chiudi | stampa

Raccolta di saggi di Giovanni Aniello
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

- Storia

Montecassino e la piana del Garigliano nell’XI secolo

        Nel corso dell’XI secolo l’Abbazia di Montecassino ricevette una quantità di donazioni e lasciti non certo casuali né spiegabili come semplice manifestazione di  devozione.

Nel 1058 Marino di Traetto e sua moglie Oddolana donarono all'Abbazia di Montecassino la quinta parte della contea di Traetto e del Castrum di Fratte e la metà del castrum di Spigno con la sola condizione che il monastero continuasse a chiedere agli abitanti solo quei servigi e quelle prestazioni che da tempo antico erano soliti rendere ai conti di Traetto. Ma l'abate si dimostrò più magnanimo: nel 1061, con una carta di franchigia e di libertà personali unica nel suo genere, il monastero riconosceva agli abitanti di Traetto privilegi superiori a quelli riconosciuti loro dai conti, anche relativi ai fondamentali diritti di libertà e di persona, in quanto si obbligava a non esercitare su di loro violenza né a permettere che altri la esercitasse e a garantire libertà di matrimonio e quella di allontanarsi a piacere dal territorio.

Nel 1066 Riccardo e Giordano di Capua donarono all'Abbazia la Torre a mare e la Torre del Garigliano compresa la striscia di terra sulla sponda destra del fiume dalla foce all'Ausente; nel 1071 fu donato a Montecassino un terzo di castrum Argenti e nel 1078 il castello di Suio; nel 1085 Giordano di Capua vi aggiunse una striscia di terra lungo la stessa sponda destra da Suio all'Ausente nonché una striscia di terreno lungo la sponda sinistra, in territorio di Sessa, ininterrottamente da Mortola alla Torre a Mare.

Inserite in quel contesto storico, tali donazioni si spiegano con la  persistente ricerca da parte dell’Abbazia di uno sbocco al mare e  con la creazione di un corridoio lungo il Garigliano considerato come la via naturale più idonea allo scopo.

Era una politica che veniva da lontano.

Il monastero di Montecassino fu nel Medioevo un centro prestigioso di studi per l'Italia e per l'Europa: monaci dotti e umili amanuensi ne fecero il centro di diffusione di scriptoria e biblioteche che ancora oggi custodiscono preziosi capitali di cultura e qui vissero e operarono monaci famosi come Paolo Diacono, il più grande storico dell'alto medioevo, e futuri papi come Vittore III e Gelasio II, originario di Gaeta.

Inserita nella sfera politica dei Longobardi di Benevento, sopravvissuti per oltre 3 secoli ai Longobardi settentrionali, l'Abbazia possedeva un vasto territorio su cui esercitava la propria giurisdizione e da cui ricavava ingenti risorse economiche. Ma, saccheggiata e data alle fiamme dai Saraceni del Garigliano, i monaci superstiti furono costretti a rifugiarsi nell'833 a Teano e nel 915 a Capua dove salvarono molti documenti e costruirono un nuovo monastero.

Quando nel 949 ritornarono a Montecassino trovarono il proprio territorio disastrato: i conti di Aquino e Teano si erano impadroniti di quasi tutti i possedimenti dell'Abbazia e ai monaci non restava che la semidistrutta città di S.Germano (l'odierna Cassino) e il monte su cui ricostruirono il monastero. Infatti anche i pochi abitanti rimasti, senza la protezione dei monaci, si erano posti sotto quella dei signori feudali vicini.

Nello spazio di 15 anni l'Abbazia tornò in possesso di tutti i territori usurpati con una serie di cause promosse contro i principi di Capua e Benevento: sono i famosi Placiti, tra cui quello di Castro Argento del 1014 riguardante la controversia tra l'Abbazia e i conti di Traetto che gestivano ( sulla base delle bolle di concessione dei papi Giovanni VIII e Giovanni X a Docibile I e Giovanni I, duchi di Gaeta, rispettivamente nell'882  e 915 ) un territorio tra gli Aurunci e il Liri comprendente i villaggi di S. Ambrogio, S. Andrea, S. Apolllinare, S. Stefano e Vallefredda.

Ma anche i monaci rivendicavano sullo stesso territorio i diritti di giurisdizione legati alla costituzione della Terra di S. Benedetto e alle concessioni di Gisulfo II nel 744 e di Carlo Magno  nel 787, riconfermate più volte fino alla definitiva attribuzione di Lotario nel 943.

Il riconoscimento di questi territori era di fondamentale importanza per l'abbazia di Montecassino per realizzare un corridoio al mare attraverso il corso del Garigliano con la costruzione di un porto a Suio.

E il Placito risolse a favore del monastero la controversia.

 L'importanza di questa via di comunicazione fluviale per l’Abbazia è dimostrata  sia dal fatto che nel 1066 i marmi per la chiesa del monastero, trasportati via mare da Roma fino alla Torre del Garigliano, risalirono via fiume di qui fino a Suio dove furono trasbordati e trasportati fino all'abbazia, sia dalla costanza con cui gli abati realizzarono questo corridoio con i riconoscimenti e le donazioni di cui abbiamo parlato: a cominciare da quella del 788 del duca di Benevento con cui il monastero riceveva il porto di Traetto e quello sul Volturno con le relative vie d'accesso ai porti e sulle sponde e i territori adiacenti, da S.Ambrogio al Tirreno, anche per evitare imboscate e pagamenti di dazi.

La via d'acqua del Garigliano, a causa delle condizioni disastrose della viabilità terrestre durante l'alto medioevo, poteva infatti costituire un importante collegamento tra costa ed entroterra anche se presentava due gravi problemi: gli scogli di Suio e l'innalzamento della foce.

L'esistenza degli scogli, attestata nel 1001 da Leone Ostiense, costituiva un grave ostacolo in quanto impediva a grossi natanti di spingersi oltre la stretta gola di Suio, ma fin lì il fiume è sempre stato navigabile sia nell'alto Medioevo sia in epoca moderna ( testimonianze del Settecento parlano di barche che dal mare entrano nella foce inoltrandosi per 3 miglia fino al tenimento di Castelforte in una ripa detta delle pietre a commerciare vino, grano e altri generi). Oltre tale limite gli scogli e le 9 cateratte più a monte permettevano il trasporto e il commercio di legname e carbone solo a barche piatte dette sandali guidati da capaci battellieri (i sandalari del Garigliano) famosi e richiesti in tutta l'area napoletana perché abilissimi a navigare in tali situazioni di rapide e mulinelli.

L'altro problema del fiume era costituito dall'insabbiamento e dal conseguente innalzamento della foce dovuto sia al flusso lento del fiume che all'eccessiva quantità di detriti trasportati: il tratto finale pendeva all'indietro con un dislivello di 4 metri all'altezza dell'Appia mentre la profondità del fiume, in genere di 8 metri, si riduceva a circa 1 metro alla foce impedendo alle barche cariche di entrare e uscire ( problema già attestato in un passo di Ulpiano in età romana).

Eppure avere il controllo del fiume era di particolare importanza per la comunicazione verso l'interno, ma soprattutto per le cospicue rendite che l'Abbazia otteneva col pedaggio pagato da chi lo attraversava: è probabile che per tutto l'alto medioevo l'attraversamento del Garigliano all'altezza dell'Appia era già regolato dallo scafario in vigore nel XII secolo (documento conservato nell'archivio di Montecassino).

I diritti di traghetto prevedevano che chiunque passasse a piedi utilizzando le scafe del monastero fosse tenuto al pagamento di 9 grane allo scafario cassinese sia all'andata che al ritorno. La somma saliva a 12 grane e ½ per chi passava con gli attrezzi del mestiere (sarto, calzolaio, muratore, falegname, vasaio, venditore) e non si sottraevano al pagamento neanche i suonatori ambulanti e le prostitute. Il pedaggio per l'attraversamento con gli animali era rapportato alla loro taglia (12 grane e ½ per  asini, muli, cavalli e mucche; 9 grane e ½ per pecore e capre) e al valore del carico trasportato ( 18 grane per oro e argento grezzo; 12 grane per carichi di minor valore fino a 3 grane e ½ per pepe, pesce o formaggio). Erano esentati dal pagamento i corrieri dei papi e dei re; pedaggio ridotto a 9 grane per corrieri di duchi e baroni e limitato a una candela per monaci e rappresentanti dei mendicanti.

La scafa era nel medioevo, fino a quando gli Aragonesi costruirono un nuovo ponte di legno, l'imbarcazione di fortuna con cui veniva assicurato il passaggio del Garigliano.

Lo stesso sistema era utilizzato anche negli altri fiumi meridionali dove la larghezza e il loro carattere torrentizio, ma anche la natura per lo più alluvionale del terreno, rendevano problematica la costruzione di ponti e bloccavano spesso il traffico soprattutto nel periodo invernale.

I ponti romani andati in rovina vennero costruiti, infatti, solo dove i fiumi attraversavano le città anche perché le tecniche costruttive del tempo non erano capaci di garantire ponti stabili e sicuri. Questi mancavano anche su affluenti secondari, anch'essi difficili da guadare in periodi di piena.

Le scafe utilizzate per passare da una riva all'altra erano costruite con tronchi d'albero legati in modo da formare un cassaro piatto che tra gli interstizi lasciava intravedere l'acqua del fiume, sprovvisto di parapetti e tirato per mezzo dei tradizionali sarti. Accanto a scafe più grandi come quella di Traetto erano presenti nella piana anche scafe secondarie fino a Suio, che però non reggevano grossi pesi ed erano quindi di scarsa utilità per il commercio.

La loro utilizzazione era pericolosa se non proibitiva nei periodi invernali.

Un'idea della loro struttura e del loro funzionamento possiamo ricavarla con sufficiente precisione da documenti scritti e iconografici di età moderna:  le impressioni grafiche delle vedute del disegno di Francisco de Hollanda (prima metà del 1500), delle incisioni di A.D'Anna (1791-92), di Smith (1796), di F. Gandini (1832) e del disegno di F. Hackert (1804) forniscono informazioni sulla scafa del Garigliano confermate dall'Apprezzo del 1690 e dalla “Statistica” del Regno di Napoli nel 1811. Questi documenti ci consentono di capire quale concreto pericolo rappresentasse la scafa per chi doveva imbarcarsi per attraversare un fiume come il Garigliano, soprattutto quando era in piena.

Il quadro  è allarmante: strade di accesso non curate, scomode per uomini e diligenze; nessuna precauzione presa in periodi di piena e allagamenti; scafe poco sicure affidate a personale inesperto nella costruzione e nel funzionamento; traversate allo scoperto anche con la pioggia e senza alcuna divisione tra persone, animali e diligenze; animali che spaventati calpestavano e ferivano i viaggiatori. Una situazione di grande insicurezza che sarebbe migliorata solo nell'Ottocento con Patti tra gestore e Stato che prevedevano scafe comode e solide con parapetti lungo i lati corredati di catene tese durante la traversata, con bloccaggio delle ruote delle carrozze, con un sandalo aggiuntivo a bordo come scialuppa di salvataggio, con gomene e funi di ormeggio aggiuntive per la sostituzione di quelle rovinate per l'usura e per l'attrito.

 

 


Id: 627 Data: 02/05/2017 13:38:42

*

- Storia

La colonia saracena del Garigliano e la politica papale

         Nell'Alto Medioevo la storia della piana del Garigliano si intreccia con quella di Gaeta che dal VI secolo si avviò a diventare una città importante nella storia d'Italia.

Diventata ducato indipendente durante la dominazione bizantina, Gaeta vide aumentare la propria importanza con l’interruzione delle comunicazioni sulla strada di Roma determinata dall’arrivo dei Longobardi e dalla formazione del ducato di Benevento e del principato di Capua all’altezza del Garigliano con il conseguente spostamento del traffico sull’itinerario marittimo Gaeta – Napoli.

Gaeta si oppose alla conquista longobarda mantenendo legami di alleanza con i Bizantini ma, come per le altre città marinare meridionali (Napoli, Sorrento e Amalfi), si trattò di legami solo formali, utili a mantenere una propria indipendenza effettiva sotto il governo dei duchi locali.

Infatti, a partire dall'867, consolidò la propria autonomia con Docibile I e i suoi successori estendendosi sulla terra ferma fino ad inglobare il territorio di Formia e giungere lentamente fino al Garigliano.

Alla fine del IX secolo, come molte città costiere della fascia tirrenica centro-meridionale, anche le terre del ducato di Gaeta furono esposte agli assalti dei Saraceni: nell'846 bande saracene distrussero Formia e nell'agosto di quello stesso anno devastarono e saccheggiarono le basiliche di Roma. Il tentativo di attaccare Roma si ripeté nell'849 via mare, ma fu fermato da una flotta cristiana composta da navi di Gaeta, Napoli e Amalfi che sconfisse quella saracena ad Ostia.

Nel giugno dell'868 una numerosa flotta saracena cercò di sbarcare alla foce del Garigliano col proposito di occupare Gaeta.

Il papa Giovanni VIII, preoccupato del pericolo saraceno e visto che le ripetute richieste di aiuto agli imperatori Lotario e Carlo il Calvo non avevano risolto il problema, iniziò una fitta attività diplomatica per allentare la rete di amicizia che legava i principi meridionali ai Musulmani e decise di riunirli in congresso nel giugno 877 nel castello di Traetto (l’attuale Minturno). A presiederlo fu lui stesso anche se ciò comportò, come registrano documenti dell'epoca, la sua assenza al Sinodo da lui già indetto a Ravenna.

