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Raccolta di testi in prosa di Samuela Cittadini
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Il colore della terra »
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Rosa rancore


Rosa rancore



1



La vecchia chiesa continuava a svettare a due passi da casa sua ma, dal tempo dello scandalo che aveva coinvolto il parroco e la sua amica, Rosa non ci era andata più. Erano trascorsi quarantacinque anni, quel parroco con il basco nero sulle ventitré era scomparso, inghiottito nel nulla e forse era pure morto e la sua amica, invecchiata e nonna come lei, non era più la donna di quel tempo, era un’altra. Il tempo macina le nostre cellule in polvere fine, la pelle si stacca in squame sottili e fa posto a nuova pelle, a un’altra faccia, a un’altra storia, a un’altra vita.
Da quarantacinque anni Rosa si costringeva a fare molta strada in più per dire le sue preghiere e raggiungeva la lontana parrocchia di S. Francesco, ogni mattina, che tirasse vento o nevicasse, che fosse già caldo o che piovesse. Giunta all’ingresso spinse la porta laterale e scivolò all’interno, con una mano spiegò il fazzoletto nero e con l’altra se lo adagiò sulla testa, un accenno d’inchino sul ginocchio malfermo al centro della navata e, con la sola punta del dito indice, il segno della croce sferzato dalla fronte al cuore e da sinistra a destra sul petto.
La forza dell’abitudine le faceva compiere quei gesti in un automatismo inconsapevole e, se solo avesse potuto osservarsi dal di fuori, avrebbe capito alcune cose di se stessa. Ma, Rosa sapeva osservarsi solo dal di dentro e non c'era nessuno che la osservasse mai, specie alle sette del mattino, in quella chiesa lontana dal suo quartiere. Non c'era nessuno, a parte, su quel sedile laterale seduta all’estremità, una ragazza con lo zaino della scuola appoggiato per terra. L’hai combinata proprio grossa, cara mia, se a quest’ora prima della lezione te ne vieni qui a pregare, pensò Rosa, hai determinati peccati da farti perdonare, o chiedi intercessione a dio, che è lontano e impalpabile, affinché i tuoi peggiori presagi non s’avverino. Li conosceva i peccati, Rosa. Per tutta la sua vita non aveva fatto altro che tener conto dei peccati altrui. Perché lei era pulita. Non aveva fatto niente, lei. Lo sapevano tutti. Conosceva pure il dio lontano e impalpabile che aveva pregato in tutti gli stati d’animo che l’avevano attraversata nei suoi settantacinque anni. E l’aveva capito fin troppo bene che non era né lontano né impalpabile, ma sordo sordo sordo. O quello, o indifferente, perché sollievo in lui, Rosa, non l’aveva trovato mai.

Intenta in questi pensieri, pregò meccanicamente le sue preghiere e senza aspettar messa tornò a casa.
Preparò la moka con due terzi di orzo e uno di caffè, come ogni mattina. Il mal di cuore s’era portato via il suo giovane sposo cinquant’anni prima che era ancora una ragazzina, ma per fortuna già madre e, ora che il figlio era cresciuto tanto e s’era fatto la sua vita, a lei non rimaneva che il telaietto per il ricamo con cui mettere alla prova i suoi occhi stanchi e le mani indecise. Pure i ricordi però le tenevano compagnia e, come spesso succede quando la vita sembra non mostrare più per noi il minimo interesse, il tempo della memoria prende il posto del presente, i ricordi si fanno di carne, come accaduti un momento fa. Davanti alla tazzina vuota del vecchio servizio da caffè che le aveva lasciato sua madre – e, a sua madre la madre di lei – Rosa rivide se stessa da giovane. Svanite le speranze d’andare in sposa a qualche belloccio di paese – visto che nella grande casa dove s’abitava tutti insieme i belli non venivano mai a trovare lei, ma sempre qualche sua cugina – Rosa s’era rassegnata a una sorte meno romantica e aveva infine sperato nell’arrivo di un buon uomo che, prendendosela in carico, avrebbe sgravato la sua famiglia dalla necessità di sfamare una bocca in più e realizzato il suo destino di donna, che non poteva che essere quello di diventare sposa e madre. Quell’altro destino, Rosa non voleva nemmeno prenderlo in considerazione. Si sarebbe ammazzata nel fiume, piuttosto. Ma alla fine il buon uomo era arrivato e lei aveva avuto il suo momento di felicità. Rosa sapeva quel che pensavano le sue cugine il giorno che uscì per l’ultima volta dalla sua stanzetta, nel suo semplice abito da sposa. Lo sapeva talmente forte da sentire i loro pensieri. Sentiva il compatimento misto allo stupore di vedere che anche lei ce l’aveva fatta, ma lei era felice lo stesso e aveva alzato la testa fiera e consapevole di muovere i suoi ultimi passi via da quell’inferno. Perché quelle, mai messe a dura prova dalla sorte, non immaginavano neanche quante sfumature potesse avere la felicità. La gente sa solo ragionare con la propria testa, pensò Rosa, fissando gli occhi nel vuoto, totalmente inconsapevole di fare anche lei la stessa cosa. Stare per anni dietro alle tendine della finestra che dava sullo stradone bianco d’ingresso alla grande casa per vederlo percorrere da giovani allegri con un mazzolino di fiori di campo in mano, o un pacchetto legato con lo spago, al cui interno si celava magari un delizioso dolcetto, e sapere di non essere mai lei la destinataria di tale gentilezza, l’aveva amareggiata e riempita di rancore. Gli anni passavano e quel poco di freschezza che le era toccata in sorte sfioriva insieme alla speranza d’esser pure lei amata. Per questo il giorno del suo matrimonio lei era felice e quelle non l’avrebbero capito mai, perché in extremis s’era salvata, da un destino atroce s’era salvata, a un pelo dalla morte s’era salvata, e quell’uomo che la prendeva in sposa poteva non essere granché agli occhi delle altre, ma certo era un re agli occhi suoi.
Quel giorno era cominciata la sua seconda vita. Mai uscita di casa prima d’allora, mai baciata, mai ricevuto un complimento, neanche falso, ora aveva la sua casa, un grazioso mezzanino con il bagno in cortile. Erano altri tempi, mica sembravano sacrifici quelli, erano sciocchezze paragonate al destino inesorabile che l’avrebbe attesa, se non fosse arrivato lui.
La moka borbottò i suoi primi singulti, il caffè misto era quasi pronto e Rosa si scosse per gettar via quei ricordi, spense il fuoco, aspettò ancora un poco poi lo versò nella tazzina di ceramica con le rose appassite. Quanti anni avrà avuto quella tazzina? Essendo un regalo di nozze di sua nonna a sua madre poteva essere quantomeno del 1880, pertanto quella tazzina s’era vista scorrere davanti la vita di tre generazioni come se fosse niente, senza rompersi né incrinarsi, impassibile alle sorti di quelli che le erano passati accanto.
Rosa si sedette a tavola e mangiò il biscotto che aveva messo sul tovagliolo, inzuppandolo brevemente affinché non si rompesse tutto nel caffè. Poi si portò la tazzina accanto alla finestra, scostò quel tanto la tendina per osservare in strada senza che nessuno la vedesse – il suo rituale, da sempre. Ancora da prima che le cose andassero a rotoli. Ed era più che un rituale. Era un destino. Si può sfuggire a quello che ci sembra il peggio per un po’, ma il destino non si dimentica mai davvero di noi, pensò Rosa con amarezza.



