, e cioè la parola. Questo viaggio nella parola tiene insieme presente e futuro, nonché il passato, tenendo insieme la vita stessa che tra passato e futuro si tende, rendendola eterno presente. Passi sui sassi, la poesia eponima, che chiude anche la raccolta, si conclude, rilanciando il viaggio: “E tu riparti col ricordo del futuro / nel seminare passi sui sassi / eterni il presente” (p. 81).

 


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