I capi di Salerno, Benevento, Capua e Gaeta si riunirono nel castello di Traetto dal 24 al 27 giugno sotto la presidenza del papa che già dal 16 era ospite della sede vescovile della città; ma i tre giorni di congresso non diedero i risultati sperati. L’accordo per la costituzione di un fronte unico contro gli infedeli non fu raggiunto e il papa fu costretto a percorrere vie più concrete offrendo 12.000 mancusi d'argento a Napoli e Amalfi in cambio di precisi impegni: Napoli avrebbe interrotto i rapporti con i Saraceni e Amalfi avrebbe difeso con la propria flotta il litorale tirrenico dal Garigliano a Civitavecchia.

Ma quando fu chiaro che neanche quest’offerta sarebbe bastata a far mantenere gli impegni il papa minacciò gli Amalfitani di scomunicarli e bandirli dal commercio nel porto di Ostia. Solo allora Pulcare, duca di Amalfi, mise in mare la flotta in difesa delle coste laziali da Traetto a Civitavecchia com'era nei patti; ma in verità non ruppe mai definitivamente i buoni rapporti che lo legavano ai musulmani per garantirsi i propri traffici commerciali nell'intero Mediterraneo.

Fu quest'affannosa e costante ricerca di formare una coalizione antimusulmana a spingere papa Giovanni VIII a concedere in signoria a Pandenolfo di Capua nell'880 i patrimoni ecclesiastici di Traetto nominandolo Rector del Patrimonium trajectanum.  

Esasperato dal comportamento del papa e dalle continue incursioni di Pandenolfo  nelle terre a destra del Garigliano fino a Mola (l’attuale Formia) dove arrecava danni agli abitanti di Gaeta che vi si recavano a macinare i cereali, il duca di Gaeta Docibile chiamò in aiuto i Saraceni che, accampatisi sui colli formiani a difesa dell'indipendenza del ducato, si rivelarono ben presto un pericolo perché da qui partivano per saccheggiare le terre vicine.

Il papa, resosi conto dell'errore commesso ritirò la concessione a Pandenolfo e la trasferì a Docibile aggiungendovi il territorio di Fondi a condizione che combattesse i Saraceni fino ad espellerli.

La prospettiva di poter esercitare un effettivo dominio su un territorio che si estendeva da Terracina al Garigliano convinse Docibile ad affrontare e scacciare i Saraceni dalle colline formiane fino al Garigliano dove si stabilirono costituendo una difesa contro i Longobardi di Capua e Benevento.

Da questa colonia, però, i Saraceni continuarono ad assaltare e saccheggiare chiese e città dei territori vicini: nell'ottobre 881 distrussero il monastero di S. Vincenzo al Volturno; nel settembre 883 saccheggiarono e incendiarono Montecassino costringendo i pochi frati rimasti a rifugiarsi a Teano; nell'ottobre dello stesso anno saccheggiarono Fondi, Terracina e Anagni; nell'884 attaccarono Teano dove però furono affrontati e sconfitti lasciando sul campo 115 dei loro.

La prima azione militare contro questa colonia saracena del Garigliano fu tentata nell'886 da Guido di Spoleto a cui aveva chiesto aiuto papa Stefano V con la promessa di incoronarlo imperatore.

Ma due anni dopo, morto l'imperatore Carlo il Grosso, Guido abbandonò l'impresa perché interessato alla successione imperiale.

Intanto i Saraceni del Garigliano si rafforzarono grazie ai nuovi arrivi di arabi da Agropoli.

Fallito anche un secondo tentativo, tra il 903 e il 908, con la sconfitta nella battaglia della Sétera  dell'esercito confederato di Capua, Amalfi e Napoli, solo nel 915 gli Arabi del Garigliano furono definitivamente scacciati dalla zona in una durissima battaglia svoltasi molto probabilmente in quell'area che ancora oggi porta il nome di Vattaglia.

L'esercito cristiano era formato da un'ampia lega: una flotta inviata dall'imperatore bizantino al largo del Garigliano, le truppe dell'Imperatore Berengario, quelle comandate personalmente dal papa Giovanni X che partecipò alla battaglia, quelle dei principi napoletani e quelle del duca di Gaeta che, in cambio dell'alleanza, si vide riconfermare il possesso di tutti quei territori che già il papa Giovanni VIII gli aveva assegnato e che avremmo trovato nominati nel Placitum Castri Argenti.

Fu in quell'occasione che Giovanni I, duca di Gaeta, fece costruire sulla riva destra del Garigliano, all'altezza della città romana, La Turris Gariliani per celebrare la vittoria sui Saraceni, come si ricava da un'epigrafe in seguito utilizzata come materiale da costruzione del campanile della cattedrale di Gaeta. Questa torre, ricordata in vari documenti fino al 1300, perse lentamente la funzione per cui era stata costruita e diventò, col nome di bastia, un fortino di appoggio e difesa della scafa e tale restò fino all'Ottocento quando fu distrutta per costruire il ponte pensile che ancora oggi si vede sul Garigliano. Con gli stessi obiettivi militari di difendersi dai Saraceni Pandolfo Capodiferro, duca di Capua, fece costruire sulla riva sinistra del fiume, tra il 961 e il 981, la Turris ad mare che sopravvisse fino alla seconda guerra mondiale: restaurata dal ministro minturnese Pietro Fedele e adibita a museo fu minata e abbattuta dall'esercito tedesco in ritirata.

 


Id: 620 Data: 08/03/2017 11:25:24

*

- Storia

Da Minturnae a Traetto: cenni di storia minturnese.

         Quando si affacciò alla storia la Minturno ausone doveva occupare probabilmente la stessa posizione di oggi e costituiva con Vescia, Ausona, Suessa e Sinuessa, la pentapoli aurunca, una confederazione politico-militare alleata ai Sanniti che provò ad opporsi alle mire espansionistiche di Roma verso l'area delle coste campane.

La sconfitta subita dai Sanniti a Terracina (314 a.C.) segnò anche il destino della pentapoli: le città furono occupate e rase al suolo e, come annota lo storico romano Tito Livio nella sua opera, la gente ausone fu cancellata.

Fu l’inizio dei lavori della via Appia nel 312 a.C. ad opera di Appio Claudio l’evento che fece risorgere Minturnae.

L’Appia, che avrebbe collegato Roma a Capua, nella nostra zona scendeva da Formia lungo la costa, attraversava il fiume Garigliano all'altezza della foce e deviava verso l'interno collegandosi a Suessa (l'attuale Sessa Aurunca) dove nel 313 a.C. era già stata trasferita una colonia romana.

 Accanto al ponte che attraversava il fiume, sulla riva destra, sorse il primo insediamento romano su schema rigidamente quadrato innervato da un nuovo trasferimento di popolazione nel 296 a.C. quando i romani fondarono le colonie di Minturnae e Sinuessa (l'attuale Mondragone) e l'Appia fu deviata lungo la costa per raggiungere questa nuova colonia  e l'Ager Falernus costeggiando i pendii meridionali del monte Massico: un percorso che avrebbe tenuto fino a tutta l'età imperiale.

I successivi trasferimenti di popolazione, prima con Cesare e poi con Augusto, fecero crescere la città di Minturnae.

Attraversata dalla via Appia che ne costituiva il decumano massimo su cui si affacciavano templi e foro, servita da un acquedotto, dotata di teatro e di terme, la città divenne fiorente, punto di approdo del commercio marittimo non solo locale.

Lo confermano sia i resti di rilevanti strutture portuali, di cantieri navali e magazzini dove i battellieri (navicularii) accatastavano le merci in arrivo e in partenza, sia la presenza - secondo quanto attestano alcune epigrafi - di un conductor portus Lirensis (un responsabile della gestione del porto) e di un Q.Caelius architectus navalis. Anche Ulpiano,  in un passo della sua opera, parla delle responsabilità del primo armatore costretto dalle difficoltà dovute all'insabbiamento della foce a trasbordare la merce su un’altra nave se quest'ultima fosse affondata.

Una città, quindi, che fu snodo commerciale fondamentale se nell'elenco delle città mercato e dei prodotti tipici Catone annota nel suo De Agri Cultura che acquistava gli arnesi in ferro, falci, zappe, scuri e vomeri a  Minturnae, a Cales (Calvi) e a Suessa, le macine di lava per le olive a Pompei e a Suessa, gli oggetti in rame e in bronzo, i recipienti per l'olio, l'acqua, il vino e altri utensili in bronzo a Capua e Nola e se Diodoro (V,13) riferisce che il minerale ferroso estratto nell'isola d'Elba non era più lavorato in Etruria, ma trasportato via mare a Puteoli (l'odierna Pozzuoli) e di qui portato nelle città vicine, specialmente a Cales e Minturnae che avevano officine che producevano attrezzi agricoli ampiamente impiegati nelle campagne romane.

Grazie alla grande abbondanza di legname in luoghi vicini alle officine e all'eccellente rete stradale e portuale le città della zona svilupparono l'industria del ferro che produceva sufficientemente per i bisogni interni e per l'esportazione, affiancata da altre industrie (profumeria, argenteria, gioielleria e mobilio) che non interessavano Catone (tanto che non ne parla) ma di cui riferiscono fonti posteriori.

Nell'età repubblicana ed imperiale Minturnae era quindi ben inserita nel circuito produttivo dell'area campana, vero centro industriale del tempo, e restò nodo stradale e commerciale essenziale sull'asse nord-sud: anche la Tabula Peutingeriana (II-IV sec) ne faceva il punto di transito obbligato per i collegamenti di lunga percorrenza, crocevia per gli itinerari sia verso Suessa che verso Sinuessa, ma anche verso l'interno attraverso la via delle Acquae Vescinae e la via Herculanea che si collegavano alla via Latina per Ausona e Casinum.

Se alla testimonianza di Cicerone (in una lettera ad Attico del 44 a.C. scrive di aver attraversato il pons Tirenus a Minturnae e svoltato verso la via Herculanea per raggiungere la sua casa di Arpino) aggiungiamo quella di Plinio che parla della colonia di Minturnae attraversata dal Liri (Liri amne divisa) e la rappresentazione che ne fa in un disegno Igino Gromatico, abbiamo l'idea di una città in espansione, cresciuta su entrambe le rive del fiume e forse sui declivi del colle vicino in seguito alle nuove assegnazioni di terre ai veterani.

A partire dal VI secolo carte e itinerari di età alto medievale indicano ancora Menturnis come scalo della via Appia, ma la mettono in contatto con Suessa e non più con Sinuessa confermando un ritorno all'antico tracciato, probabilmente a causa dell'impaludamento di consistenti tratti di strada oltre il Garigliano e dello sprofondamento in mare di parte di Sinuessa dovuto a fenomeni di bradisismo. Ma l'impaludamento nell'alto Medio Evo colpì non solo la nostra piana ma anche  quella pontina dando maggiore importanza alla via Latina,l'altro fondamentale itinerario nord-sud a cui comunque Minturnae era ben collegata.

            Forse fu questo lento processo di impaludamento più delle incursioni di Goti, Vandali e Longobardi a spopolare la piana: gli acquitrini a destra e a sinistra del Garigliano, coincidenti con le Paludi Minturnesi dove si rifugiò Mario perseguitato da Silla prima di imbarcarsi per L'Africa su una nave fornita dai Minturnesi, rendevano Minturnae una città dall'aria pesante e poco salubre (Ovidio parla di Minturnae graves e Strabone accenna a un aere crasso da cui era colpita la città). Probabilmente sono anche questi i motivi che spiegano le difficoltà incontrate a suo tempo dall'amministrazione romana a trasferire in quest'area la colonia del 296 a.C.

La presenza della zanzara anofele e le conseguenti febbri malariche costrinsero gli abitanti ad abitare in aree meno rischiose dove, costretti sui monti, disboscarono nuovi declivi per assoggettarli alla coltivazione aggravandone il dissesto idraulico: aumentarono alluvioni e frane cui seguì un ulteriore impaludamento della piana e l'allontanamento della popolazione residua. Un contributo non certo secondario dovettero fornirlo gli straripamenti del Garigliano e dell'Ausente nel periodo delle piene autunnali per la difficoltà del fiume a smaltire l'acqua a causa dell'insabbiamento della foce, soprattutto in condizione di mare agitato.

La forte diminuzione di popolazione che colpì Minturnae portò alla soppressione del suo vescovado e all'aggregazione della chiesa locale a quella di Formia su decisione del papa Gregorio Magno nel 590 d.C.

Intanto, tra il VII e il IX secolo, la popolazione rifugiatasi sul colle costruiva Traetto con i materiali dell'antica Minturnae.

In questo periodo avaro di informazioni le uniche ci provengono dal Codex Diplomaticus Cajetanus che riferendosi a quel vasto territorio che si estendeva dal fiume al castrum di Maranola e a quello di Fratte e che si apprestava a prendere l'eredità di Minturnae parla di un Patrimonium Trajectanum governato da un Rector di nomina papale.

Con la costruzione di Castro Leopoli la nuova comunità tornò ad essere sede vescovile mentre della città romana ormai deserta non restava che il nome destinato a scomparire anch'esso: nell'839 era vescovo un tale Leone, sanctus episcopus sante menturnensibus cibitati Kastri Leopoli.

Costruito forse da papa Leone III, di cui porta il nome,Castro Leopoli doveva comprendere il castello e l'attuale agglomerato di Portanova mentre il nucleo originario di Traetto doveva limitarsi all'attuale rione Cappella. Inglobato da Traetto non avremo più notizie di Castro Leopoli né del vescovado di Minturnae che, dopo la presenza di 4 vescovi tra l'830 e il l000, scomparve di nuovo tanto da  non essere nominato neanche nel Placitum Castri Argenti nel 1014 dove il vescovo sarebbe dovuto esser presente (se fosse stata operante la sede vescovile) sia per l'importanza dell'evento che per la presenza di tutte le autorità: segno di una nuova soppressione del vescovado.