II




Oggi il mezzanino era diventato un appartamento di settanta metri e il bagno era dove avrebbe sempre dovuto essere, in casa, dotato di ogni comodità. C’erano voluti anni di sacrifici per comprarlo dal vecchio proprietario che tanti anni prima l’aveva affittato a lei e suo marito. E, certo, si sarebbe acquistato tanto tempo prima se quello, suo marito, non fosse andato a morire giusto qualche mese dopo il matrimonio mentre lei era incinta di Giulianino, Nino. Rosa, esperta di accumulo di rancore, ne provava una discreta quantità anche nei confronti del suo sposo-per-un-attimo. Ma come si fa a morire così? Ma come si fa a lasciarla sola, senza il becco d’un quattrino e perdipiù incinta?
Erano stati anni duri e Rosa si era rassegnata a vivere di aiuti familiari e di favori poi, quando Nino fu abbastanza grande da andare a scuola, entrò a servizio nella casa della signora Giulia, madre del sindaco del paese, e le cose migliorarono. Quella per lungo tempo fu la sua unica vita sociale, la signora era vigorosa e decisa a sostenere in ogni modo l’ascesa di suo figlio che un giorno, chissà, magari sarebbe finito a sedere in parlamento. Perciò in quella casa era un continuo organizzare cene e serate danzanti, arrivavano a volte personalità importanti del partito direttamente da Roma e Rosa era diventata una persona indispensabile per la signora Giulia.
Poi, un giorno un parente di Rosa le prospettò la possibilità di essere assunta alla Fiat. Certo avrebbe fatto un lavoro completamente diverso, un vero lavoro organizzato, insieme a tante persone, ma avrebbe avuto finalmente anche dei diritti e avrebbe potuto affrancarsi dalla vita di domestica. Rosa aveva paura del cambiamento e poi stava bene con la signora Giulia. Come avrebbe potuto lasciare il suo posto senza offenderla?
«Offenderla?», sbottò il parente, «e lei non ti offende ogni giorno facendoti fare la schiava? Non hai neanche un giorno di riposo e per andare a parlare con gli insegnanti di tuo figlio devi chiederle il favore di poterti assentare due ore. Questo non ti offende?»
Fu in quel tempo che cominciò la terza vita di Rosa. E dopo anni di faticosi servizi in una casa altrui, a quasi quarant’anni entrava nella grande fabbrica.  All’inizio fu un incubo adattarsi, non conosceva nessuno, le donne, poche, non le somigliavano per niente, c’erano piuttosto tanti uomini e tutti le mettevano soggezione. Allora si era data da fare, aveva imparato in fretta, s’era costruita una sua professionalità e nel momento in cui arrivarono i primi stipendi si rese conto che era stata la scelta giusta. Finalmente poteva fare progetti, piccoli certo, ma piano piano anche lei si sarebbe guadagnata il suo posto nel mondo. Le vicine di casa ormai la invidiavano quasi, loro che passavano il loro tempo ad accudire figli e mariti, far la spesa al mercato, cucinare e pulire. Che poi non era altro che quello che avrebbe voluto fare lei fin dal principio. Ma le cose erano andate diversamente. A un tratto, lei che aveva lavorato senza lo straccio di un contributo né vacanza per trecentosessantacinque giorni all’anno, si ritrovava a fare, dio mio, le ferie. Che dolce parola, ferie. Il che implicava avere quindici giorni d’estate tutti per sé e suo figlio, e capire infine il senso dell’estate che per lei aveva significato sempre e solo sudore. Non sarebbe partita per delle vere vacanze, certo. Non avrebbe saputo dove andare. Tutti andavano al mare, ma erano delle vere famiglie non menomate come la sua e, anche se Nino strepitava per andarci, lei resisteva e al più lo portava qualche giorno in montagna. Lì si sentiva più normale.
Marcella, la sua più cara amica, partiva con marito e figlia anche lei per una settimana di mare e anche se le aveva spesso offerto di andare insieme, Rosa aveva sempre declinato. Non si sentiva a proprio agio senza un marito, si sentiva in difetto. Marcella rideva, non faceva che ripeterle quanto fosse fortunata, invece. Sei libera, Rosi’, puoi fare quello che ti pare, le diceva sempre. E allora anche Rosa rideva con lei perché, anche se conduceva una vita irreprensibile, sempre attenta che gli altri parlassero bene di lei, in segreto si divertiva da matti per le scorribande dell’amica.
Qualche anno prima Marcella era stata scoperta con le gonne alzate e le mutande abbassate a beneficio del parroco, proprio dietro l’altare, e in paese s’era creato il putiferio. Suo marito aveva tentato di strangolarla e solo i vicini accorsi alle grida della donna avevano scongiurato il peggio. Marcella s’era buttata in ginocchio a supplicare pietà, battendosi il petto e gridando di essere una disgraziata con la carne debole, e che avrebbe fatto di tutto per guarire. Il marito ebbe compassione di lei e, agli occhi del paese, diventò automaticamente “il santo”. Poco tempo dopo i fatti, Marcella si scoprì incinta e la pace in famiglia tornò a regnare. Tutti sospettavano che il parroco, cancellato dalla faccia della terra, c’entrasse qualcosa con questo bimbo in arrivo ma, come spesso accade nelle piccole comunità di benpensanti, davanti alle richieste di pietà e perdono dopo la confessione del peccato, tutti erano stati ben disposti a sospendere il giudizio. Perché, se parlavi male di Marcella non potevi non offendere quel sant’uomo del marito, perciò zitti e muti. E così Marcella diventò mamma di una bella bambina che chiamò Benedetta e che non somigliava né al parroco né al marito, e anche questo aspetto, che poteva ancora stuzzicare la fantasia di qualcuno, era stato risolto. Ancora allattava al seno la piccola quando le sue scorribande ricominciarono daccapo. Ma stavolta era preparata, non era più una principiante, non avrebbe più permesso che accadesse quel che era accaduto con il prete. E Rosa, in un modo o nell’altro, aveva finito per essere sua complice perché, di tanto in tanto, Marcella le lasciava la piccola per un affare urgente e, benché avesse i suoi sospetti, Rosa se li teneva per sé. Metteva la bimba a giocare con Nino e badava alle faccende di casa sua.

 

III


Rosa tornò a sedersi con la tazzina in mano e continuò a girare lo zucchero nel caffè che ormai s’era fatto freddo, ma non le importava. Gli occhi ridotti a fessure sottili puntavano un angolo insignificante della stanza. Non le importava più di niente. Come era arrivata a questo punto?
Era la vita che scivolava via, si disse, e nonostante tutto si accumulava sulle spalle come fardello insopportabile – no. Ci fosse stato Nino l’avrebbe redarguita, è una metafora che non tiene, mamma, la vita se scivola via non può accumularsi sulle spalle, deciditi, resta o se ne va? E l’avrebbe fatta ridere, in fondo era di questo che sentiva la mancanza più di tutto. Di suo figlio come era una volta, ma anche di Benedetta che era diventata sua nuora e di Marcella, vecchia amica che, nel momento stesso in cui era diventata consuocera, aveva cancellato dalla sua vita. Aveva nostalgia delle risate che avevano fatto insieme, della leggerezza che si impossessava all'improvviso di lei e le faceva dimenticare rabbie e rancori accumulati dall' aver vissuto dietro alle tende della finestra – a spiare le vite degli altri, le loro gioie e le loro disgrazie, catalogando entrate uscite e facce che suonavano alla porta delle case dirimpetto – oppure ad ascoltare con aria indifferente i discorsi sussurrati dalle donne al mercatino rionale – registrando tutto nel suo libricino nero dei peccati e, quando opportuno,  a far giungere all'orecchio giusto l'ingiuria contro il tale o la tale.
La verità è che s’era sentita di diritto umana solo insieme a loro. Poi, quando rimaneva sola, i vecchi e i nuovi rancori tornavano a soffocarla e l’odio diventava più forte di qualunque cosa.

E, quando Nino aveva sposato Benedetta, la figlia di Marcella, il suo mondo era imploso.

