I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
Gianluca premette il dosatore del sapone liquido in modo automatico, inconscio, a metà tra il sonno il sonnambulo e lo sveglio, come faceva ogni mattina per lavarsi le mani. Erano le sette. Sua moglie oltre la parete della cucina stava preparando la colazione. In testa rimbombava il sentore dell’ultimo sogno, come una coda di nuvola o di drago svolazzante tra i neuroni di un fatidico cielo giapponese; o forse era solo l’ennesima divagazione che lo portava a pensare che c’erano due tipi di chewingum quando era piccolo…
Il primo era il pacchetto lungo e stretto delle Brooklyn, quelle con sopra disegnato il ponte: il loro verde clorofilla ammiccava promettendo paradisi di gusto dall’angolo alto dello scaffale su cui la mamma riponeva le cose proibite.
«Queste sono per i grandi» diceva ogni volta che lui o suo fratello provavano ad avvicinarsi, ad allungarsi verso la mensola più irraggiungibile del mobile, in punta di piedi su una seggiola traballante recuperata di nascosto in cucina.
Non aveva mai capito perché nella mente di sua madre il gusto menta fosse categoricamente abbinato alla parola ‘adulto’, così come lo erano (con evidente maggior logica) la parola ‘alcool’ o ‘whiskey’ o ‘vino’. Questo binomio era dogmaticamente inscindibile e gli era stato trasmesso dalla sua genitrice con tanta cura da permeare la sua mente al punto che, anche ora che aveva passato i quaranta, da bravo astemio non ordinava mai alcuna bibita, seppur analcolica, alla menta.
Il secondo tipo erano le Big Bubble. Estremamente pubblicizzate nelle trasmissioni per i ragazzi dalle tv commerciali, per lui e i suoi coetanei cresciuti negli anni Ottanta era praticamente irrinunciabile il gusto sonoramente succoso del palloncino che scoppiava in faccia, così come il mal di mandibola per aver masticato un pomeriggio intero anche dopo che il sapore d’uva era scomparso (e svaniva, a dir il vero, già dopo i primi cinque minuti di massivo to chew).
Le Big Bubble però provocavano carie. Lo sapeva bene suo fratello Filippo, al quale a forza di mangiare cicche (così si chiamavano allora) il dentista dovette estrarre ben due molari nell’arco di poche settimane.
Così per un bel periodo (quello che dall’infanzia lo portò fino all’adolescenza, quando ormai le gomme succose erano in declino su tutto il pianeta) anche le Big Bubble vennero relegate sul piano alto dello scaffale: se ne poteva assaggiare una sola alla settimana, e rigorosamente di domenica.
Ma da un certo giorno in poi suo fratello non le degnò più nemmeno di uno sguardo. Non ne poteva più sopportare nemmeno la vista e il solo nominarle gli causava degli arrovellamenti di stomaco da non potersi dire.
Una mattina, infatti, aveva avuto la brillante idea di chiedere alla maestra Lia di che cosa fossero composte le cicche; domandò timidamente quali fossero gli incredibili ingredienti che le rendevano così molli e appiccicose.
‘Grasso di topo’- era stata la risposta.
‘Grasso di topo condensato’- era stata la seconda risposta, più specifica e scientifica, dopo che suo fratello doveva aver mostrato una faccia da ebete di fronte alla prima.
Grasso di topo. A pensarci bene gli veniva da ridere ancora adesso. Non aveva mai capito se la maestra fosse stata in combutta con sua madre perché questa spiegazione fungesse da deterrente per suo fratello… Ad ogni modo, Filippo non ne mangiò più; e lui neppure.
Ma nell’angolo più dolce dei ricordi gli sovveniva di quelle bilie dolciastre che il nonno –di nascosto da tutti- infilava loro nelle tasche quando li portava al bar: erano gialle o rosse o blu, ricche di zucchero coloranti e sicuramente di una grande quantità di grasso di topo condensato; erano erogate da macchinette in cui riporre fiduciosamente la monetina da 200 lire; la paziente manovella girata dal nonno, come se macinasse una magia, sprigionava la pallina con un profumo di frutti artificiali degno di un arbre magique. Il sorriso del nonno, poi, nel vederli masticare quella delizia a lui proibita, era il vero paradiso…
Il sapone si era coagulato e sciolto e sciolto e ri-coagulato tra le sue mani, forse seguendo il flusso del pensiero; il profumo era proprio come quello delle bilie. Voleva chiedere a sua moglie il nome di questa nuova fragranza: l’avrebbe fatto non appena lo avesse chiamato per il caffè.
Si guardò il viso riflesso allo specchio: c’era un nucleo di idee che si trasfiguravano in rughe sulla fronte; erano rughe di troppo, come linee tracciate da un tempo esausto e trascorso invano. C’era un labirinto sarcastico di pensieri che si prendeva gioco del suo volto, che agiva dalla parte più recondita del suo io e lo modificava, compiva in lui una sorta di delitto, o lo simulava; e sul suo volto appariva un incrocio tra zone di delitti mai commessi dove pure il tenente più abile si sarebbe perso. O risvegliato. In un punto qualunque, all’incontro tra punti diversi e magari inesistenti.
Si guardò di nuovo allo specchio in cerca di maggiore oggettività: era il momento di smettere di sentirsi filosofo.
Ma poi si osservò le mani: qualcosa insisteva, voleva imporsi alla sua attenzione, granuloso, sulle sue dita. Era il sapone: si era gonfiato, palleggiava nel suo palmo come una bilia autonoma e semovente, esattamente come una di quelle che suo nonno gli comperava al bar. Ma era traslucida, trasparente, si ingrandiva e si rimpiccioliva coma una membrana che respirasse. Pulsava, di consistenza viva.
Fu in quell’istante che, mentre cercava di comprendere, sentì il profumo invadere le sue narici, strabuzzargli dal retro gli occhi, annullargli la mente.
Rotolò per un po’ verso il corridoio.
La voce di sua moglie lo colse senza che potesse rispondere.
Sul pavimento, una manciata di minuti dopo, lei trovò una cicca come quelle che negli anni Ottanta si prendevano alle macchinette meccaniche del bar. L’avrebbe scambiata per una pallina di incerta origine, se non fosse stato per quel profumo inebriante che le richiamava l’infanzia.
Chissà da dove proveniva.
‘L’avrà persa Gianluca dalle tasche’ – commentò tra sé e sé.
A proposito… di Gianluca nessuna traccia: che fosse uscito senza dirglielo? Si sa, a volte gli uomini sono così strani...
La bilia sul pavimento richiamava sempre più la sua attenzione: era rossa, o forse era arancio, cambiava tonalità a seconda del suo punto di osservazione.
La raccolse. Benché riluttante (non si mettono in bocca le cose raccolte da terra- le aveva sempre imposto sua madre da quando aveva due anni), sapendo di non esser vista, se la mangiò.