Ma siamo già sulla strada di Traetto: una pergamena dell'830 nomina già un petro de Traietto.

L'origine del nuovo nome assunto dalla città, nonostante le controverse opinioni degli studiosi, ha sicuramente a che fare col fiume e con il suo attraversamento: caduto in rovina il ponte romano, il luogo di attraversamento con la barca prese il nome di Traiectus, Traiecto flumine era il Garigliano  nell'ultima parte del suo corso, Traiectanum era tutto il territorio circostante e civitas Traiecti era la città sul fiume abitata dai discendenti degli antichi Minturnesi.

Comunque stiano le cose è indubbio che Traetto vada considerata naturale continuazione di Minturnae come testimoniano le parole Heredes Minturnarum incise sui marmi riproducenti l'arme della città.

 


Id: 615 Data: 09/02/2017 19:01:53

*

- Storia

Il problema annonario a Napoli nel secondo Seicen

               Nel Seicento il problema annonario a Napoli era avvertito in modo quasi ossessivo dal governo per timore delle carestie che si ripetevano con una frequenza impressionante e costituivano un male endemico comune a tutti i paesi del Mediterraneo: una viabilità scarsamente efficiente, un terremoto, un’alluvione, addirittura un inverno più rigido del solito potevano procurare insufficienza di scorte granarie e, spesso, vere e proprie carestie.

Se ad essi si aggiunge il notevole aumento di popolazione della capitale e degli altri centri urbani in seguito all’ondata migratoria dalle campagne determinata dagli insopportabili oneri fiscali, ci si rende effettivamente conto della preoccupazione dei vari viceré succedutisi al governo del Regno nell’organizzare i magazzini d’ammasso per evitare che un cattivo raccolto potesse provocare torbidi e rivolte.

Precise norme di legislazione annonaria, severamente applicate nei momenti critici, confermano come la produzione del Regno fosse sempre in funzione della capitale: i permessi di esportazione di grano all’estero venivano concessi solo dopo aver approvvigionato i magazzini napoletani.

Ma pur svolgendo un’utile funzione politico – sociale (assicuravano ai ceti meno abbienti il pane ad un prezzo invariato) a lungo andare questi ammassi determinarono l’abbandono della cultura cerealicola anche nei territori dove prima era fiorente.

Divieti di esportazione imposti dai viceré, fenomeni di carestia, migrazione interna, abbandono delle campagne, rialzo del costo della mano d’opera e conseguente concorrenza inglese e olandese portarono alla rovina i produttori dell’Italia meridionale.[1]

Il problema, abbastanza normale per quel tempo, divenne allarmante all’indomani della peste del 1656, allorché le riserve granarie della capitale furono messe a dura prova dalle continue richieste pervenute dalle province del Regno.

Il Collaterale cercò di tamponare la situazione rilasciando permessi di rifornimento da località non più affette dal contagio con priorità assoluta per città politicamente e strategicamente importanti come Reggio Calabria e Gaeta solitamente accontentate, pur nei limiti del possibile: nell’aprile 1658 si riforniva Reggio (già sovvenzionata con 13.000 tomoli di grano l’anno precedente) con metà dei 10.000 tomoli richiesti “per essere piazza tanto importante che conviene tenerla munita” presi dallo scalo di Crotone; nel luglio dello stesso anno  si dava l’assenso a una consulta della Camera sulla richiesta di Gaeta di “poter pigliare 4.000 ducati per poter comprar grani occorrenti la provista del vitto” e si coglieva l’occasione per proibirne altri usi e per rimproverare il percettore della vendita che ne aveva fatto l’anno precedente “lasciando sprovista una piazza como Gaeta”.[2]

A rendere più acuta la crisi di produzione e rifornimenti concorsero sicuramente altri eventi regionali quali l’eruzione del Vesuvio e il terremoto calabrese del 1659 che operarono una distruzione delle campagne dopo che la peste ne aveva decimato la popolazione.

I catastrofici effetti di questi eventi sull’annona napoletana sono documentati in Collaterale sul finire dell’estate del 1660.

Se a giugno, nel dare esecuzione alla richiesta del sovrano spagnolo Filippo IV di una tassa straordinaria di 100.000 scudi in occasione del matrimonio della figlia Maria Teresa col re di Francia Luigi XIV, il viceré puntualizzò che le province erano impossibilitate a pagarla per la grave crisi economica in cui versavano e chiese la collaborazione della classe feudale, invitata ad accollarsene la terza parte, fu a settembre che annunciò in Collaterale la quasi completa distruzione dell’annona della capitale determinata, a suo avviso, dalla cattiva amministrazione degli Eletti. Preoccupato per la difficoltà degli approvvigionamenti in caso di malaugurata carestia, invitò i Reggenti, sulla scorta del bilancio presentato dal razionale Carbone, a prendere i primi provvedimenti urgenti.[3]

Nelle sedute successive si decise infatti l’affitto degli uffici di portolano e giustiziere, l’acquisto di grano sufficiente a far fronte alle necessità più immediate, l’esazione da parte del grassiere di tutti i debiti in grano e in denaro contratti nei confronti dell’annona; si denunciò anche la mancanza di denaro esistente nel Regno, lo stato di miseria della popolazione e si discusse sulla convenienza di concedere ai massari alcune tratte di grano precedentemente sospese.[4]

Sei anni dopo il problema annonario si riproponeva.

Dopo alcune notizie relative a uno scandaglio sulla conservazione di vari tipi di grano effettuato nell’ottobre 1665, il Collaterale affrontò a partire dai primi mesi del 1666 il problema dei danni arrecati all’annona dall’attività di panificazione nei casali e nei luoghi pii: su richiesta degli Eletti della Città pose freno alla vendita illegale di grano e farina oltre l’area di competenza da parte dei casali e minacciò l’abbattimento dei forni e la limitazione dei rifornimenti di grano ai conventi.[5]

Se il terremoto di Ragusa del 6 aprile 1667 e le conseguenti richieste di aiuto da parte di quella repubblica, cui Napoli doveva far fronte in quanto dominio della corona, acuirono e dilatarono il problema annonario fu la cattiva annata del 1671 a risultare fatale all’annona napoletana il cui rifornimento era stato trascurato, negli anni precedenti, a favore di traffici commerciali più intensi.

I risultati furono disastrosi: i magazzini svuotati e il prezzo del grano triplicato.

Il viceré corse ai ripari: inviò don Diego de Soria in Puglia, maggior centro di produzione del Regno, a fare incetta di grano e a contenere le manovre degli speculatori; ma la decisione riuscì solo ad alleviare la tensione annonaria sia perché gli speculatori avevano appoggi influenti a Napoli (tra cui il reggente Carrillo, ex capo della Grassa cittadina), sia perché sulle riserve annonarie avrebbe di lì a poco pesato il duro compito di fronteggiare la crisi degli alleati siciliani e le richieste dei Presìdi Toscani in un momento in cui le ostilità tra Francia e Spagna andavano riaccendendosi.

Di fronte a questa grave crisi di produzione cerealicola il viceré Pietro d’Aragona impartì l’ordine di bloccarne l’esportazione e di limitarne la vendita ai commercianti locali.[6]

Ma l’attuazione del blocco in funzione del rafforzamento delle riserve della capitale fu messo in pericolo dagli atti di pirateria dei Messinesi che, visti inascoltati i reiterati appelli di aiuto per superare un’analoga crisi annonaria che anch’essi stavano attraversando, cominciarono ad impossessarsi dei vascelli napoletani carichi di grano che attraversavano lo stretto.

La città di Napoli reagì inscenando una vivace protesta che indusse il Collaterale a trovare un accordo con la città di Messina sulla base di una fornitura di 30.000 tomoli di grano e di una imprecisata quantità di orzo, come si evince dalla risposta alla lettera inviata dal Senato messinese a giustificazione degli atti di pirateria commessi.[7]

In novembre, mentre il presidente Ulloa scriveva da Foggia che stava compiendo gli ultimi sforzi per tenere fede alla consegna dei mille carri di grano richiesti dal governo per l’annona napoletana, il viceré, invitato dalla Regina a dar conto dello scarso incremento che la Real Hazienda aveva avuto durante il suo mandato, si vedeva costretto a convocare per due giorni consecutivi il Consiglio Collaterale e a chiedere ai presidenti della Camera precise relazioni sullo stato delle province dando luogo a un riesame della linea politico – amministrativa del suo governo.[8]

A giustificazione dello scarso incremento lamentato il viceré, oltre al bilancio completo presentato dai razionali Fazio ed Alessio, addusse una serie di impegni finanziari sia per sovvenzionare le opere pubbliche (costruzione della nuova darsena che garantiva maggior sicurezza alle galere aumentate di due unità e ricostruzione delle mura di Gaeta) che per rispettare accordi presi (il notevole quantitativo di grano inviato in Spagna, il mantenimento dell’esercito tedesco nel Regno, l’aumento di mille soldati nei terzi spagnoli, il mantenimento a Pizzofalcone dei soldati adibiti all’ordine pubblico).[9]

La crisi toccò il fondo l’anno successivo.

Gli Eletti della città furono convocati in Collaterale e con loro si discusse l’acquisto di 30.000 tomoli di grano a 20 carlini il tomolo offerti dal vescovo di Aversa e, quando questi cambiò idea, il viceré minacciò di sequestrare la quantità promessa: segno evidente che i magazzini stavano svuotandosi come conferma anche il bando di espulsione dal Regno per 3.800 siciliani che vi erano entrati.

Ulteriori notizie pervenute in Collaterale davano un quadro della situazione abbastanza critico: i prezzi aumentavano giornalmente, le province lamentavano la lentezza delle forniture di grano, gli incettatori operavano per l’utile personale speculando su una popolazione affamata e sfuggendo in vario modo ai calmieri ordinati dal viceré, i quantitativi di grano che si riuscivano a reperire non sempre giungevano a Napoli, messi in pericolo dagli atti di pirateria di Messinesi e Turchi.[10]

Il viceré, ormai all’ultimo mese del suo mandato governativo e volendo lasciare un buon ricordo di sé, seguì con attenzione il problema come conferma l’approvazione di diversi provvedimenti nelle due lunghe e animatissime sedute di Collaterale di metà gennaio 1672: si affidò al marchese di Crispano il sequestro del grano di Aversa e casali e a don Francesco Moles quello di Capua e casali; si proibì l’esportazione del grano prenotato in Puglia dalla città di Messina e si ordinò di inviarlo a Napoli agli stessi prezzi; si ammucchiò il restante grano in modo visibile dando l’impressione che ve ne fosse ancora abbastanza per non allarmare la popolazione; si trasferì il grano abruzzese in Terra di Lavoro dove il prezzo del grano fu fissato a 16 carlini il tomolo e per i contravventori si decisero pene varianti da 5 anni di galera ai non nobili a 5 di relegazione per i nobili con sequestro per tutti del grano trovato in possesso. Al marchese di Crispano, in difficoltà col sequestro, si spedì un bando che intimava ai possessori di grano di denunciarlo minacciando le stesse pene proposte per chi ne maggiorava il prezzo. Infine si bloccarono sia i 36.000 tomoli di grano acquistati dalla città di Palermo che i 21.800 dalla città di Messina. Al presidente Ulloa si ordinava di sveltire le operazioni di invio a Napoli del quantitativo di grano richiesto.[11]

Verso la fine del mese venne vietato ai forestieri di entrare nel Regno per qualsiasi ragione, si ordinò al presidente Ulloa di presentare un preventivo di spesa per l’acquisto e il trasporto a Napoli del grano pugliese e si scrisse al marchese di Crispano di intensificare l’operazione di sequestro del grano di Capua e Aversa facendo attenzione a lasciarne il quantitativo necessario alla popolazione locale in quanto dalle due città erano giunte lettere preoccupate su tale aspetto.[12]

Si pensò addirittura di sequestrare il grano custodito nei monasteri e nei luoghi di giurisdizione ecclesiastica; ma prima di impartire l’ordine, che avrebbe richiesto un lungo sforzo diplomatico con le autorità ecclesiastiche, il viceré pretese una documentata relazione sui vantaggi che ne sarebbero derivati all’annona.[13]

Ma già prima che la relazione fosse pronta, la Chiesa accordò tutto il suo appoggio con un gesto davvero inaspettato: il Nunzio si dichiarò disposto ad emanare bandi ed editti generali con l’ordine per gli ecclesiastici di consegnare il grano superfluo alle autorità laiche.

Il Collaterale ne approfittò per chiedere la nomina di due commissari ecclesiastici da affiancare a quelli governativi nell’operazione di raccolta del grano nei monasteri di giurisdizione ecclesiastica dove si trovava grano tenero di cui  si avvertiva maggiore necessità.[14]

L’8 febbraio il Collaterale seppe che il grano sequestrato ad Aversa dal Marchese di Crispano consisteva in 42.695 tomoli (di cui 18.000 già in viaggio per Napoli) oltre i 2.302 dati dai particolari e, sulla scorta di questa notizia, decise di accettare l’aiuto offerto dal Nunzio e si sgravare l’annona con l’emanazione di un bando che allontanava dal Regno i forestieri non sposati.[15]

Il momento più acuto della crisi coincise col cambio della guardia al governo del Regno.