Rosa finalmente bevve il suo caffè d’orzo ormai ghiaccio, guardò il telaio appoggiato sul divano, la stoffa si era allentata e i fiorellini che aveva ricamato avevano tutti il capo all’ingiù. Non aveva voglia neanche di prenderlo in mano, quel ricamo somigliava ormai alla tela di Penelope e, anche se non lo sfasciava di notte intenzionalmente, ogni scusa era buona per modificarlo all’infinito di giorno, e quel ricamo non finiva mai. Decise allora di scendere nel suo piccolo giardino e portare un poco d’acqua ai fiori. Ma, appena fu sull’uscio, sentì lo scatto della porta di casa di fronte alla sua e si trovò davanti la sua vecchia amica. Marcella ristette immobile e seria e Rosa le fece il solito cenno della testa che le riservava ogni volta che la sfortuna voleva che si incrociassero, poi scese la rampa di scale esterna e portò l’acqua ai fiori. Tolse qualche foglia secca, qualche petalo appassito, osservò il piccolo giardino fiorito senza nessuna gioia e risalì le scale. Marcella era ancora lì, ferma fuori dalla porta e la guardava. Rosa pretese di ignorarla e spinse il portone per rientrare in casa ma quella, ostinata, pazza, la chiamò: «Rosi’!».
Rosa si fermò, e dandole le spalle, «Che vuoi?» disse.
«Ma non è ora di finirla con questa assurdità?»
Rosa si girò lentamente e guardò la vecchia amica «Non finirà mai, perché siamo legate per sempre e questo non te lo perdonerò mai».
«Ma noi eravamo amiche, Rosi’, ci siamo volute bene, io a te e tu a me, così come eravamo, ti stava bene allora.»
«Allora, sì, poi Nino ha sposato Benedetta e tutto è cambiato. Adesso lasciami in pace».
«E la chiami pace? Cosa fai tutto il giorno, tieni il conto delle malefatte altrui, tiri le somme dei peccati degli altri? Tieni mai conto di tutto quello che hai fatto tu?»
«E che avrei fatto io? Niente ho fatto, ho cresciuto un figlio da sola, e sempre sola sono restata. Io sono pulita».
«E invece noi siamo sporchi, vero?»
«Tu sei sporca di sicuro».
Marcella indietreggiò sulla sua porta come colpita da uno schiaffo. Che aveva vissuto per quanto le era stato possibile la sua vita era certo, ma in verità non aveva mai fatto male a nessuno. Quando hai un marito che passa più tempo con gli amici al circolo e non ti fa mai una carezza che è una, e che se parli con lui è solo di problemi di casa, è come essere socia di una s.r.l., anziché una moglie. La vita vera, la vita di carne e sentimenti non era contemplata. Lui portava il pane sulla tavola e lei pensava a Benedetta e alla casa. E il bene, Marcella, se lo andava a prendere dove stava.
Era colpevole di questo? E, sia. Ma non aveva intenzione di chiedere scusa a nessuno. Aveva amato e cresciuto con tenerezza sua figlia ma avrebbe voluto anche molto di più per se stessa, anziché andare a dormire ogni notte della sua vita con roccia inerte che crollava sul letto e si addormentava. Il paese lo riteneva un santo. Ebbene, il santo era un sasso freddo la cui unica scintilla di umanità l’aveva dimostrata quando, per la vicenda del prete, s’era attentato alla sua dignità di marito.
Ah, l’etica dei paesotti quanto era sempliciotta e vuota, un’etica tutta di superficie, basata su una morale del piffero che non valeva niente perché serviva solo a salvare le apparenze, lo stesso che mettere il profumo senza lavarsi. La puzza saltava sempre fuori. Marcella aveva in mente altro quando s’era affacciata sulla porta, oggi tornava da Parigi la loro nipote adorata, Diletta. Nino e Benedetta sarebbero stati a pranzo da lei, avrebbero festeggiato il ritorno di Diletta, ragazza sveglia che fra qualche mese si sarebbe laureata alla Sorbonne. Marcella era fiera di quella nipote, una ragazza studiosa che puntava alla conoscenza, che aveva viaggiato e creduto al suo futuro, una ragazza libera, intelligente che non avrebbe vissuto la sua vita nel recinto di quelle menti ristrette come era toccato a tutti loro. Marcella s’era affacciata sulla porta per dire a Rosa di prepararsi ché sua nipote sarebbe passata a trovarla, ma non ce l’aveva fatta, Rosa con quel suo grugno di donna tutta d’un pezzo non le aveva dato modo, né lei era riuscita a prenderselo. Era stanca, soprattutto di far ragionare chi non voleva ragionare e poi aveva da fare, presto sarebbero arrivati tutti e lei doveva ancora apparecchiare la tavola.

Più tardi Rosa s’accorse di un rumore in strada e subito andò alla finestra, scansò la tendina quel tanto che bastava a vedere e non esser vista e scorse suo figlio insieme a Benedetta e Diletta. Erano tutti presi a scaricare dalla macchina pacchetti e valigie. Quando Nino si fece davanti al cancello di casa di Marcella guardò per un attimo alla finestra di sua madre, per un attimo gli occhi suoi incrociarono, dietro alle tende, gli occhi di Rosa. Nino sapeva che sua madre era lì, forse aspettò per un secondo o due che lei si affacciasse alla finestra o alla porta di casa sua, ma lei non lo fece, come sempre. Nino gliel’aveva promesso tanto tempo prima, «finché non tornerai sui tuoi passi e non ci amerai tutti, io non sarò più tuo figlio».
No, Rosa non si affacciò, lasciò la tenda e prese il telaio, accese la tv e s’immerse nel suo infinito, insensato ricamo ma, poco dopo lo gettò a terra, disgustata, pensò alla cucina della casa a fianco, alle risate e ai discorsi amabili fra quei commensali. Pensò che gli occhi di Diletta sicuramente brillavano di gioia nel raccontare a sua nonna Marcella delle sue storie d’Università a Parigi, della bella città romantica che avrebbe amato anche lei, se fosse finalmente andata a trovarla. Vide davanti agli occhi Nino e Benedetta che, sorridenti, si scambiavano una carezza, la carezza che a Rosa la vita aveva negato, che lei stessa si ostinava a negarsi.

Li odiò tutti e pianse.


Id: 5517 Data: 29/07/2023 13:33:07

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Il cammino di Cobá


Lasciando Tulum, la strada 109 dello Stato di Quintana Roo, in Messico, prima serpeggia in mezzo a case e ranch, a negozi e ristoranti, a pompe della Pemex e a fabbricati in costruzione, poi avanza dritta in mezzo alla giungla. È l’una e mezza di un pomeriggio di piena estate e il caldo comincia a farsi sentire. In alto, nuvole bianche in formazione libera cospirano per attenuare la luce, altrimenti abbagliante. Il verde è vivido, il cielo sbuca ovunque con guizzi d’azzurro. In lontananza riesco a vedere il riverbero del vapore che sale dalla strada.
Vai immediatamente alla Iglesia di Cobá e cerca la stele numero 11.
C’è scritto così, sul biglietto dai bordi bruciacchiati che mi ha messo in mano il vecchio messicano, al ristorante.
Poco prima avevo detto a Marcello: – Vado in bagno – ma lui troppo concentrato a guardarsi intorno, non mi aveva nemmeno sentita. Così avevo avuto per un attimo l’agio d'osservarlo non vista, osservarlo come la microbiologa (che non ero) avrebbe osservato un batterio al microscopio elettronico. Marcellusbapter, ingrandito un milione di volte, mostrava non solo le sue appendici pelose e vischiose, riuscivo pure a vederne le sue agguerrite e fameliche cellule interne, innocue fintanto che non ci fosse stata una preda alla sua portata. Avevo strizzato gli occhi e scosso la testa per liberarmi da quella visione, forse era vero quello che mi avevano detto, in Messico succedevano cose strane.
Nell’unico bagno del ristorante si era creata una discreta fila, un vecchio si era messo in coda dietro di me e subito si era chinato ai miei piedi, aveva raccolto qualcosa e poi mi aveva dato quel biglietto.
– Le è caduto questo, signora.
Aveva occhi curiosi e divertiti d’ossidiana argento che spiccavano sul volto meticcio inciso da mille rughe e io sapevo che il biglietto non poteva essere mio, ma lo avevo preso lo stesso e lo avevo guardato e, nel fare questo, quando avevo rialzato la testa il vecchio si era dileguato, svanito fra la folla del ristorante, inghiottito per intero, e avrei potuto pensare di averlo solo sognato, non fosse stato per la sensazione che mi aveva lasciato il bagliore del suo sguardo.
Il biglietto non era mio né poteva essere diretto a me, ero a Tulum da due giorni e non conoscevo nessuno a parte Marcello.
Ero tornata nella sala, avevo cercato il vecchio con lo sguardo, fra i tavoli, al bar, verso l’uscita ma era scomparso. Però riuscivo benissimo a vedere Marcello, la sua espressione da ladro riservata alle occasioni golose.  
C’ero cascata in pieno.
Non ci era voluto del genio da parte sua, ero stata proprio io ad avere ignorato tutti i segnali di pericolo.
Il mio problema sono io.
Marcello fiutava l’infelicità e l’insoddisfazione di una donna. Percepiva a pelle i suoi bisogni emotivi. L’insicurezza di lei lo esaltava. Sapeva che da una donna con quelle caratteristiche avrebbe potuto ottenere il massimo del vantaggio per se stesso.
Mi girava un poco la testa, ma mi sentivo lucidissima. A tavola avevo sorseggiato una birra, in attesa del mio ordine, mentre lui era concentrato a spuntare nella sua preziosissima lista tutte le cose da fare. Locali da frequentare, spiagge da vedere, barche da affittare. Quello era il suo momento di rimettersi in pari con il mondo, finalmente avrebbe avuto tutte le cose belle della vita che meritava, attraverso me.
Mi era venuto da ridere. Io, ai margini di una sala affollata, con un biglietto in mano destinato a chissà chi, a osservare Marcello e, insieme a lui, tutti i passi falsi che mi avevano condotta fino a lì.
Allora, avevo fatto marcia indietro ed ero rientrata in bagno, mi ero lavata il viso cercando sollievo nell’acqua fresca.
Quando avevo rialzato la testa, il mio volto nello specchio non mi sembrava il mio, invece quella con il kajal un po’ colato agli angoli degli occhi era proprio la mia faccia.
Potevo tornare al tavolo, continuare a stare al gioco, nascondere sotto a un sorriso pensieri di tutt’altra natura.
Che ci faccio qui?  Perché sono partita con lui?
Perché volevo fare questo viaggio, ma avevo paura di farlo da sola – no. Perché lo amo.
Cioè.
Lo amavo.
Riprova.
Credevo di aver bisogno di lui.
Così va meglio.
Sì, avrei potuto tornare al tavolo, soffocare quella rischiosa lucidità improvvisa che mi proiettava all’improvviso su un piano più elevato della realtà; certo, avrei potuto ignorare tutto e andare avanti come se niente fosse, come avevo sempre fatto ogni volta che un lampo di consapevolezza aveva cercato di disturbare la mia visione delle cose.
Invece era stato in quel momento che avevo deciso di uscire dal ristorante ed ero corsa a prendere la macchina.