La partenza di don Pietro Antonio d’Aragona e l’insediamento dell’Astorga avvenne tra gravi tensioni di carattere annonario: a Cosenza la popolazione si rivoltò contro gli incettatori e chiese a gran voce che il prezzo del pane fosse calmierato, disordini si verificarono a Manfredonia in seguito del trasferimento a Foggia anche del grano necessario alla città, la protesta salì anche a Napoli per l’esagerato prezzo del grano pugliese e il governo, sotto la pressione dell’opinione pubblica, fu costretto a fissarne il prezzo a 12 carlini il tomolo e a bloccare l’esportazione di pane e farina. Né si fermavano le richieste di fornitura.[16]

Il nuovo viceré rispose a questa insistente trafila di istanze convocando il Collaterale e proponendo l’organizzazione di una vasta rete di trasporto che vedesse impegnati i muli e le carrozze della capitale e delle province per accelerare l’invio di tutto il grano reperibile in Puglia o in alternativa il trasporto via mare meno costoso  e altrettanto sicuro con l’impiego di galere armate di scorta contro le possibili rappresaglie dei Messinesi.[17]

A complicare la già difficile situazione intervennero, oltre le richieste dei Messinesi ratificate dalla stessa Regina, anche quelle del muniziere di Orbetello che forniva un quadro drammatico della città e degli altri Presìdi toscani: gente nuda che si nutriva esclusivamente di vegetali per mancanza di grano in quanto le scorte restanti potevano bastare al massimo fino alla metà di aprile ad Orbetello e al massimo a fine febbraio a Portoercole e Portolongone.[18]

Ma Napoli, che avrebbe dovuto provvedere, non viveva una situazione migliore: la relazione del grassiere Ortiz sullo stato dell’annona chiariva che i 58.000 tomoli di grano giacenti nelle fosse della capitale non sarebbero bastate fino alla metà di aprile.

La notizia ripropose drammaticamente in Collaterale il problema dell’approvvigionamento e spinse il viceré a dare esecuzione al piano di trasporto del grano pugliese: si inviarono 150 animali da soma al presidente Ulloa affiancato dal presidente D’Amico, vennero incaricati i giudici Pontecorvo e Gomez a vigilare sulla regolarità del trasporto e venne discussa la possibilità di un’azione diplomatica con i Messinesi promettendo loro rifornimenti di grano per alleviare gli atti di pirateria. Ma molti reggenti si opposero a quest’ultima proposta, che prevedeva l’invio del consigliere Guerrero a Messina, perché dubitavano della lealtà dei Messinesi e, soprattutto, della possibilità di far fronte alle loro richieste sicuramente superiori ai 20-25.000 tomoli che rappresentavano lo sforzo massimo che il governo avrebbe potuto sopportare.[19]

L’accordo quindi saltò e i Messinesi minacciarono di riprendere con più ferocia gli atti di pirateria.

Il Collaterale non si lasciò intimorire e alle lettere risentite del viceré siciliano Principe di Ligni, dello stratega e del senato messinese rispose di non poter venire incontro alle loro richieste perché anche la popolazione del Regno si trovava nelle stesse drammatiche condizioni.

Che viceré e Collaterale avessero il polso della situazione veniva confermato da una lunga trafila di richieste e lamentele inviate dalle varie province del Regno e dalla decisione di approvvigionare urgentemente Salerno, città chiave e centro di smistamento di tutta la costiera amalfitana e delle isole, nel timore che la popolazione di quell’area si riversasse nella capitale creando in tal modo problemi ancora più drammatici.[20]

In questo clima di tensione generale portare a termine con successo il trasporto del grano pugliese nelle riserve centrali costituiva il più urgente problema di politica interna che impegnò viceré e Collaterale.

Il 14 marzo partiva per la Puglia il Luogotenente Carrillo con la nomina di “Vicario Generale et alter nos per la provista et conduttura de grani per questa città  e con l’autorità di comandare in tutte le province del Regno, ad eccezione delle due Calabrie, per risolvere definitivamente la questione del trasporto. A fine marzo l’approvvigionamento, almeno per le necessità della capitale, era stato portato a termine se il segretario annotava che, siccome Napoli era stata rifornita, si poteva liberalizzare l’acquisto del grano per evitare acquisti di contrabbando.[21]

 

 

 

 



[1] Cfr. G. Coniglio, Il viceregno di Napoli nel sec. XVII, Roma 1955, pagg.26-43.

[2] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62, 9 aprile e 5 luglio 1658.

[3] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64, 10 giugno e 6 settembre 1660

[4] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64, 13 e 17 settembre 1660

[5] Archivio di Statto di Napoli, Not. Cons. Coll., vol. 67, 22 febbraio e 2 marzo 1666;11 e 31 gennaio 1667

[6] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  18 settembre e 6 ottobre 1671.

[7] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  12 e 16 ottobre 1671

[8] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  17 novembre 1671

[9] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  26 e 27  novembre 1671

[10] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  11 e 13 gennaio 1672

[11] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  14 e 18 gennaio 1672

[12] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  21 e 26 gennaio 1672

[13] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  29 gennaio 1672

[14] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68, 4 febbraio 1672

[15] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  8, 12 e 16 febbraio 1672

[16] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  16 e 19 febbraio 1672

[17] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  22 febbraio 1672

[18] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  23 febbraio 1672

[19] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  3 marzo 1672

[20] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  6, 8 e 10 marzo 1672

[21] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 68,  14, 15 e  23  marzo 1672

 


Id: 597 Data: 30/11/2016 13:56:07

*

- Storia

la peste napoletana e il ritorno alla normalitŕ

 

     La peste napoletana del 1656 non poteva essere considerata un fenomeno inatteso: presente anche in altri paesi europei e mediterranei ebbe nel XVII secolo una delle maggiori esplosioni prima di perdere definitivamente, almeno nel nostro continente, il suo carattere pandemico e ridursi a sporadici focolai facilmente controllabili. Inoltre l’amministrazione spagnola si era già misurata neanche trent’anni prima con l’epidemia di peste descritta da Manzoni nei “Promessi sposi” e che aveva falcidiato 3/4 della popolazione milanese. Eppure quell’esperienza non servì e a Napoli furono ripetuti gli stessi errori e si intervenne con lo stesso colpevole ritardo.

La peste era presente in città all’inizio del 1656, introdotta molto probabilmente da un vascello di soldati proveniente dalla Sardegna ed entrato nel porto contravvenendo ai precisi bandi vicereali che vietavano qualsiasi rapporto con l’isola dove l’epidemia era stata accertata già da qualche anno[1]; ma Viceré e Collaterale scelsero la politica del silenzio, preoccupati sia dell’ordine pubblico che delle conseguenze economiche di un blocco commerciale e dell’impossibilità di fornire un ulteriore sostegno militare allo sforzo bellico spagnolo contro la Francia polarizzato sul fronte italiano intorno alla città di Milano.

A metà maggio tale politica divenne insostenibile e il governo fu costretto ad ammettere l’epidemia e a prendere i primi provvedimenti: fu creata una commissione sanitaria (la Deputazione della Salute) e venne bloccato ogni rapporto commerciale ed ogni spostamento sia all’interno del Regno che verso i paesi esteri.

Fatto per tempo il tentativo di stendere un cordone sanitario avrebbe contribuito a contenere il diffondersi del contagio, ma a maggio non si rivelò di nessuna efficacia perché l’epidemia si era ormai diffusa, facilitata dall’intensificarsi delle pratiche di pietà e dal rapido movimento migratorio della nobiltà verso le più salubri tenute di campagna[2].  

 Se agli interventi tardivi si aggiunge lo stato di arretratezza tecnica e scientifica in cui versava il settore sanitario nel Seicento si comprende come l’epidemia dovesse avere il suo normale decorso, come in effetti ebbe, falcidiando la popolazione del Regno con un vertiginoso ritmo di decessi che giunse ad oltrepassare le 4 – 5 mila unità giornaliere nel periodo di maggiore intensità: le 240 – 270 mila vittime stimate su una popolazione oscillante tra i 400 – 450 mila abitanti danno l’idea della virulenza della malattia.

 Nell’autunno l’epidemia sembrava essersi attenuata, ma la città appariva in condizioni pietose e il governo si trovò a far fronte a nuovi problemi di carattere socio – economico (recessione demografica, aumento dei prezzi, rifiorire del contrabbando) e alla difficile decisione dell’apertura delle frontiere e del superamento della politica d’isolamento.

                La situazione caotica seguita all’epidemia, che rese più problematica la comunicazione tra governo centrale e periferico, produsse un’intensificazione del fenomeno del contrabbando della seta sulle coste tirreniche della Calabria e di quello di tabacco, sale e grano su quelle abruzzesi e pugliesi dell’Adriatico[3].

Al processo celebrato a maggio del 1658 contro il contrabbandiere Carlo Gennaro e terminato con la sua condanna a 7 anni di galera non seguirono atti significativi da parte del governo: segno che la sua volontà di combattere il fenomeno, che restava massiccio e ramificato, finì per cozzare contro il muro di omertà che legava i nobili al personale della Sommaria e al ceto forense. Tali legami e l’appoggio interessato dell’alto clero consentirono a questa classe sociale dai forti poteri economici una quasi completa immunità.[4].        

 Un altro fenomeno assolutamente naturale fu il forte rialzo dei prezzi che riguardò sia la mano d’opera che i prodotti manifatturieri.

Se l’economia prevalentemente agricola del Regno penalizzò soprattutto il rifornimento di tessuti e di seta i cui prezzi raggiunsero livelli altissimi, l’aumento del costo della mano d’opera fu invece abbastanza uniforme: la peste, infatti, aveva colpito allo stesso modo sia le campagne che i grossi centri.

Il fenomeno del rincaro dei prezzi fu esaminato dal Collaterale nei primi giorni del gennaio 1658 su sollecitazione dello stesso viceré che riferendo voci riguardanti una penuria di drappi e un loro prezzo eccessivo pretese un calmiere in previsione dei nuovi aumenti che si sarebbero sicuramente verificati con l’approssimarsi delle festività[5].

Il problema si trascinò lungo tutto il 1658 nonostante i tentativi del governo di arginarne la portata.

In giugno i risultati del censimento sul numero dei mercanti, tessitori e lavoranti scampati alla peste indetto per accertare se il rialzo dei prezzi fosse dovuto alla diminuzione della mano d’opera non confermò tale ipotesi; anzi il numero degli addetti al settore sembrava essersi attestato in linea generale sugli stessi livelli di quello anteriore all’epidemia. Si concluse pertanto che il rialzo dei prezzi “nasceva da malitia loro tanto più che hoggi le sete vagliono vilissimo prezzo[6] e fu emanato un bando che impose a tutti i mercanti di drappi di seta e di tele d’oro di vendere tali prodotti allo stesso prezzo del periodo anteriore al contagio e di accertarsi che la merce fosse di peso e qualità conforme a quanto stabilito. Le pene previste per i contravventori furono sia pecuniarie (1.000 ducati per ogni volta che avessero contravvenuto al bando) che corporali a discrezione del viceré.

Anche il costo della manodopera venne calmierato: si vietò ai tessitori e ad altri lavoranti di tale arte, sotto pena di 3 anni di galera, di ricevere una retribuzione superiore a quella percepita prima del 1656 e si delegò la Vicaria a procedere nei confronti dei contravventori[7].

Ma la prammatica vicereale non risolse certo il problema: in un settore così difficile solo il tempo sarebbe riuscito a portare equilibrio.

Anche nel settore agricolo si avvertivano gli stessi problemi e furono gli Eletti del Popolo a farsi portavoce della richiesta popolare di prendere provvedimenti nei confronti del continuo rialzo del prezzo del grano e dell’orzo e di punire gli incettatori indicati come i responsabili principali del fenomeno[8].

Va dato atto al viceré di essersi interessato a cercare soluzioni possibili, al di là degli scarsi risultati delle sue prammatiche, e il fenomeno si andò lentamente attenuando.

La riapertura delle frontiere fu la scelta più tormentata.

Il permesso rifiutato a metà gennaio 1657 a don Francesco Mancini di entrare nel Regno per ricoprire la carica di economo della Reverenda Fabbrica nonostante le raccomandazioni e le pressioni dell’ambasciatore del Regno a Roma ( il viceré rispose di averlo rifiutato anche ai vascelli del re perché in una situazione simile entrare nel regno “non è conveniente nemmeno da luochi sani et con li debiti bollettini[9]) diede l’idea che si volesse persistere anche nel nuovo anno con una politica di assoluto isolamento sebbene la peste non mietesse ormai più vittime dal finire del 1656. Era ancora forte il timore di un riacutizzarsi dell’epidemia, fomentato da episodi e notizie non sempre confermati (come lo sconfinamento nella città di Lecce di vacche ritenute contagiate provenienti dalle terre del conte di Conversano o la presenza a Nocera di uno sconosciuto proveniente da Roma)[10].

Ma già in febbraio, convinti dell’impossibilità di un controllo capillare del territorio e considerato il miglioramento generale della situazione sanitaria, Viceré e Collaterale ritennero di dover superare questa politica di isolamento. Premevano in tale direzione il languire del commercio, l’aumento costante dei prezzi, i chiari segni di insofferenza da parte della popolazione che attraverso lettere e petizioni giungevano in Collaterale, il timore di inimicarsi altri stati negando l’ingresso nel Regno agli stranieri mentre i Napoletani venivano tranquillamente accettati ovunque.

Ci si ispirò a grande cautela: fu liberalizzata la circolazione interna dei sudditi in possesso di un certificato sanitario rilasciato dalla Deputazione della Salute, furono presi accordi con i viceré di Milano e di Sicilia per adottare una comune linea di comportamento nei confronti dei sudditi della Corona, ma si lasciò al viceré la decisione più spinosa dell’ingresso di stranieri nel Regno.

 L’unico parere espresso dai Reggenti fu di lasciare entrare solo chi fosse venuto per commerciare e non per fissarvi una residenza definitiva.

Accelerò questa decisione l’approssimarsi della fiera di Foggia che costituiva, con quella di Aversa, uno dei momenti chiave dell’economia del Regno come conferma l’interesse e il fervore con cui il governo ne curò la realizzazione: fu inviato un corriere al governatore di Foggia per accertarsi sulle reali possibilità di ospitarvi la fiera, essendo corsa voce di un ritorno dell’epidemia in quella città, e si individuò in Lucera la possibile sostituta perché Manfredonia, altra candidata, non garantiva acqua e foraggio sufficienti.[11]

Vennero ripresi i rapporti diplomatici con lo Stato Pontificio ai cui mercanti si concesse di venire a comprare animali senza bisogno di sottoporsi a quarantena e, per vincere le ultime resistenze del papa, il bando vicereale estese gli stessi benefici anche ai nuovi vescovi designati ad occupare le sedi vacanti del Regno. Ma questa paziente opera di diplomazia fu annullata da due notizie giunte in Collaterale alla fine di aprile: un caso di peste a Foggia, comunicato dal Credenziere della Dogana di quella città, e la pubblicazione dell’editto del papa che proibiva il commercio col Regno di Napoli.[12]

Il governo dispose accertamenti sul caso di peste promettendo pene severe al funzionario nel caso la notizia si fosse rivelata infondata e rispose all’editto pontificio emanando un bando in cui si accusò il papa di aver preso decisioni affrettate e sconsiderate e si minacciarono sanzioni severe (confisca dei beni e pena capitale) a chi avesse ripreso scambi commerciali con lo Stato Pontificio.[13]

Lentamente i rapporti si ammorbidirono perché il governo non poteva spingere oltre questa politica suicida per un paese uscito stremato dalle conseguenze della peste. Così tra la fine del 1658 e gli inizi del 1659 il commercio poté essere ripreso quasi regolarmente con la Sicilia e con Genova, anche se non furono abbandonate misure cautelari:il Collaterale ordinò alla Deputazione della Salute di vigilare che tutti i marinai fossero in possesso dei regolari bollettini sanitari e fu colto dal panico alla notizia della morte del vescovo di Salerno fulminato da una febbre maligna o al ritrovamento nel porto di Napoli di un cadavere e di oggetti risalenti al periodo della peste.[14]

L’esperienza dolorosa del 1656 servì a mantenere vigile il governo anche in seguito: nel maggio del 1663, alla sola notizia, per altro non sicura, della presenza della peste ad Algeri, si scrisse in tutta fretta in Sicilia e in Sardegna che “nelle marine del Regno si stia con tutta attenzione et che non si ammettano vascelli provenienti da Algeri[15] e al minimo dubbio che si fosse infiltrata in Inghilterra si rischiò la chiusura degli scambi commerciali e ci si informò diligentemente presso le autorità di Genova, Venezia e Livorno.

La notizia risultò priva di fondamento ma, quando nell’estate del 1665 non ci furono più dubbi sulla presenza della peste sul suolo inglese, il viceré chiuse il traffico con i porti di quello stato e ordinò a tutti i Presidi delle province di mettere in quarantena tutti coloro che provenivano da Tolone, Fiandra e Ponente.[16]

Nel gennaio dell’anno successivo, allorché l’ambasciatore inglese tentò di stabilire trattative diplomatiche per una riapertura totale del commercio o limitata almeno a Gallipoli e Lecce, il Viceré fu irremovibile e rispose che i danni patiti da Napoli e dal Regno con la recente peste erano stati tali da non poter affatto rischiare una possibile ricaduta, dal momento che si era accertata la presenza della peste a Londra.[17]

Anche quando, verso la metà di aprile 1666, la peste aveva finito di mietere vittime sul territorio inglese (il bilancio fu di 68.000 morti) e il Collaterale fu dell’idea di sciogliere la Deputazione della Salute per le ottimistiche notizie che giungevano dalla costa francese, prima di compiere tale passo il Viceré volle avere la massima certezza chiedendo informazioni ai consoli di Livorno e di Genova nonché a don Nicolas Antonio, Agente di S.M. a Roma.[18]

Solo a maggio la Deputazione fu sciolta e dopo che il Reggente Galeota aveva riferito in Collaterale di aver saputo dal conte di Bayla di Genova che quella Repubblica aveva regolarmente ripreso le attività commerciali con Tolone e altre città della Provenza e di aver ricevuto un pubblico attestato della buona salute di quelle coste. Ma si attese ancora un mese prima di scrivere ai Presidi delle province di non dare più alcun impedimento al commercio con i Francesi.[19]

Verso la fine dell’anno un sospetto caso di peste a Livorno rimetteva in allarme il Collaterale e spingeva il Viceré a seguire la stessa politica del papa bandendo Livorno dai rapporti commerciali col Regno; ma era un falso allarme e ben presto il commercio poté essere ripreso regolarmente.[20]

 

                         

 

 

 

 

 

 



[1] P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Napoli 1865, libro XXXVIII, pag. 189.

[2] G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Napoli 1972, pag. 42 –45 e P. Giannone, op. cit., cap VII, pag. 390.

[3] R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche del Viceregno napoletano (1656 – 1731). Roma, 1961.

[4] Arch.di Stato di Napoli, Not. Cons.Coll., vol. 61, 12 gennaio, 18 maggio e 6 luglio 1657  e   vol. 62, 29 maggio 1658.

[5] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62, 10 gennaio 1658.

[6] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62, 7 giugno 1658.

[7] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62, 17 e 26 giugno 1658.

[8] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62, 9 agosto 1658.

[9] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61,  18 gennaio e 15 febbraio 1657.

[10] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61,  6 e 27 febbraio 1657.

[11] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61,  23 febbraio 1657.

[12] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61,  ,  9 e 27 aprile 1657.

[13] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61,  2 maggio 1657.

[14] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 63,  11 marzo e 2 maggio 1659

[15] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 66, 21 maggio 1663.

[16] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67, 12 agosto 1665.

[17] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67, 22 gennaio 1666.

[18] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67,  12 aprile 1666.

[19] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67, 27 maggio e 16 giugno 1666.

[20] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67, 11 ottobre 1666.


Id: 588 Data: 05/10/2016 19:59:52

*

- Storia

contrasti giurisdizionali dopo la peste napoletana del 1656

       La peste del 1656 inasprì la tensione tra potere civile ed ecclesiastico che si trascinava da anni soprattutto per la specificità della nunziatura napoletana che derogando dalle norme che dovunque caratterizzavano l’istituzione (a Napoli mancavano gli elementi essenziali di sovranità e indipendenza statale) era fonte di continui problemi.

La dipendenza del Regno dalla Spagna, dove già era regolarmente accreditato un nunzio pontificio, impediva di fatto alla nunziatura napoletana di costituire un’istituzione importante per la discussione di problemi di politica internazionale (che avveniva altrove) e la faceva scadere a istituzione secondaria funzionale agli interessi del papa che poteva tenere a Napoli un proprio rappresentante investito delle funzioni di nunzio.

Viceré e Collaterale[1], consapevoli dell’illegalità di fondo di tale insediamento, impedirono che potesse diventare strumento di rafforzamento del potere ecclesiastico: perciò bolle, brevi, lettere di giurisdizione straordinaria, provvedimenti e disposizioni provenienti da Roma potevano avere esecuzione nel Regno solo dopo essere stati vagliati e approvati col regio exequatur.

Allo stesso iter procedurale erano sottoposte nomina e destinazione dei vescovi nel Regno e qualsiasi deroga a tali norme concordate produsse sempre reazioni decise da parte del Collaterale che fece della difesa del potere civile un punto irrinunciabile del proprio operato politico come testimoniano le tensioni giurisdizionali fomentate dal Filomarino, cardinale arcivescovo di Napoli.

Dopo gli aspri contrasti che avevano caratterizzato il governo dell’Oñate, il tentativo del successore, conte di Castrillo, di instaurare rapporti più distesi con l’autorità ecclesiastica fu bloccato da un gesto del cardinale  interpretato dal viceré come un attacco aperto alla real giurisdizione.

All’indomani della peste il Cardinale aveva creduto, come un po’ tutta l’aristocrazia, di trovarsi di fronte ad una profonda crisi dell’organizzazione statale e provvide ad emanare un editto che proibiva l’accesso a Napoli degli ecclesiastici sprovvisti di licenza sanitaria arcivescovile scritta sostenendo di aver ricevuto quest’ordine dalla Sacra Congregazione. Ma poiché un analogo provvedimento era stato dettato dal viceré per chiunque si fosse recato a Napoli, l’editto del Cardinale (privo peraltro del regio exequatur) sembrò voler affermare l’esclusione degli ecclesiastici dal provvedimento governativo e il Collaterale, nella seduta del 28 febbraio 1657, ne votò la revoca.

Il documento contenente tale decisione, consegnato al Filomarino ai primi di marzo dopo il fallimento di una soluzione diplomatica, fu seguito dall’emanazione di un bando che documentava l’illegalità dell’intervento ecclesiastico in materia sanitaria.[2]

A questa tensione di fondo, che si sarebbe protratta fino all’esasperazione, si sovrapposero altri due eventi: la nomina papale di un nuovo inquisitore a Napoli e il trasporto in processione alla maniera degli scomunicati, deciso dal vicario del Filomarino, di uno sbirro assassinato dopo aver arrestato un pregiudicato in una strada pubblica davanti alla chiesa delle Scuole Pie .

Sulla nomina del nuovo inquisitore, anticipando la linea politica che avrebbe tenuto in seguito, il Collaterale suggerì al viceré di rispondere “che non voleva questi impiastri, ma che risolutamente gli facesse intendere che non avrebbe permesso che venisse un forestiero qua per un simile ufficio” mentre in merito alla processione pretese dal Cardinale l’espulsione del suo vicario anche se poi ammorbidì la propria posizione.[3]

Restò intransigente sulla questione sanitaria precisando nella risposta ad un breve pontificio le differenti competenze delle due autorità: al papa quelle spirituali, al governo civile quelle politiche, economiche e sanitarie del Regno.[4]

Ma l’intervento pontificio riaccese le velleità del Cardinale che, senza chiedere il regio exequatur, ripubblicò l’editto col divieto assoluto per il clero di accogliere forestieri in casa. Il Collaterale replicò impartendo ordini più severi ai castelli sul divieto di accesso per chiunque fosse sprovvisto dei bollettini sanitari conformi alle disposizioni vicereali e invitando il Filomarino a richiedere il regio exequatur.[5]

Il Cardinale si giustificò sostenendo di aver agito su ordine del Papa e alla minaccia di duri provvedimenti nei suoi confronti si mostrò irremovibile e disposto allo scontro aperto, pronto ad utilizzare tutti i mezzi che la giurisdizione ecclesiastica gli consentiva, dalle censure agli interdetti.[6]

La risposta dei Reggenti  si limitò al sequestro del suo casale nei pressi di Aversa perché, quando si trattò di proseguire con l’arresto dei parenti e la sua espulsione dal Regno, si creò in seno al Collaterale una profonda spaccatura e la maggioranza del Consiglio ritenne più prudente attendere conferme da Madrid e avviare una soluzione diplomatica preparando un incontro a Roma tra l’ambasciatore e il pontefice.[7]

In questo clima di tensione venne intrapreso, nel gennaio 1658, il viaggio del Sobremonte a Roma con un’agenda fittissima di impegni.

Lo scopo essenziale della missione fu la ricerca di una soluzione alle numerosissime questioni aperte con lo Stato Pontificio quali il regio exequatur alla bolla relativa alla soppressione dei conventini, la conferma in perpetuum della bolla di Leone X e di quella che vietava ai pregiudicati di rifugiarsi nelle chiese, l’accordo sul rientro degli esuli masanielliani, l’exequatur per le lettere provenienti da Roma, il conferimento degli ordini maggiori solo a chierici di una certa età, l’esenzione dei chierici coniugati dal godimento del foro in civilibus, le donazioni fraudolente a favore di ecclesiastici per sottrarsi agli oneri fiscali, la limitazione della competenza dei tribunali ecclesiastici alle sole questioni spirituali nei confronti dei laici, le usure e i contratti illeciti rilasciati a chierici anche defunti.[8]

La presenza a Roma del Sobremonte si rivelò anche un efficace strumento per seguire più da vicino le decisioni della curia romana e ricevere informazioni di prima mano come la decisione del pontefice, ai primi di ottobre, di inviare come inquisitore nel Regno il forlivese mons. Piazza .[9]

Se questa notizia riconfermò in seno al Consiglio la linea politica di intransigente ostracismo nei confronti dei vescovi extraregnicoli destinati a quest’incarico, più morbido apparve l’atteggiamento verso il Filomarino per non intralciare la missione diplomatica del Sobremonte e l’instaurarsi di un clima di maggiore distensione che doveva portare, proprio in quei giorni, alla riapertura del commercio con lo Stato Pontificio e con la Repubblica di Genova, indispensabile alla lenta ripresa del Regno avviato ad uscire dal completo isolamento in cui lo aveva relegato la peste del 1656.[10]

Con la partenza del conte di Castrillo, sostituito al vertice del governo dal conte di Peñaranda, la situazione sembrò subire un ulteriore miglioramento.

Il nuovo viceré avviò a soluzione la questione dei conventini dibattuta da più di dieci anni ed esplosa con la razionalizzazione dei conventi operata nel 1652 da Innocenzo X: la determinazione papale di rendere autosufficienti i conventi aveva portato alla chiusura di quelli con meno di 12 religiosi.