La Iglesia di Cobá dista meno di cinquanta chilometri da Tulum e, ora, sono sulla strada. Sola.
E, non ho paura.
Arrivo nel parcheggio della zona archeologica che è zeppo di auto e pullman, ma c’è poca gente intorno, i turisti sono quasi tutti dentro. Le ore calde non vanno bene per iniziare queste visite, lo capisco pure da me. Ma non ho nessuna intenzione di tirarmi indietro.
Compro il biglietto e al botteghino mi offrono subito una guida, però preferisco fare il percorso per conto mio. In fondo, la mia non è una vera visita, assomiglia ogni secondo di più a una missione.
Pago l’uomo per farmi spiegare tutto quello che devo sapere. Lui mi mette in mano una mappa e mi dice quello che devo fare, devo tenermi sempre sulle strade bianche, le sacbeob, non entrare nella giungla, avere dell’acqua con me e un cappello. Nel lago di Cobá, alle nostre spalle, dice, ci sono i coccodrilli. Mi guarda dalla testa ai piedi, fino agli infradito e fa segno di no con la testa.
– Prendi una bicicletta, appena dentro o non riuscirai a vedere tutti i templi.
La guida è pensierosa, scuote di nuovo la testa.
– Perché non hai messo scarpe adatte se sapevi di venire qua?
– Perché non sapevo di venire qua.
– Uhm. Claro. Claro, – si gratta il mento, scrutandomi.
Ha una faccia simpatica, gli sorrido e lui mi dà una piccola pacca sulla spalla, come a un vecchio amico.
– Mucha suerte, señorita.
– Grazie, – rispondo e vado subito a fare quello che mi ha detto.
Compro una bottiglia d’acqua fresca e uno di quei cappelli con la visiera che mi sono sempre stati di merda e me lo metto. Faccio quello che devo.
La Iglesia di Cobá è il primo tempio che si incontra nel percorso. Sembra una pagnotta di marzapane, dà quasi una sensazione di morbidezza. La guida ha segnato sulla mappa tutte le stele da visitare, ha detto che devo assolutamente vederle, ci sono incisioni e iscrizioni che testimoniano addirittura il ruolo importantissimo delle donne nelle cerimonie sacre.
Spero solo che non sia perché fossero proprio loro a essere sacrificate.
Ma – ehi – comunque, niente di nuovo, sorelle
!
A me, per il momento, interessa soprattutto la stele numero 11 che si trova proprio davanti al tempio, protetta da una tettoia di paglia.
Solo che adesso non so che fare.
Mi guardo intorno, nel caldo e nel vociare tranquillo dei turisti.
Io volevo venire qui. Ho sempre voluto visitare queste rovine. Ero partita per questo, ma Marcello non voleva saperne. Per lui i templi avrebbero anche potuto crollare, era la bella vita quello che gli interessava. E io avevo rinunciato a visitarli.
È mia la colpa, il difetto è in me.
Paura della solitudine.
Non amore per me stessa.
Desiderio di colmare un vuoto.
Ero un I-Ching vivente dall’esito necessariamente infausto.
Invece ora sono qui.  
Mi avvicino alla pietra e ci appoggio il palmo della mano, sembrerebbe una roccia compatta ma a uno sguardo più attento si notano piccole crepe. Ce n’è una più grande, la osservo meglio, riesco pure a infilarci due dita, c’è qualcosa. Con l’indice e il medio afferro i lembi di un pezzetto di carta. Lo estraggo piano.
È un altro biglietto bruciacchiato sui bordi, come l’altro: Ora al Nohoch Mul. Sali in cima e siediti.
Sì, lo voglio fare.
Sulla mia mappa il Nohoch Mul è indicato a circa un chilometro e mezzo sulla sacbé bianca. Quarantadue metri di altezza, una delle poche piramidi Maya che si possano ancora scalare.
Mi guardo i piedi nudi nelle ciabattine sottili e allora torno indietro e decido di noleggiare quella bici. Quando ripasso davanti alla Iglesia, mi fermo un attimo per ricontrollare le indicazioni e mi avvio per la strada immersa fra gli alberi. È la strada giusta.
Mi chiedo soltanto, “questa strada ha un cuore?”[1]
Oggi questa domanda ha un senso per me.
E anche se mi trovo qui per eseguire gli ordini di uno sconosciuto, sento che è giusto così.
Pedalo fra gli alberi del bene e del male.
– Non toccarli! – ha ammonito, la guida, – crescono insieme intrecciati, uno produce una resina urticante e, l’altro, un siero che la guarisce, tu non toccarli!  
Pedalo sulla strada ricoperta di stucco bianco che forse, duemila anni fa, serviva a renderla più visibile durante la notte, e alla fine arrivo alla piramide.
Non è maestosa come l’avevo immaginata, e sembra che il tempo la stia sgretolando. Al centro della piramide c’è una scala che arriva fino in cima e in mezzo corre una corda per aiutare nella salita.
Lascio la bici e comincio a salire, faccio qualche gradino mettendo bene i piedi e mi accorgo che è una salita davvero ripida. I gradini sono molto stretti e ho quasi le vertigini a guardare giù.
Ma c’è tanta gente che sale con me, allora scherziamo insieme sull’altezza e con tenacia, con il sole completamente allo scoperto, ora, e il sudore che ci cola dalla fronte continuiamo a salire.
Infine, sono lassù e, improvvisamente, ovunque io guardi, in ogni parte dell’orizzonte c’è solo giungla, una distesa smisurata di verde fino all’estremità delle terre dello Yucatan, fino agli oceani, fino alla fine del mondo.
Mi siedo in mezzo agli altri, nel silenzio.
Questa strada ha un cuore.
A ogni gradino ho lasciato dietro di me una zavorra inutile, ogni forma d’illusione, ogni mezzo di distrazione e adesso riesco a sentire la mia libertà.
Siedo in cima alla piramide per molto tempo, per tutto il tempo di cui sembra aver bisogno la mia mente per tornare a una visione limpida e così semplice, in fondo, delle cose che dovrei fare per ritornare davvero a me stessa. Solo a quel punto scendo e riprendo la via del ritorno.
A Tulum, in albergo, decido di parlare subito con il direttore e gli spiego la situazione.
– Nessun problema, signora. Le faccio portare le sue cose nell’altro hotel. Non dovrà neanche vederlo.
Nella fretta di uscire, per timore che Marcello si materializzi proprio mentre lo sto piantando, noto due vecchi che mi osservano dalla veranda all’aperto di fianco alla hall. Qualcosa nel loro atteggiamento mi spinge, appena fuori, a girare di lato alla porta principale e fermarmi dietro ai tendoni bianchi che si gonfiano al vento. Sono solo due vecchi seduti a un tavolo che parlano e ridono.
– È la donna del biglietto? – Chiede uno.
– Sì, – risponde l’altro.
– E dove l’hai mandata, questa?
– A Cobá, ai templi. È stato facile, era quasi pronta.
– E, si è trovata, vero?
– Oh, sì! – ride – si trovano tutti, basta spingerli a cambiare strada, per un po’.
E mentre pronuncia queste parole, un colpo di vento scosta il tendone dove mi sono nascosta e riconosco il vecchio messicano.
Lui mi guarda e mi sorride con quello strano bagliore nel suo sguardo d’argento.