Non erano state estranee a questa decisione del papa sia la pressione esercitata dal clero regolare e dai vescovi per liberarsi della concorrenza della vasta e capillare opera di apostolato esercitata dagli ordini religiosi sia la possibilità dei vescovi di acquisire i beni dei conventi soppressi e utilizzarli per il sostentamento dei giovani che entravano nei nuovi seminari istituiti dal concilio di Trento.

La soppressione di 1513 conventi in seguito alla bolla Instaurandae aveva colpito soprattutto gli ordini mendicanti del meridione e del napoletano.

Non tutti i monaci dei conventi soppressi poterono essere assegnati come soprannumerari ad altri conventi dell’ordine di appartenenza; anzi  moltissimi avevano lasciato indebitamente il chiostro vagando senza fissa dimora facendo diventare l’apostasia da conventi e congregazioni religiose un problema di ordine pubblico che coinvolse il potere statale: coinvolgimento attivo che sembrò creare una forte solidarietà tra viceré, curia romana e arcivescovo napoletano.[11]

Ma la tensione di fondo non era stata eliminata: le pretese ecclesiastiche di immunità fiscale per i chierici coniugati, i contrasti per le immunità delle chiese e l’attività zelante del nuovo inquisitore napoletano inviato a Napoli in un delicato momento che aveva impedito al governo un’efficace opposizione alla nomina, aprirono uno scontro tra potere civile ed ecclesiastico che si sarebbe acutizzato con il caso Peluso e con l’opposizione popolare all’Inquisizione.

È vero che a dicembre mons. Piazza, nonostante la sua azione inflessibile mietesse già le prime vittime (tra cui il conte di Mola arrestato, trasferito a Roma e processato per questioni di S. Ufficio), vedeva riconosciuta la sua nomina di inquisitore dal viceré e una lettera del Sobremonte ne certificava le buone qualità; ma l’intensificarsi dell’attività inquisitoriale e l’intransigenza dei due contendenti avvertiva che si stava scivolando verso la guerra aperta sul problema giurisdizionale. [12]

A farla esplodere fu un banale ma sanguinoso e crudele episodio di cronaca cittadina avvenuto nell’aprile 1660 e illustrato in Collaterale dal giudice Marciano.

Un certo Marco Peluso, soprannominato Carcioffola, cocchiere dell’arcivescovo, aveva accoltellato e ucciso la moglie di un ortolano con cui era venuto a lite: la donna era all’ottavo mese di gravidanza e la creatura le fu estratta dal ventre e battezzata.

Il Peluso, in seguito alla generale commozione e all’indignata protesta della città, fu immediatamente arrestato e tradotto in giudizio davanti alla Vicaria[13].

Ma il cardinale, trattandosi di un suo dipendente, invitò il vicario generale Orazio Maldacea ad inviare ai ministri di Vicaria un  monitorio, cioè una diffida a procedere contro il Peluso con l’ordine di consegnarlo entro 24 ore al tribunale ecclesiastico e di presentarsi essi stessi per rispondere della violazione della bolla “Coenae Domini”.[14]

Le autorità laiche replicarono con una lettera al Vicario in cui si riaffermava la competenza della Vicaria nel procedimento giudiziario in corso e con l’invio del segretario del Regno dal Cardinale nel tentativo di convincerlo ad accettare il provvedimento regio che avrebbe soddisfatto le aspettative generali. Il tentativo fallì e il cardinale minacciò di fulminare scomuniche se non gli fosse stato consegnato il cocchiere.[15]

Il Collaterale provò allora a far pressione sul Vicario, ma quando questi rispose di non poter venire incontro alle aspettative del viceré perché l’Arcivescovo aveva avocato a sé la causa, non esitò a ordinare ai giudici di procedere nella loro azione giudiziaria nei confronti di Marco Peluso.[16]

Nonostante l’interessamento del Nunzio e di Roma il Cardinale continuò per la sua strada: il 16 aprile fece affiggere alle porte dell’Episcopio, della Vicaria e della Nunziatura un monitorio ultimativo con la richiesta di un’immediata consegna del reo minacciando di infliggere una scomunica a tutti i giudici; ma questi riaffermarono le motivazioni di competenza a procedere e intimarono al Vicario, se il Cardinale avesse inflitto la scomunica, di abbandonare Napoli entro 6 ore e il Regno entro 5 giorni.[17]

Il 17 aprile, mentre la Vicaria completava il processo con la condanna a morte di Marco Peluso, il Filomarino preparava i cedoloni di scomunica per i giudici e quando il governo, il giorno seguente, fece eseguire la condanna in piazza Mercato ne ordinò l’affissione.

Al gesto dell’arcivescovo il governo rispose con l’espulsione del Vicario e Roma tornò ad interessarsi alla questione: la serrata controversia sul principio dell’autonomia e della pienezza giurisdizionale invocata da entrambi i contendenti tenne impegnati fino a metà giugno il segretario di stato pontificio mons. Pacca, il Filomarino, il nunzio Spinola e lo stesso Viceré.

Quando il Pontefice, tramite il Nunzio, impose al Maldacea, che stava già allontanandosi da Napoli, di ritornarvi subito e tentò di anticipare l’opposizione del Collaterale facendo balenare la possibilità di interdire il Regno, i Reggenti non si lasciarono intimorire e ribadirono la legalità della loro azione, consapevoli che permettere il rientro del Vicario avrebbe significato la resa del potere laico a quello ecclesiastico.

Questa linea di fermezza spinse la parte ecclesiastica a tentare un approccio diplomatico: il Nunzio addossò ogni responsabilità all’intransigenza dell’Arcivescovo e si accordò col Viceré sul rientro del Maldacea con la clausola che sarebbe stato richiesto personalmente dal Papa.[18]

Ma la lettera del card. Chigi del 3 maggio non sembrò averla recepita: diretta non al Viceré ma al Nunzio, lo invitava ad adoperarsi per il rientro del Vicario come se un tale evento dipendesse da lui e non dalla volontà del governo.

Ancora una volta l’azione diplomatica saltò e il Collaterale provvide ad inviare al Filomarino la richiesta di revocare le censure e di scacciare il Maldacea dal palazzo arcivescovile dove si era rifugiato dopo essere riuscito a rientrare a Napoli.[19]

Il Cardinale provò a minimizzare il caso in cui erano invece in gioco il prestigio e l’autorità del potere statale e declinò sostanzialmente le richieste del governo: non poteva scacciare il Vicario in quanto gli era stato consegnato dal Nunzio e non poteva ritirare le censure perché la causa era stata avocata dalla S. Congregazione dell’Immunità.[20]

Il Collaterale, preso atto delle giustificazioni addotte, decise di lasciar passare alcuni giorni: si era alla vigilia di Pasqua e si sperava che da Roma giungessero segni di distensione; ma svanita anche questa speranza attuò una serie di provvedimenti quali   l’arresto dei nipoti del cardinale (Ascanio e Francesco Filomarino)  tenuti in blanda prigionia in Castel Nuovo, il sequestro del suo casale nei pressi di Aversa e dei suoi depositi (sia i 44.000 ducati sul Monte della Pietà che i 9.000 sul Monte dei Poveri) e il mandato di arresto anche per i parenti del Maldacea domiciliati a Massa.[21]

Il Vicario tentò comunque di sottrarsi all’ordine di espulsione: partito da Napoli alla volta di Messina, a Vietri si pentì della decisione presa e si ritirò nel monastero della Trinità della Cava tanto che il Collaterale fu costretto a scrivere al governatore della città di ricercarlo e costringerlo a riprendere il viaggio. A metà di giugno l’ordine doveva essere stato eseguito se il Nunzio faceva affiggere un monitorio contro il Vicario per avere lasciato il Regno senza l’ordine del Papa e per essersi sottomesso al potere civile. Seguì in agosto  un decreto che lo privò di ogni dignità ecclesiastica e degli ordini sacri con conseguente divieto di celebrare messa; ma il Collaterale ne prese le difese: si accertò dell’esistenza del decreto ecclesiastico, ne contestò la validità perché affisso senza regio exequatur e contestò al Nunzio la pretesa di avere poteri illimitati su tutti gli ecclesiastici del Regno.[22]

Intanto i giudici di Vicaria si erano visti ritirare la scomunica in cambio della liberazione dei nipoti del Cardinale e ai primi di luglio il canonico Paolo Garbinato aveva preso possesso dell’ufficio lasciato vacante dal Maldacea.

Da tale controversia fu il potere civile a conseguire la soddisfazione maggiore: giocò a suo favore sia l’isolamento in cui era stato lasciato il Filomarino dall’opinione pubblica colpita dall’odiosità del delitto commesso e dalla sensazione che il Cardinale si stesse battendo per ritardare il castigo del reo sia, soprattutto, il generale deterioramento della posizione del clero napoletano.

La nuova società che si andava formando nel Regno cominciava ad essere stanca di una Chiesa che agli interessi spirituali prediligeva l’arricchimento sfrenato, le liti giudiziarie e le complicazioni ereditarie e patrimoniali.

Le due consecutive vittorie ottenute dal potere civile su licenze sanitarie e caso Peluso indicavano chiaramente come il governo potesse agire sulla base di una cosciente collaborazione popolare.

L’opinione pubblica, consapevole che i contrasti giurisdizionali nascondevano grossi problemi di carattere economico, continuò ad appoggiare il viceré anche nella controversia sul contributo richiesto dal Pontefice agli ecclesiastici del Regno da inviare all’imperatore Leopoldo I per la guerra contro i Turchi e a cui il Collaterale negò costantemente il regio exequatur.

Il documento papale prevedeva che tutti gli ecclesiastici del Regno che avevano entrate su chiese e luoghi pii avrebbero dovuto versare a Roma per dieci anni il 6% del loro reddito tramite la Nunziatura; ma il viceré, contrario alla fuga all’estero dei capitali del Regno, non volle concedere la propria autorizzazione dando luogo ad una tensione col potere ecclesiastico durato vari mesi. Il Collaterale ne fece consulta al re di Spagna nel marzo 1661, ma il Filomarino continuò imperterrito a richiedere i pagamenti anche senza l’autorizzazione governativa motivando la sua posizione con un’autorizzazione pontificia che definiva la decima un’imposizione universale e non necessaria di regio exequatur.[23]

Quando però il Collaterale impartì l’ordine tassativo agli istituti religiosi di non inviare denaro a Roma non trovò la solita accanita reazione: il cardinale, insofferente delle fortune del Chigi e desideroso di trovare pace nei suoi agitati rapporti col potere civile, si rifiutò di esigere le decime protestando la propria incompetenza in quanto materia propria della Nunziatura.

Altrettanto difficile si rivelò la battaglia ingaggiata nel 1661 sulla questione dell’inquisizione in cui intervenne in modo molto duro lo stesso nunzio Spinola che sul problema delle licenze sanitarie e sul caso Peluso si era adoperato a far valere la voce della ragionevolezza sia con il governo che con la corte pontificia.

Con l’eccezione degli incidenti provocati da mons. Petronio tra il 1626 e il 1631, l’Inquisizione napoletana affidata al Tamburello, già vicario diocesano di Napoli, non aveva suscitato difficoltà di rilievo fino al 1656, quando, per la morte del vescovo, l’incarico fu ricoperto momentaneamente fino alla nomina di mons. Piazza.

La riattivazione di un organo la cui attività si era fino ad allora istradata sui binari della più assoluta normalità raggiunse la coscienza popolare attraverso i casi vistosi dell’incriminazione del conte di Mola Duarte Vaaz per segreta pratica di ebraismo con conseguente confisca dei beni e di quella del duca delle Noci per aver letto un libro censurato. Ma non vanno dimenticati né il proliferare delle carceri del S. Ufficio, che raggiunsero in numero di sette o otto, né l’aumento dei procedimenti divenuti più sommari ed arbitrari né le malversazioni e prepotenze scandalose con cui il nuovo inquisitore e i suoi agenti e rappresentanti portavano avanti la loro attività.

A mettere in moto le Piazze di Napoli fu la reazione del duca delle Noci: da una riunione di gran cavalieri e cittadini tenuta in S. Lorenzo il 31 marzo scaturì la decisione di riunire le Piazze il sabato successivo 2 aprile.[24]

Il 5 aprile la Deputazione eletta dalle Piazze si presentò in Collaterale a chiedere l’allontanamento di mons. Piazza e la conservazione della prassi inquisitoriale nel Regno quale era stata fissata 114 anni prima in seguito ai tumulti avvenuti per le stesse ragioni nel 1547.

Il viceré, nell’accomiatare la Deputazione, assicurò che nei giorni successivi avrebbe fatto conoscere la sua decisione: aspettava infatti di conoscere l’esito dei contatti diplomatici che aveva avviato, tramite l’ambasciatore a Roma, con il pontefice il giorno precedente quando, incontrando anche il Nunzio, lo aveva invitato ad esortare mons. Piazza ad allentare la sua zelante attività e a ritirarsi per qualche tempo nel convento di Monte Oliveto o in quello di Monte Cassino.[25]

L’8 aprile giunse da Roma la decisione di espellere mons. Piazza dal Regno e la notte del 10, con una scorta di soldati a cavallo messa a disposizione dal viceré, l’inquisitore venne accompagnato alla frontiera.