[1] Castaneda Carlos, A scuola dallo stregone. BUR. 2013, pag.83 edizione Kindle


Id: 5497 Data: 21/05/2023 12:49:12

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Dalla Finestra


Dalla Finestra

(Immagine e testo: Samuela Cittadini)




Che importava chi ci sarebbe stato, importava solo che ci fosse una finestra, meglio una porta-finestra, ma anche una piccola avrebbe funzionato, stante la giusta altezza dal suolo. Non più che a un metro e venti da terra o non ci sarebbe arrivato. Stirarsi, poteva, quel tanto. Ma non avrebbe resistito a lungo, soprattutto non avrebbe goduto dell'incanto del mondo là fuori, godimento che presupponeva un adeguato livello di rilassatezza psicofisica, non raggiungibile altrimenti se non da una posizione comoda. La gente ricorreva a cose complicate quando si trattava di rilassarsi, a meditazioni a testa in giù in bilico sul mignolo di una mano, a percorsi ancestrali nelle profondità di boschi impraticabili o, per quanto ne sapeva, a sballi psicotropici annientatori per un poco d’ogni disagio, solo per riscoprirlo dietro l’angolo, aumentato di una tacca, un momento dopo. O, forse, no, che ne sapeva lui, in fondo, di sballi? S’era mai sballato, lui? No.
Una posizione comoda sarebbe stata più che sufficiente per chiunque, se solo chiunque si fosse dato la pena di fermarsi un attimo, disertare la corsa e scendere da questo cavallo indemoniato, altrimenti noto come mondo.
A lui bastava una brava finestra utile. Il cicaleccio degli astanti lo annoiava tanto da fingersi quasi cieco – alibi testato con successo altre volte – pertanto era raro che qualcuno gli rivolgesse la parola. In queste sale d’aspetto d’ospedali di circoscrizione il tempo d’attesa poteva allungarsi così a dismisura da perderne per sempre la cognizione. Non voleva parlare con nessuno delle stesse cose di cui s’era parlato già mille volte. Gli venne in mente però che quelle stesse conversazioni non avrebbe potuto fare a meno d’ascoltarle. Passivamente, le parole lo avrebbero colpito di rimando con la patetica ottusità che assumevano quelle stra-dette, ché a forza d’esser ripetute perdevano d’ogni significato. Perciò pensò bene la prossima volta di rendersi pure sordo.
La sala era quasi piena. Suo figlio, che lo accompagnava sempre quando aveva una visita, manovrò con esperienza la sua carrozzina verso lo spazio libero davanti alla finestra (di perfette dimensioni) e si sedette su una sedia accanto. Uno scambio di informazioni fra gli astanti, per capire a che ora fossero gli orari dei rispettivi appuntamenti, fu tutto. Niente cicaleccio né soliti convenevoli, né commenti sul tempo. Solo, una donna, si lamentò del dolore alla gamba per tutti i giri che aveva dovuto fare prima di trovare il reparto, e tutto per colpa di quell’inetto allo sportello che ignorava, a quanto pare, che il reparto giusto si trovasse proprio al di sotto del suo.
«È stato molto fortunato», disse un’altra donna, probabilmente quella che leggeva un libro sullo smartphone e che aveva visto per un attimo quando le era passato accanto.
«È stato fortunato e anche io lo sono stata», continuò la donna, «perché dopo tutta la strada inutile che ci ha fatto fare, se lo avessi incontrato di nuovo gli avrei messo le mani al collo. E avrei stretto, pure».
Allora, le due donne erano scoppiate a ridere e non sapeva bene perché ma anche a lui era venuto da ridere.
Fuori dalla finestra la collina si asciugava dopo la pioggia sotto al sole d’Aprile, e avrebbe continuato ad asciugarsi e a inverdire anche se lui se ne fosse andato. Così tolse gli occhiali scuri, con calma s’alzò dalla carrozzina e prese posto accanto alla donna che aveva parlato.

«Forse qui sto più comodo», si giustificò lui.
«Ma così non potrà più vedere quello che c’è oltre la finestra», gli disse maliziosamente la donna.
«Giusta osservazione», approvò lui e le sorrise, sorridendo a se stesso del suo segreto espediente che tanto segreto non era più. Sporgendosi un poco verso di lei fece anche in tempo a vedere che la donna aveva scritto qualcosa sul suo telefono: “Che importava chi ci sarebbe stato, importava solo che ci fosse una finestra”.


Id: 5489 Data: 19/04/2023 21:24:16

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Una seconda possibilità

Una seconda possibilità

 

 

Piove ancora. Le valli corrono fianco a fianco, si sovrappongono in morbide volute, poi diventano campi di pianura che si dilatano fino al nulla. Il verde racconta almeno cento sfumature diverse e le spighe d’orzo si flettono sotto la forza dell’acquazzone estivo.

Meglio piegarsi che spezzarsi per sempre.
Spezzarsi mai

E, in mezzo a valli che accolgono pianure, e a pianure che cullano spighe d’orzo, e a spighe d’orzo a capo chino si insinua questa strada tortuosa via dal mondo. Sopra a questa strada passa un’auto che sussulta, e nell’auto ci sono io.  Ho trent’anni, mi chiamo Irene e a guidarmi, in questo pomeriggio lucido di pioggia, non ho altro che un foglio pieno d'indicazioni.
E un’ipotesi.

Non so aspettare.
E non so lasciare che le cose accadano. Come quel 26 ottobre 1973, quando il giudice era uscito di casa per andare al lavoro. Durante la notte avevo posizionato l’esplosivo sotto alla sua macchina e mi ero nascosta nel furgone parcheggiato vicino. Avevo atteso il giorno con i sensi all’erta, spiando da dietro il finestrino ogni singolo movimento. Quando la mattina l’uomo era uscito dal portone, con qualche minuto di anticipo, aveva esitato un attimo sulla soglia, si era voltato indietro, si era chinato a prendere qualcosa.
Ma non era una cosa.
Quella mattina, avrebbe accompagnato sua figlia a scuola. Una bambina con un cappottino azzurro, la treccia lunga che ondeggiava fuori dal colletto. Il cuore aveva cominciato a martellarmi nelle tempie. E, mentre avevano preso a scendere i gradini del palazzo, mi ero buttata fuori dal furgone, ero corsa verso di loro. L’uomo aveva stretto istintivamente a sé la bambina.
– Rientrate in casa, – avevo detto. Non sapevo che altro dire. Era tutto sbagliato.
– Che cosa vuole? Chi è lei?
– Non ha importanza, la prego, rientrate in casa.
Avevo guardato l’orologio, eravamo a metà della scalinata, troppo vicini all’auto e l’uomo continuava a fissarmi. Allora gli avevo strappato la bambina dall’abbraccio, mi ero gettata a terra con lei per farle scudo con il mio corpo.
Era stato in quel momento che la bomba era esplosa in un boato mostruoso.
All’improvviso la città era sveglia. Il portone della casa si era spalancato allora mi ero rialzata, avevo sollevato la bambina e l’avevo affidata alla donna che era apparsa sulla soglia. L’uomo, sulle scale, non c’era più. La donna era rimasta immobile sulla porta e la bambina, ora fra le sue braccia, mi fissava con una tale intensità che forse non mi avrebbe più dimenticata. Ma non c’era tempo. Avevo scosso la donna.
– Chiami subito un’ambulanza.
– Il giudice… – la donna era sotto choc, la sua voce esitava.
– Chiami – subito – un’ambulanza, – avevo ripetuto.
Poi, avevo sceso i gradini fino alla fine della balaustra e finalmente avevo visto il giudice riverso a terra, di lato. Mi ero chinata su di lui, respirava e aveva gli occhi aperti, con un po’ di fortuna se la sarebbe cavata solo con qualche contusione allora, sotto al severo tocco lento di una campana vicina, mi ero rialzata e con passo normale avevo raggiunto il furgone. Guidando con una calma esasperante mi ero allontanata nell’intrico delle vie strette, uscendo dalla parte opposta del quartiere.
Vicino alla stazione della metropolitana c’era un parcheggio di pendolari che verso sera si svuotava. Un buon posto per abbandonare il furgone. Rubato qualche giorno prima, l’ordine era stato di portarlo in un luogo isolato e bruciarlo. Invece, avevo usato la tanica di benzina su uno straccio e avevo cercato di pulire ovunque avessi toccato.
Avevo raggiunto a piedi la stazione e fatto perdere le mie tracce.
Se qualcuno mi avesse notata, avrebbe ricordato soltanto una donna. Lunghissimi capelli neri.

Non so aspettare.
Il mio istinto è più saggio della mia ragione. Quel giorno nessuno era morto perché dentro di me una forza più grande di qualsiasi motivazione non aveva permesso che succedesse.
Forse le ragioni della mia lotta non erano solide o forse non ne accettavo le modalità.
Non lo sapevo ancora.
Sapevo solo che era tutto sbagliato.
Che le idee non esplodono e non dilaniano.
Ero a Dublino da due anni e avevo appreso dai giornali che le indagini sul fallito attentato erano state accantonate per fatti di sangue più gravi, che due dei miei complici erano stati arrestati. Sentivo l’inferno grattare la terra sotto ai miei passi e, quando avesse scalzato l’ultima zolla, mi avrebbe afferrata con i suoi artigli di fuoco e mi avrebbe trascinata con sé.
La vecchia cellula a cui appartenevo non mi avrebbe lasciata andare e presto, anche una pedina come me, avrebbe potuto essere giocata. 
Certe scelte non prevedono uscite laterali.
Per questo ho bisogno del Professore.