A maggio la sua ventilata sostituzione suscitò la protesta del Collaterale perché il successore designato aveva già creato problemi alla real giurisdizione come vescovo di Ragusa e Barletta. I Reggenti erano intenzionati, dopo tanti contrasti, a dare una loro impronta precisa all’elezione del nuovo inquisitore che, oltre ad essere vescovo del Regno, avrebbe dovuto mostrarsi ligio alla politica vicereale.[26]

Come già nel 1656 con le licenze sanitarie e nel 1660 col caso Peluso, anche questo contrasto tra Stato e Chiesa si concluse con la vittoria del potere civile e se la questione si protrasse ancora fu per i contrasti sorti tra le Piazze cittadine e il viceré: gli ambienti aristocratici avevano tentato di strumentalizzare il problema dell’inquisizione per riaffermare una presenza politica che dal 1648 in poi non aveva trovato modo di farsi valere; ma il viceré, conte di Peñaranda, consapevole della manovra, si preparò a vanificarla.

Dopo  lunghe riunioni tra aprile e maggio alla ricerca di una comune piattaforma rivendicativa delle sei Pazze due sole richieste trovarono l’accordo unanime: che i processi per S. Ufficio non implicassero il sequestro dei beni e che pertanto venissero dissequestrati quelli del conte di Mola. Per il resto la spaccatura fu profonda: se le Piazze di Capuana, Porto e Montagna chiedevano che l’inquisizione napoletana fosse affidata al locale arcivescovo come ordinario, senza particolare delega pontificia e secondo le norme canoniche, la Piazza di Nido, la minoranza di quella di Portanova e quella del Popolo ammettevano che vi fosse un inquisitore come figura distinta da quella dell’arcivescovo purché procedesse secondo l’uso invalso nel Regno prima degli eccessi di mons. Piazza.[27]

Questa divisione facilitò l’opera di repressione messa in atto dal viceré nei confronti di ciò che restava ancora dell’agitazione: il primo luglio il Collaterale vietò la riunione delle Piazze programmata per il giorno seguente e minacciò di applicare una pena pecuniaria di 4.000 ducati a chiunque dei deputati e dei 5 e 6 delle Piazze avesse contravvenuto all’ordine. Il 15 luglio, alla luce di una lettera del re di Spagna indirizzata agli Eletti della città, dichiarò decaduta la Deputazione eletta il 2 aprile per affrontare il problema dell’inquisizione e le tolse definitivamente il compito il 18 luglio allorché, su richiesta dell’eletto del Popolo, decretò che “ si levasse l’inibitoria ai cinque e sei deputati di potersi unire e convocare le Piazze a rispetto di tutte quelle che avevano da trattare per beneficio del pubblico eccettuato però il negotio di mons. Piazza il quale resta sopito…[28]

Dopo un tentativo del Nunzio in settembre di voler assumere l’ufficio di inquisitore e le aspre proteste del Collaterale che portarono ad un serrato scambio epistolare tra Viceré e Pontefice, in ottobre si decise per la successione di mons. Piazza che intanto si era stabilito a Terracina.[29]

Così quando tra novembre e dicembre prima la Piazza del Popolo e poi la Deputazione e gli Eletti si recarono in visita al viceré, questi confermò loro la decisione di Madrid di conservare l’inquisizione, seppur con i procedimenti precedenti a quelli attuati da mons. Piazza.

La vittoria del Viceré fu completa e la nobiltà, che aveva puntato tutto sul passaggio dell’Inquisizione dalle mani del ministro pontificio a quelle del locale arcivescovo, venne sconfitta.

Nel luglio 1662 furono dissequestrati i beni del conte di Mola e nell’aprile 1663 il papa nominò inquisitore del Regno il vescovo di Bitonto Alessandro Crescenzi che, pur essendo vescovo del Regno, non era regnicolo e pertanto la sua nomina contraddiceva uno dei punti essenziale degli accordi tra Piazze e Vicerè.

Proteste però non ve ne furono: segno evidente che tanti mesi di lotte e agitazioni sul problema dell’inquisizione erano state determinate da obiettivi eminentemente politici.[30]

Tra il 1662 e il 1667 continuarono gli strascichi relativi alla bolla sulle decime:

l’opposizione vicereale all’esecuzione della bolla pontificia nel Regno e l’esenzione  decretata dal Collaterale per tutte le estaurite (chiese tenute da laici) esasperarono la tensione tra stato e chiesa. Era chiaro che la questione coinvolgeva una più vasta problematica economica che si trascinava da anni ma delle cui dimensioni  il governo si rendeva conto forse solo ora.[31]

L’eccezionale proliferazione del clero, l’illegale tassa sul commercio domenicale e festivo imposto dal Filomarino e la pretesa di raddoppiare le tratte di vino per la curia pontificia diventarono l’oggetto su cui si instaurò il braccio di ferro tra potere civile ed ecclesiastico.

Nell’estate del 1665 il governatore della Terza denunciò in un memoriale l’eccessivo numero di ricchi cittadini che negli ultimi trent’anni avevano abbracciato gli ordini sacri per sottrarsi al pagamento degli oneri fiscali gravanti sulle loro terre che così continuavano a possedere a titolo di donazione.[32]

Sollecitato da tale denuncia il Collaterale emanò un decreto che prevedeva l’arresto di quanti facessero donazioni alla Chiesa, ma il provvedimento non fermò la corsa agli ordini sacri: due anni dopo, un censimento sugli ecclesiastici del Regno accertava che, tra sacerdoti, diaconi, suddiaconi, clerici in minoribus, coniugati, diaconi selvaggi e oblati, essi avevano raggiunto il consistente numero di 56.446. I Reggenti ne fecero consulta al Re di Spagna chiedendo provvedimenti che ne determinassero la diminuzione, consapevoli che l’esenzione fiscale di cui godevano determinava il raddoppio degli oneri per i contribuenti laici.[33]

Tra le fine del 1665 e gli inizi del 1666 fu affrontata la questione della chiusura  domenicale e festiva dei negozi che anche la Chiesa già da tempo faceva osservare, ma su cui sorvolava dietro congrui pagamenti.

Fu la protesta dei negozianti, esasperati dalle richieste ecclesiastiche divenute ormai insostenibili, a imporre l’intervento del governo che il 21 dicembre 1665 decretò illegale l’esazione imposta dal Filomarino ai rifornimenti annonari e ai viveri di prima necessità, ma non alle botteghe di calzolai e barbieri per le quali si nutriva ancora qualche dubbio. Ad avallare la decisione governativa c’era il breve del pontefice Urbano VIII, la decisione presa dalla S. Congregazione nel 1603 in un’analoga questione e tutto l’insegnamento della Chiesa. Pertanto, mentre il Viceré avviava una soluzione diplomatica della questione, il Collaterale affidava ai tribunali civili e all’avvocato della Città Ignazio Provenzale l’incarico di difendere i sudditi dalle illegali pretese dell’Arcivescovo.[34]

Gli incontri diplomatici si intensificarono sollecitati da una nuova protesta cittadina sui danni arrecati dalla “oppressione e vessattione che danno li cursori del sig. cardinale Filomarino Arcivescovo a quelli che introducono cose comestibili” e sembrarono avere esiti positivi: il Cardinale si impegnò ad abolire la tassa sul commercio festivo sia alle porte della città che nei borghi e si convenne di porre nei giorni festivi una tavola di fronte alle botteghe  e un drappo davanti alle macellerie.[35]

Ma l’impegno restò sulla carta. Lo si scoprì neanche due mesi dopo con l’arrivo in Collaterale di un nuovo memoriale “sopra li eccessi che continuano li cursori della Curia Arcivescovale di nuove esattioni in danno del pubblico” e il governo decretò l’abolizione della tassa ecclesiastica almeno sul commercio all’ingrosso alle porte della città lasciando ai piccoli negozianti la possibilità di una libera contrattazione con l’Arcivescovo in attesa che l’ambasciatore del Regno a Roma sollecitasse un risolutivo intervento pontificio.[36]

La questione della tratta dei vini fu affrontata tra settembre e ottobre del 1667: il Viceré  illustrò i danni arrecati all’Arrendamento dalla stipulazione della tratta di ulteriori 200 botti di vino destinate al Collegio Ungarico e Germanico di Roma oltre le 200 già inviate annualmente per antica consuetudine e invitò i Reggenti a farne consulta al Re di Spagna chiedendone l’abrogazione. Il 3 ottobre, sulla scorta della risposta del sovrano e in seguito ad una sollecitazione del Nunzio, si chiarì che la concessione era a discrezione del sovrano e a favore dei cardinali fedeli alla corona e non, come stava diventando, un preciso dovere nei confronti di un organismo ecclesiastico che il governo non riconosceva in quanto tale.[37]



[1] Il Consiglio Collaterale, organo istituito da Ferdinando il Cattolico nel 1507 e posto, come consiglio di Stato, accanto al viceré (le sue pronunce furono rese vincolanti da una prammatica di Filippo II nel 1593) caratterizzò il periodo vicereale. Composto da viceré, che ne era il capo, da due reggenti (che poi crebbero di numero), dal segretario del regno e da due segretari privati del viceré, il Collaterale assumeva il governo per morte o assenza del viceré. Accentrando nella sua struttura sia funzioni consultive che deliberative e giudiziarie aveva una cancelleria, una segreteria diretta da un secretarius regni ed un tribunale. Soppresso il 7 giugno 1735, fu sostituito dalla Camera di S. Chiara.

[2] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 26 febbraio e 5, 8, 13 e 16 marzo 1657.

[3] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 12, 15,19 e 22 giugno 1657.

[4] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61:;13 e 22 agosto 1657.

[5] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 24 agosto e 1 settembre 1657

[6] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 13 e 24 settembre; 12 ottobre 1657

[7] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 19 ottobre 1657

 [8]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio  Collaterale 62:  21 gennaio 1658

[9] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale 62:   2 e 5 ottobre 1658

[10] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale 62:   18, 21 e 30 ottobre 1658

[11] Cfr. G. Galasso, Napoli Spagnola dopo Masaniello(Politica – Cultura – Società), ESI, Napoli, 1972, pag 59 e E. Boaga, La soppressione innocenziana dei piccoli conventi in Italia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1971.

[12] Archivio di Stato di Napoli, Not. del Consiglio Collaterale, vol. 63: 27 agosto, 5 e 9 settembre, 3 dicembre 1659.

[13] La Gran Corte di Vicaria, prima magistratura di appello di tutte le corti del Regno di Napoli, istituita da Carlo II d’Angiò attraverso la fusione del Tribunale del Vicario con la Gran Corte, ebbe sede a Castel Capuano con la riforma voluta nel 1537 da don Pedro Toledo. Strutturata in 4 sezioni giudicava in prima istanza reati commessi nel napoletano e in appello  tutti quelli commessi nelle province nel Regno.

[14] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64:  6 aprile 1660.

La bolla “In coena Domini” pubblicata da Pio V nel 1568  rese molto tesi i rapporti dei vari stati europei e italiani col Papato. Essa vietava ai principi di accogliere persone non cattoliche nei propri territori e di intrattenervi rapporti  anche epistolari nonché di punire per colpe civili cardinali, prelati e giudici ecclesiastici nonché i loro agenti, procuratori e congiunti. Vietava ai sovrani temporali di imporre pedaggi, gabelle, prestiti, decime sui beni dei chierici senza l’approvazione della curia romana. Vietava all’autorità laica di sequestrare la rendita delle chiese, dei monasteri e i benefici ecclesiastici; tutte le cause che riguardassero questioni del genere dovevano essere sottratte al foro temporale e riservate a quello ecclesiastico. Proibiva al principe l’esercizio dell’exequatur sulle concessioni e i decreti pontifici e lo considerava scomunicato qualora occupasse terre della Chiesa o le muovesse guerra.

[15] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64:  7 aprile 1660

[16] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 14 e 15 aprile 1660

[17]Archivio di Stato di Napoli,  Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 16 aprile 1660.  Cfr. anche G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 59.

[18] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64:  27 e 30 aprile 1660.

[19] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64:  3 e 13 maggio 1660.

[20] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 14 maggio 1660.

[21] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 31 maggio 1660.

[22]Archivio di Stato di Napoli,  Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 7, 9 e 15 giugno; 11,12, 18 e 23 agosto 1660.

[23] Archivio di Stato di Napoli, Not. del Consiglio Collaterale, vol. 65:  13, 22 e 23 marzo; 12 agosto e 9 settembre 1661.

[24] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65:  31 marzo 1661.

[25]Archivio di Stato di Napoli,  Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65:  4 e 5 aprile 1661.

[26] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65:  8 aprile e 9 maggio 1661.

[27] Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 64.

[28] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65:  1, 15 e 18 luglio 1661.

[29] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65:  22 e 26 sett., 8 e 20 ottobre 1661.

[30] Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 67 e 68.

[31] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65:  6 febbraio 1662 e vol. 66, 20 nov. 1663.

[32] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 28 agosto 1665.

[33] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 22 aprile 1667.

[34] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 4 e 17 dicembre 1665.

[35] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67:  23 dicembre 1665.

[36] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 4 febbraio 1666.

[37] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 16 settembre e 3 ottobre 1666.


Id: 555 Data: 05/04/2016 12:47:21

*

- Storia

Banditismo e peste a Napoli:il decennio post-epidemico

            Il banditismo operante nel Regno di Napoli nell’immediato periodo post-epidemico non presentava più le caratteristiche che lo hanno fatto confondere, almeno fino ai moti rivoluzionari del 1647–1648, col movimento antifeudale delle rivolte contadine: due fenomeni distinti sul piano teorico ma accomunati da una contrapposizione frontale allo stato moderno con la sua struttura accentratrice, la sua gravosa fiscalità e la sua giustizia di classe.

A partire da tale data aveva mutato volto e atteggiamento e trovato accoglimento nei quadri sociali attraverso i compromessi che lo stato era disposto a stipulare e la frequente collusione e complicità con la classe feudale. Inoltre i problemi creati dalla peste e l’isolamento interno, instaurato dal governo nel tentativo di arginare il contagio, favorirono il rafforzamento della politica di sovranità locale e lo sradicamento dell’autorità statale nelle province perpetrato dalla feudalità.