La pioggia ritmica tamburella sul tettuccio della Dyane gialla e io guardo le indicazioni sul foglio, so di non essere lontana. Scorgo un viottolo di campagna, un sentiero d’ingresso. Una luce in lontananza, una casa. Un uomo cammina avanti e indietro con un poncho da pescatore, scrutando intorno. Poi mi vede.
Avevo conosciuto il Professore mentre preparavo la mia tesi di laurea in letteratura inglese. Lui era in Italia per una serie di conferenze.
Era diverso da chiunque altro. Le sue idee anticonvenzionali e il suo attivismo politico lo rendevano un professore molto ammirato dai giovani. Una rarità, di quei tempi. E forse fu questo a renderlo attaccabile, a definire la sua aura di cattivo maestro.
Scendo dall’auto e lui mi viene incontro con un ombrello. Ci abbracciamo goffamente, ci guardiamo, è invecchiato, la sua barba un tempo curata e tenuta corta ora è lunga e bianca. Sono passati solo sei anni ma i miei ricordi mi sembrano appartenere alla vita di qualcun altro.
– Entriamo in casa, vieni.
In cucina c’è profumo forte di caffè.
– Siediti, fatti guardare, – dice.
Mi tende le mani dalla sua parte del tavolo.
– E così, hanno cercato di sporcare anche te.
Ha mani da contadino grandi e calde e io mi sento improvvisamente in pace. Ma nessuno ha cercato di sporcarmi.
– L’ho deciso da sola, in base a premesse distorte e malate.
Il Professore annuisce, nei suoi occhi leggo il mio stesso tormento.
Si alza, prepara due tazze di caffè.
– Nel mio ho messo due dita di whisky, ne vuoi anche tu?
– Sì, per favore.
– Quelli arrestati, facevano parte della tua cellula?
– Sì. Hanno sparato a un giornalista.
– E adesso potresti essere merce di scambio.
– Ma, in definitiva, io ho avuto un ruolo minore, non ho ucciso nessuno e non conosco le menti dell’organizzazione. Che cosa otterrebbero da me?
– In carcere si ragiona diversamente. Potrebbero fare il tuo nome per depistare, guadagnare tempo incolpandoti di altri delitti, forse ottenere un trattamento privilegiato, uno sconto di pena.
– Che cosa devo fare?
Il Professore si alza e va verso la porta che è rimasta tutto il tempo aperta, guarda fuori, osserva il cielo.
– Vieni, Irene, non piove più.
È quasi sera, ma c’è ancora tanta di quella luce sopra alla vallata, ora che il cielo è pulito, che s’indovina il principio del mare in lontananza.
Ci sediamo sulla panchina sotto alla veranda, respiriamo il profumo della terra bagnata.
Il Professore non ha risposto alla mia domanda. È assorto nei suoi pensieri, scruta l’orizzonte. Forse pensa alla vita che ha lasciato, ai suoi studenti, alle città in guerra, alla sua libertà da escluso fra queste terre d’Irlanda, a un piano per salvarmi. Ha ancora alcuni amici dalla sua parte.
– Ecco quello che faremo, – dice, rompendo il silenzio.
Quando conclude, restiamo muti ad attendere la notte in cima a questo giorno che non vuole finire.

Torno a Dublino, tengo le mie lezioni, mangio, fumo, dormo, leggo, cammino, vivo come se il momento non dovesse arrivare mai. Quando ricevo l’invito formale della polizia giudiziaria a fornire informazioni sono quasi sorpresa.
Parto per Roma e appena arrivo mi presento in tribunale.
C’è un pubblico ministero della sezione penale ad attendermi. Due poliziotti rimangono a distanza, dietro di me.
– Vorrei farle qualche domanda, – dice.
– Certo.
– Dove si trovava durante la notte e la mattina del 26 ottobre 1973?
Questo è il nodo.
– In quel periodo mi trovavo sicuramente in Irlanda.
C’è una piccola incrinatura nella sua impassibilità.
– Perché? – chiedo.
– Una persona in carcere ci ha raccontato una storia su di lei.
– Una storia su di me?
– Lei, durante l’ottobre del 1973, non era assistente di letteratura comparata all’Università di Roma?
– No,  l’estate precedente presentai la mia candidatura in un paio di università irlandesi, di cui avevo sentito parlare. Appena ebbi parere positivo da Dublino, mi trasferii lì.  
L’incrinatura sul suo volto si allarga, ma non è un uomo che molli facilmente.
– Lei stipulò un contratto di affitto in quella città il 27 di ottobre, e iniziò a tenere le sue lezioni il 15 di Novembre di quell’anno. È corretto?
– Credo di sì, dovrei controllare.
– L’abbiamo fatto noi.
Ora è molto più rilassato.
Prendi un respiro.
– Però io sono arrivata a Dublino all’inizio di ottobre e ho alloggiato in un albergo, in attesa di trovare una sistemazione più comoda. Potete verificare.
L’incrinatura è riapparsa e si è allargata, adesso sarebbe evidente a chiunque
.
– Allora, le chiedo gentilmente di fornire i documenti al mio ufficio quanto prima.
– Certamente, – rispondo – ora posso andare?
– Ci sarebbe un’ultima cosa, – fa una pausa d’effetto, studiando la mia reazione.
– Mi dica.
– Sarebbe disponibile per un confronto?
Calma, Irene
. È una forzatura, ma l’avete prevista.
– Ma, certo. Quando?
– Ora, se non le dispiace.
– Mi dica cosa devo fare.
– Le spiegherò tutto andando di sotto.
So quello che mi aspetta.
Una decina di donne è in fila davanti a un lungo vetro a specchio.  Un agente mi fa posizionare al centro. Allora tolgo l’elastico e passo le dita fra i capelli, come il Professore mi ha chiesto di fare. Sciolti sembreranno ancora più biondi.
Nello specchio vedo riflessi il mio volto e i volti di quelle donne, così diverse da me.
Dopo alcuni, interminabili minuti mi fanno uscire.
Il pubblico ministero mi aspetta fuori dalla stanza, ha uno sguardo che non mi piace.

Mi hanno riconosciuta.
Invece, dice: – Ora può andare.

Non mi hanno riconosciuta.
– Ho finito? Posso tornare a casa?
– È tutto, – risponde, – vada per la sua strada, e cerchi di non tornare più.

È un uomo forte, sa rinunciare alle sue convinzioni senza sentirsi vinto e le sue parole riescono comunque a suonare come una sentenza.
Recupero la mia borsa e mentre cerco la strada per le scale che prima ho sceso con lui, trovo un ascensore che non avevo visto. La porta sta per chiudersi ma qualcuno da dentro la trattiene e mi fa entrare.
– A che piano? – chiede una voce.
– Pianterreno, – rispondo e quando mi volto davanti a me ci sono il giudice e la bambina. Dunque dietro allo specchio c’erano proprio loro. La bambina è cresciuta, sembra una piccola donna in miniatura, i suoi capelli sono più corti, i suoi occhi mi scrutano seri. Cerco dentro di me la forza di sorriderle, come farebbe una qualsiasi sconosciuta, di dimenticare di averla già vista. Lei mi restituisce un sorriso timido, si stringe al padre. Allora il mio sguardo sale verso di lui ed entrambi rimaniamo a fissarci in silenzio in questa ascesa infinita verso la libertà. Però, a poco a poco i suoi occhi diventano lucidi e tutta la compostezza e la freddezza che mi ero imposta crollano a terra come un fragile castello di carte.
L’ascensore è arrivato al piano e le porte cominciano ad aprirsi, con lo sguardo cerco una via d’uscita nello spiraglio di luce fra le porte di metallo, ma l’apertura è dolorosamente lenta e allora lo affronto, affronto il suo sguardo di uomo salvato, di padre salvato da un orrore troppo grande e mi sento nulla davanti a lui.
Lui si avvicina e mi stringe il braccio, – Grazie, – dice, quasi in un sussurro, poi usciamo fuori nella luce tutta nuova del mondo.


Id: 5484 Data: 07/04/2023 12:14:41

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Dalla parte giusta

 

Dalla parte giusta

 

 

 

Ce l’avevo fatta, s’era trattato di scendere dal palazzo, raggiungere i portici all’ombra come facevo sempre e anziché svoltare per la solita strada, attraversare in fretta la piazza assolata, lì c’erano sempre taxi. Ero salito sul primo della fila e avevo convinto l’uomo a portarmi alla stazione prima che avesse il tempo di guardarmi le scarpe e dirmi che potevo andarci anche a piedi, visto che stava solo a trecento metri. Era un vecchio riflesso condizionato di chi era nato nel paese di frontiera e, anche se non c’era più nessuno che lo valicasse a piedi e da clandestino, lo sguardo talvolta cadeva ancora in basso. Ma il mondo era cambiato, scarpe infangate o rotte non ce n’erano più, e prendere le misure all’altro era sempre più difficile.
In stazione c’è parecchio movimento già di primo mattino, due donne dalle facce scure e lo sguardo livoroso, con quattro bambini al seguito che strillano, sono sulla banchina accanto a me. I bambini sono sporchi e affamati e hanno ancora fra le mani i palloncini mezzo sgonfi del Casinò dove con ogni probabilità le loro mamme si sono giocate fino all’ultimo spicciolo. Di tanto in tanto durante la nottata si saranno date il cambio, una con i bimbi e l’altra a puntare, sognare e perdere ai tavoli da gioco. Sul treno me le ritrovo nel mio scompartimento, perché avendo visualizzato così vividamente le ultime ore della loro avventura non c’è modo di non farle materializzare accanto a me. So che non dovrei farlo eppure ci casco sempre, e più mi concentro sulla sgradevolezza degli esseri umani, più me li ritrovo davanti. Le donne, manco a dirlo, non hanno prenotazione e si siedono qui di proposito, hanno annusato come belve fameliche la preda da aggredire, magari solo a parole, e sputandole addosso il loro astio probabilmente pensano che potranno rifarsi un poco della sfortuna avuta al gioco, della vita grama, dell’ingiustizia del mondo. Percepiscono come sangue di animale morente la mia incapacità di battagliare al loro stesso livello e infatti appena uno dei bambini cerca di prendere la mia valigetta con il MacBook e io faccio per sottrarla una di loro comincia a inveire contro di me. Il controllore che sta passando si affaccia mettendole a tacere di colpo e, appurato che quelli non sono i loro posti, le invita ad alzarsi. Allora, quelle cominciano a inveire contro di lui accusandolo di abuso contro povere mamme indifese con un tono ringhioso che sembra risalire dalle viscere, che deve essere stato allenato per lungo tempo e che, più spesso di quanto si possa pensare, ottiene un risultato, come adesso, perché mi alzo io e recuperando trolley e valigetta dico al controllore che sono disposto a cambiare scompartimento. La mia uscita non gli va a genio, l’uomo mi guarda quasi deluso, si capisce che lui resterebbe qui a battagliare volentieri, perché questo è il suo mestiere e questo è il suo treno e perdio non sarebbero state quelle donne a portare scompiglio nel suo turno odierno, avrebbe dato loro esattamente quello che meritavano, un altro posto, in un altro vagone, meglio ancora su un treno per Marte ché – per quanto il bellicoso e rodato piagnisteo  miri a smuovere il senso di colpa altrui, a ottenere benefici immeritati e a uno sdebitarsi generico da parte di una comunità che, di solito, non ha nessun debito concreto con loro – a lui non smuove un bel niente, tranne  la voglia di staccare una bella multa, pur sapendo che non l’avrebbero pagata mai, ma che  nondimeno sarebbe andata ad aggiungersi alla pila d’insoluti sulla loro credenza.
L’uomo alza gli occhi al cielo poi, sospirando, venga con me, dice. Mi porta molto avanti, in uno scompartimento a uso del personale, prende un thermos argentato da uno scaffaletto e mi versa un caffè forte e dolce. Poi mi chiede perché mi sia arreso così facilmente, e se è stato per un senso di pietà, specificando subito che a quelle donne io non dovevo niente, quelle non compravano da mangiare ai figli pur di andare a giocare al Casinò. Io per un attimo resto interdetto perché non è certo per pietà che mi sono spostato, l’ultima volta che avevo provato pietà era stato in un’era geologica diversa e l’avevo riversata completamente su me stesso, non ne avevo più un briciolo per nessuno, ma soprattutto mi colpisce il suo modo di definire il mio comportamento, che è come un’illuminazione per me, perché è davvero questo che io facevo sempre, arrendermi facilmente. Quattro anni di terapia e nemmeno una volta mi era stata data un’indicazione così chiara, non che lo psicologo parlasse molto, ma si supponeva che di tanto in tanto si rendesse necessario un suo intervento, anche minimo, per riportare il racconto in carreggiata se divagavo inutilmente, o per tirare quantomeno le fila del discorso, trarne un segnale, una piccola, personalissima pietra miliare cui fare riferimento a tempo debito, cavandone almeno una parvenza, per quanto precaria, di punto fermo. Invece, no, mi aveva lasciato cuocere nel mio brodo primordiale di frustrazioni e fobie varie, e forse l’unica vera utilità di quei quattro anni era stata tutta nello spingermi fuori di casa e trascinarmi alla seduta settimanale per parlare di cose che per tanto tempo avevo tenuto segregate dentro di me.
«Non sopporto le grida.» rispondo, ma questa è solo una delle tante cose che non sopporto, un sunto, neanche tanto rappresentativo, perché farei prima a dire che cosa riesco a sopportare, che in definitiva è molto poco. Lui mi guarda  con un’espressione triste, sembra avere la capacità di vedere oltre le parole e all’improvviso mi sento nudo e senza difese, mi assale una commozione che non credevo più di poter provare, e pena per me stesso, per la mia vita asettica e solitaria, per tutto ciò che poteva essere e non era stato e mi viene una gran voglia di piangere, abbandonarmi al destino accada quel che deve accadere, perché controllare tutto non è possibile, è solo un’illusione e oltretutto è inutile se una domanda sola riesce a mettermi k.o.
L’uomo non insiste, mi lascia in pace e riprende il suo giro; il treno attraversa lentamente la città e poi accelera, gettandosi sulle rotaie del lungolago. L’acqua risplende di bagliori increspati nella luce di primo mattino, sopra di me Vetta San Salvatore e sulla sponda opposta il Casinò di Campione d’Italia, un dinosauro di pietra, maestoso e abbandonato. Se fosse stato ancora aperto è lì che quelle donne sarebbero andate a giocare, forse non le avrei incontrate, e io non mi sarei arreso una volta di più. Quando il treno arriva sul ponte che taglia il lago a metà guardo alle due rive fino a che la strada non si mette di mezzo.
Fuori dal finestrino il mondo sembra avere una sua coerenza e io posso ripensare a ieri sera, a quando il mio telefono aveva squillato.

Erano quasi le undici e sullo sfondo verde lampeggiava un numero sconosciuto. Avevo pensato a uno sbaglio, il mio numero privato lo conoscevano giusto tre persone e non avevo voglia di rispondere, avevo aspettato che smettesse ma dopo un attimo aveva ricominciato a squillare, pertanto continuare a ignorarlo m’era risultato più difficile che affrontarlo, e alla fine avevo risposto. Era un avvocato.
Chiamava per dirmi che mio padre era morto pochi istanti prima all’ospedale di Mantova. Che quelle erano le disposizioni, avvertirmi appena tutto fosse finito.
Ero restato muto e in bilico come uno concentrato a mettere un piede davanti all’altro su una corda tesa, ma la cosa non mi apparteneva affatto, lo sapevo bene e non c’era niente da capire, le persone muoiono continuamente: noi tutti, attualmente, stiamo morendo in milioni di modi indefiniti prima della grande prova finale. Eppure, a un livello più profondo, mi apparteneva perché già affioravano ricordi che credevo sepolti, fatti marginali del mio passato che forse non lo erano, né allora né adesso e, anche questo avrei dovuto saperlo bene.
L’avvocato aveva atteso una reazione o una parola che non arrivavano e alla fine mi aveva domandato se fossi ancora lì, se sarei andato al funerale.
Sarei andato certamente, avevo cercato di tagliare corto, avevo bisogno di parlare al più presto con mia sorella anche se lui aveva detto di averla già avvisata. Voleva essere sicuro che entrambi fossimo presenti perché subito dopo il funerale avrebbe aperto il testamento, come era nei desideri di nostro padre.
«A domani, allora», avevo detto, ma senza nessuna partecipazione, era solo una reazione automatica di buona educazione, la mia, solo un modo per chiudere quella conversazione, riacquistare lo spazio minimo sufficiente alla mia personale rielaborazione dell’accaduto. Perché io rielaboravo continuamente, catalogavo etichettavo e riponevo in un virtuale archivio interiore tutto ciò che mi accadeva.
Alcuni fatti predominavano su altri per la loro impetuosità interrompendo il flusso tranquillo della vita, creando punti di rottura, e tutto ciò che era stato fino a un attimo prima non era più. Improvvisamente c’era un prima e un dopo.
Quando avevo 15 anni, un giorno avevo preso la bici e sotto al sole ancora bruciante di settembre avevo attraversato la città fino al Castello e fatto la ciclabile sul Ponte di San Giorgio per raggiungere gli amici al parco. Ci eravamo stesi sulla riva opposta alla rimessa delle barche e, assaporando l’ultimo vero ozio prima del nuovo anno scolastico, guardavamo la motonave portare gli ultimi turisti della stagione sul Lago di Mezzo. Qualcosa nel loro modo di fare attirò la nostra attenzione, poi uno di loro si sporse sulla sponda e ci gridò di tornare a casa.
Prima uno e, poco dopo, un secondo aereo si erano schiantati sulle torri gemelle a New York. Era lo schianto del secondo aereo che aveva cambiato la percezione di sicurezza del mondo, invalidando in pochi istanti la teoria delle probabilità e la scienza della sicurezza nazionale del paese più potente del pianeta. Significava che nessuno era al sicuro in nessun posto, là a New York, lì sul Mincio era lo stesso.
Ricordavo quel giorno come se fosse accaduto pochi istanti prima.