La frattura tra governo centrale e funzionari periferici, l’esiguità del numero di soldati determinata dall’epidemia, la mancanza di fondi sufficienti a pagarli e la protezione della classe feudale costituirono le difficoltà più evidenti nella lotta al banditismo.

Ulteriore elemento di debolezza fu la composizione dei processi che, se procurava allo stato indubbi benefici finanziari, ne minava la credibilità. Suggerita dal barone D’Amato, responsabile della lotta al banditismo, in occasione del processo celebrato nel maggio 1657 nei confronti  del marchese di Fuscaldo per aver accolto nelle sue terre il famoso bandito Paolo Fioretti e la sua banda, si rivelò una scelta politica che diede un messaggio di sostanziale impunità al banditismo meridionale che riprese fiducia e consistenza. Lo dimostra l’imperversare a Cava delle bande di Cafari e Perilli, di quelle provenienti da Marcianise sotto la protezione del figlio di un potente feudatario locale, don Prospero Suardo, tra Maddaloni e Caserta e nel Salernitano di quelle dei fratelli Cavaselice.[1]

Per questi ultimi il barone D’Amato chiese al Collaterale l’ordine di poterli catturare vivi o morti, ma l’ingenuità dei soldati governativi e la complicità dei familiari del vicario vanificarono l’unica occasione che si presentò: catturati e trovati in possesso di molte armi, invece di essere trasferiti nelle più sicure carceri regie, i due banditi vennero tenuti nel palazzo arcivescovile custoditi da numerosi soldati a cui se ne aggiunsero altri del vicario che durante la notte li aiutarono a sopraffare e immobilizzare i soldati regi e a fuggire indisturbati.[2]

Il durissimo provvedimento del governo nei confronti dei funzionari (all’auditore e al fiscale furono tolte le piazze) non alleviò lo smacco subìto e solo grazie all’energica azione del Preside di Salerno i due banditi furono ridotti l’uno a costituirsi e l’altro a ritirarsi in una chiesa fuori provincia.[3]

Nei territori di Montefusco, Basilicata e Lucera l’azione governativa non riusciva a tenere testa alle bande di Paolo Fioretti e Carlo Petrella sulle cui teste fu posta una taglia di 5.000 ducati.

L’organico piano militare per sradicare il banditismo nel Regno, varato dal Collaterale nell’estate del 1657 dopo vari ripensamenti, ebbe come risultato solo l’arresto e la giustizia sommaria di banditi di secondaria importanza lasciando sostanzialmente immutato il fenomeno: segno evidente che la classe feudale seppe ben proteggere i più grossi nomi del banditismo meridionale che la ricambiavano con il loro utile servizio nel perpetrare abusi e violenze di ogni genere.

A nulla erano valse né le indagini accurate e dispendiose del presidente Oglioga sulla lunga trafila di delitti e illegalità commesse da don Tommaso d’Acquaviva della potente casata dei Conversano né la più rigida osservanza della prammatica sulle armi decisa in seguito ad una lunga trafila di omicidi culminata con l’assassinio del figlio del governatore e castellano di Crotone che aveva scosso fortemente l’opinione pubblica.[4]

Scarsamente incisiva si era pure dimostrata la politica di contrasto alla connivenza tra banditismo e feudalità esercitata attraverso la linea legale e la lotta armata: non avevano prodotto  risultati significativi né l’incriminazione dei signori feudali con accuse estorte con ogni mezzo né la concessione dell’indulto a complici secondari in cambio di rivelazioni sui maggiori responsabili.

Il quadro sociale restava drammatico: le autorità provinciali non erano rispettate, la gente girava per le strade armata commettendo prepotenze che restavano impunite sia per l’esiguità di soldati sia per le connivenze e i legami familiari o d’interesse tra classe feudale e burocrazia governativa.

Il processo celebrato nell’aprile 1658 nei confronti del Principe di Curti e del Duca delle Noci per una serie di attività illegali, di notevole importanza politica perché rappresentava un processo all’intera classe feudale e alla sua azione politico – sociale, si concluse con la grazia al principale imputato e a tutti i suoi complici.[5]

Questa ulteriore dimostrazione di arrendevolezza diede alla feudalità meridionale una più sfacciata e arrogante consapevolezza della propria forza né risultò efficace la decisione di estendere anche ai banditi l’indulto generale emanato nel giugno 1658 per agevolare il rientro degli esuli masanielliani dello Stato Pontificio che creavano torbidi nel Regno con le loro lettere sobillatorie.[6]

Gli ultimi mesi del 1658  furono consumati nei preparativi per la partenza del viceré conte di Castrillo a cui doveva succedere, l’11 gennaio 1659, il Peñaranda.

Il nuovo viceré ereditò il fenomeno del banditismo sostanzialmente immutato: non avevano prodotto effetti positivi né la politica antinobiliare iniziata dal Castrillo, peraltro mai perseguita con coerenza, né la riforma giudiziaria che avrebbe trasformato la nomina dei giudici della Vicaria e delle Udienze provinciali da biennale a perpetua per impedire vendette private alla scadenza del mandato né era stata minimamente intaccata l’ampia protezione della classe feudale.

Il Peñaranda affrontò il fenomeno del banditismo operando su due versanti: provò a risolvere il problema dei rifugiati nelle chiese attraverso accordi non sempre facili con le sospettose autorità ecclesiastiche e venne incontro alle richieste dei banditi di tornare nei ranghi della vita civile, facilitato dai segni di stanchezza denotata dal banditismo meridionale dopo l’esplosione del biennio 1657/’58.

Il 1659 segnò infatti la fine dell’attività di Carlo Petrella, di Pietro Strollo (detto l’Infernale) e dei fratelli Cavaselice: in giugno Petrella e l’Infernale inviarono in Collaterale la richiesta di “ridursi al servitio di Dio et devotione di S.M.” andando volontariamente a combattere con alcuni compagni in Spagna agli ordini del Principe di Venosa mentre altri 18 componenti della banda, divisi, andarono a servire nelle province del Regno; a luglio fu arrestato Ruggiero Cavaselice dietro istanza dell’abate della chiesa di S. Benedetto di Salerno perché era voluto entrare per forza, insieme ad una donna, in quella chiesa dove era rifugiato il fratello Antonio.

Dopo la pretesa dell’autorità ecclesiastica di far valere le ragioni della propria immunità con la minaccia di scomunicare l’intero tribunale se non gli fosse stato consegnato il bandito, i rapporti tra tribunale laico e autorità ecclesiastica ebbero un’improvvisa e insperata distensione  grazie all’incontro del preside di Salerno con l’arcivescovo da cui ottenne il permesso di tenerlo carcerato in suo nome evitando in tal modo la scomunica.[7]

L’assenza di documenti sul fenomeno per quattro anni sembra indicare un periodo di calma, ma a partire dal 1663 una nuova trafila di informazioni documenta la ripresa del banditismo meridionale (i delitti commessi da Francisco Albano e dalla sua banda sotto la protezione del principe di Cariati e della duchessa di Chieri, quelli commessi dai fratelli Titta e Andrea Aurinetti ad Aversa, la difficoltà dell’uditore di Salerno ad arrestare Matteo Cenara, accusato di ricatti e delitti di strada pubblica per l’immunità accordatagli dal vicario)[8] a cui il Collaterale rispose con un inasprimento delle pene: 1.000 ducati per gli “inquisiti d’archibusciate subito che sono reputati contumaci senza aspettare altra sentenza” e 6.000 ducati per i ricettatori di banditi.[9]

L’allentamento di pressione sulla nobiltà da parte del Peñaranda durante l’ultimo biennio del suo governo portò ad un’intensificazione di duelli e violenze culminate col clamoroso caso dell’assassinio di un giovane ventenne, Agostino De Fiore, tramato dal principe della Riccia, che già gli aveva rapito la moglie, ed eseguito dai suoi sicari la mattina del 3 marzo 1663 nella strada dei SS. Apostoli.

L’opinione pubblica si sdegnò, il viceré fece perseguire energicamente gli assassini e il principe della Riccia fu arrestato mentre tentava di liberare gli esecutori materiali del delitto che vennero consegnati dal governatore pontificio di Benevento ai soldati regi che li avevano inseguiti fin lì.

Nonostante la tortura di alcuni complici per provare le responsabilità di un mandante così importante, il principe poté avvalersi sia della richiesta del papa di riportare a Benevento i rei, estratti a suo avviso dal territorio pontificio a viva forza (con conseguente esplosione della questione giurisdizionale), sia della pesante pressione esercitata dalla nobiltà sul tribunale.

La moderazione usata verso il principe della Riccia, a distanza di pochi anni da quella nei confronti del duca delle Noci, fu lettaa come una nuova ammissione di impotenza governativa se il conte di Policastro, nell’autunno del 1663, fu sul punto di dar luogo ad un episodio simile e nell’estate del 1664, seppure rifugiato nella chiesa di S. Gennaro all’Olmo, riuscì a far arrestare il padre della sua amante che ostacolava la tresca, e se il conte di Celano poteva proibire, praticamente indisturbato, ai mercanti della città di concorrere alla gara per la vendita di vino alle galere regie fino a quando non avesse venduto il suo di Torre Annunziata.

I delitti (tra cui l’assassinio di un sacerdote) nell’autunno del 1665 ad opera di Francesco Iacovaccio (detto Muccione)  e della sua banda e l’imperversare del Paladino nelle campagne della provincia di Montefusco, con la sospetta protezione del principe di Acaya, nella primavera del 1667 furono gli episodi più eclatanti che convinsero il viceré a riproporre in Collaterale la necessità di intraprendere un’organica campagna di persecuzione con l’invio nelle località più colpite di un certo numero dei 3.400 soldati di fanteria e dei 300 cavalieri a disposizione.[10]

A facilitare l’azione dei banditi contribuiva anche la lontananza delle Regie Udienze dai luoghi dove più consistente si presentava il fenomeno: esemplare il caso della Basilicata dove i banditi imperversavano impuniti perché mancava a Matera il tribunale regio e, se si riusciva ad arrestarne qualcuno, si muovevano potenti protettori a presentare “istanza di remissione”.

Quando il Collaterale decise di spostare l’Udienza dalla terra d’Otranto a Vignola il provvedimento, prima di trovare attuazione concreta, dovette superare la resistenza dei vari baroni che non la volevano nelle proprie terre.

Nello stesso arco di tempo si assistette ad un’accanita lotta, tutta interna alla feudalità, tra le casate più potenti per un maggior potere economico, portata avanti con ogni mezzo, dall’intimidazione ai ricatti, e che era l’unica ad interessare il governo determinato ad evitare l’alterazione dell’equilibrio tra le forze esistenti. Lo testimoniano sia la denuncia presentata nell’estate del 1665 dal marchese di Polignano nei confronti dei Conversano accusati di averlo perseguitato per 40 anni per obbligarlo a vendere la propria terra sia  l’arresto del duca di Maddaloni accusato dal principe di S. Arcangelo di aver maltrattato alcuni suoi vassalli. Altrettanto significativa è l’ingiunzione consegnata ad alcuni componenti delle casate dei Martina e dei Conversano di presentarsi in Collaterale per appianare controversie sorte su questioni di confine e protrattesi per anni col continuo pericolo di degenerare in guerra aperta come nel tentativo, ad opera dei Conversano, di fare strage di pastori della casata dei Martina che avevano usato l’acqua di una fonte per abbeverare gli animali nella campagna di Altamura oppure quando, un anno dopo, entrambe le casate pretendevano il diritto di accesso ai parchi serrati da cui entrambe erano escluse per legge in quanto tale diritto riguardava soltanto la zona demaniale.[11]

Le problematiche relative alla lotta al banditismo riscontrate nel Regno di Napoli nel decennio post-epidemico dovettero persistere immutate anche oltre il vuoto documentario degli anni 1667 –1671 (dove si ferma questa ricerca) se i primi documenti giunti in Collaterale agli inizi del 1672 riproponevano un quadro pressoché immutato caratterizzato dalle attività delittuose di nuovi banditi (nella zona di Avellino quelle dell’Abate Cesare; in Calabria quelle di don Carlo e don Matteo Cedispoti all’ombra del Marchese d’Arena) e dalla lotta tra grosse casate feudali (il Collaterale comminò pene severe ai vassalli dei Martina e dei Mottola che avevano contravvenuto a precisi bandi vicereali andando a pascolare nei “territori serrati d’alcuni particolari della Terra delle Nuce”). [12]

 

 



[1] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol.61: 15, 16 e 30 maggio 1657; 21 giugno 1657.

[2] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol.61: 4 giugno 1657

[3] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol.61: 4 luglio 1657

[4] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol.61: 6 febbraio, 4 e 10 aprile, 7 e 25 maggio 1657.

[5] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62: 9 aprile 1658.

[6] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62: 12 giugno, 12 luglio e 6 settembre 1658.

[7] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 63: 9 giugno; 18, 21 e 23 luglio 1659.

[8] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 66: 21 maggio e 5 giugno 1663

[9] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 66: 3 e 5 luglio1663

[10] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 5, 13 e 24 nov. 1665; 14 febbraio 1667.

[11] Archivio di Stato di Napoli, Not. Cons. Coll. vol. 67: 4 febbraio, 8, 11 e 22 novembre 1666; 3 novembre 1667.

[12] Archivio di Stato di Napoli, Not Cons. Coll. vol. 68: 13 novembre 1671, 28 gennaio e 22 marzo 1672


Id: 552 Data: 23/02/2016 14:14:18