Quando avevo chiuso la telefonata, ero restato con il telefono in mano a fissare la stanza e per la prima volta mi ero accorto del suo ordine maniacale per l’unico oggetto fuori posto in una simmetria altrimenti perfetta, il vino bevuto a metà lasciato sul tavolo.
Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto, mio padre diceva così e me lo ero ricordato solo in quell’istante. Ero sempre stato abbastanza certo che non si riferisse all’ordine degli oggetti, che intendesse altro, ma io non ero mai riuscito a capire davvero. Se avessimo avuto più tempo, in quel tempo, gli avrei chiesto tante cose, tutte quelle che lui avrebbe avuto voglia di dirmi e anche di più. Tanto tempo fa, quando ancora ero suo figlio. Stavo finendo di bere dopo aver messo in ordine la cucina, quando era arrivata la telefonata e adesso avevo di nuovo un prima e un dopo. Mio padre era morto ma non c’era più nessuna ciclabile sul ponte da percorrere al contrario, sotto al sole e alla brezza del lago. Nessuna casa da raggiungere, per mettermi al riparo.

Così avevo tolto il bicchiere dal tavolo e buttato il vino, l’avevo lavato e messo sul ripiano ad asciugare con la stessa sequenza di gesti ordinati e razionali di sempre che però all’improvviso mi si mostravano in tutta la loro ossessività nevrotica, come se ci fosse un altro me appena discosto da me che, guardandomi con occhio severo, mi induceva a considerare il contesto in cui compivo le mie solite azioni. Tanto è vero che guardando la stanza continuava a esserci qualcosa che non andava. La simmetria, l’equilibrio non c’erano più.
Perciò ero andato in camera e avevo iniziato a preparare la valigia, ma il me appena discosto da me era ancora lì e metteva in crisi anche la mia consueta metodicità e, sebbene l’avessi riempita di oggetti che credevo potessero tornarmi utili, un attimo dopo mi ero reso conto che non erano per niente indispensabili, pertanto avevo cominciato a eliminarli, anche se sentivo un vero dispiacere nel separarmene e solo quando il telefono aveva squillato di nuovo mi ero ricordato di mia sorella. Era stato in quel momento che avevo realizzato quanta strada ancora dovevo fare, e chissà se sarebbe finita mai, se anche il mio giudice interiore s’ingannava sulle priorità della vita o quanto meno sulle priorità di un comune essere umano considerato normale.
«Emma, stavo per chiamarti», avevo mentito.
«Hai sentito l’avvocato?»
«Sì, sto preparando la valigia.»
«Io non vengo, Luca.»
«Invece dovresti, ci saranno delle formalità da assolvere, immagino che lui avrà sistemato ogni cosa prima di andarsene.»
«Avrà lasciato tutto a qualche fondazione, vedrai.»
«È probabile, ma almeno la chiuderemo una volta per tutte con lui, vieni con me.»
«Non me ne importa niente, Luca.»
Non era vero. Il niente di cui parlava mia sorella era lo stesso mio, pieno di tante di quelle cose da lasciare spossati, infatti non avevo avuto la forza di puntualizzare.
«Partirò domattina, Emma, se ci ripensi fammi sapere.»
«Certo, e…Luca?»
«Sì.»
«Siamo liberi?»
«Forse.»

Scendo alla stazione di Mantova intorno alle dieci e prendo un taxi per andare dritto all’ospedale ma quando l’auto si lascia il centro alle spalle, cambio idea. All’improvviso non ho più nessuna urgenza di arrivare. Chiedo di fare inversione, prendere per il lungolago dei Gonzaga e risalire verso piazza Arche. Non torno nella mia città da sette anni, da quando è morta nostra madre. Casa sua si trovava nella zona del vecchio ghetto ebraico e l’avevamo venduta subito dopo la sua morte. Ora ci passiamo davanti a un’andatura da centro storico, la facciata è stata tinteggiata di un giallo pallido e le persiane sono diventate celesti. Dopo il divorzio era diventata la sua tomba da viva e noi, devastati quanto lei, l’avevamo seguita camminando in punta di piedi e in penombra, perché la luce le feriva gli occhi e ogni rumore la inquietava. Adesso ho come la sensazione che l’eco delle sue lacrime abbia finalmente smesso di rimbalzare sulle pareti di quelle stanze, che un ordine delle cose più naturale abbia preso il sopravvento.
A poca distanza dal ghetto, lungo vicolo Sotto Riva c’è casa di nostro padre. Non so se ci abitasse ancora, non avevo più voluto avere nessun contatto con lui. Mi viene voglia di rivederla, sia pure da lontano. Chiedo al tassista di aspettarmi, mi incammino rasente ai muri verso vicolo Secondario, evitando l’ingresso principale. La città sonnecchia ancora nelle viuzze strette dove si insinua a malapena qualche raggio di sole estivo. In un attimo sono a Sotto Riva, dietro a Villa Carme. L’acqua scorre con lentezza fra le vecchie abitazioni e ha lo stesso odore dolciastro di un tempo; percorro la passeggiata stretta fra il muro del giardino e il parapetto del fiume fino ai due gradini che innalzano il passaggio spezzandolo nei due tronconi di Sotto e Sopra Riva, poi appoggio le mani sul muro di cinta del mio vecchio giardino. Quando avevo tredici anni e a casa erano cominciate le liti fra i nostri genitori, non rientravo a casa se da quel punto d’osservazione che mi ero scelto non capivo che era tutto tranquillo.
Ora che posso sporgermi senza più nessuna apprensione tutto mi appare stranamente diverso, anche se in effetti nulla è cambiato. Il patio fra le piante, la cura dedicata alle aiuole, il piccolo loggiato ammantato di rose, la scala d’ingresso con un vaso bianco ogni due gradini e il rumore in sottofondo che arriva dalla città, tutto mi si mostra per quello che effettivamente è, un mondo perduto di cui un tempo avevo fatto parte e da cui mi ero escluso, per forza di cose, di scelte, perché la vita chiede continuamente di parteggiare e così avevamo fatto io e mia sorella.
Se abitava ancora qui, chissà quando ne sarà uscito per l’ultima volta, penso, chissà chi avrà salito e sceso le scale con lui in tutti questi anni, perché proprio non riesco a immaginarmelo da solo. Sono domande che non so da dove affiorino, come fili d’erba che ho tentato inutilmente di seccare e che rispuntano con ostinazione e senza ragione fra le pietre sconnesse della mia memoria. Perché anche a me, come a Emma, non importa niente di mio padre.
Poi il telefono mi riporta alla realtà, Emma ci ha ripensato e si trova già all’obitorio. Si è fatta accompagnare da Leonardo, il suo fidanzato, è agitata, teme che io non sia più partito. Allora torno di corsa alla macchina e in pochi minuti arrivo all’ospedale.
Consegnandomi il bagaglio, il tassista mi guarda in modo serio e asciutto, mi porge le sue condoglianze, sembra capire quello che provo almeno cento volte meglio di me e mi sento di nuovo trasparente e vulnerabile come sul treno, come se tutto il mondo riuscisse a vedere senza fatica di più e meglio di me che invece arranco, e incespico ciecamente in una vita che sembra fatta solo di erte e crinali, così difficili da affrontare.
Oppure potrebbe essere solo la mia immaginazione che mi fa vedere cose che non esistono.
Emma è davanti all’ingresso circondata da alcune persone, appena mi vede mi viene incontro e mi abbraccia forte come quando eravamo bambini e veniva a rifugiarsi da me. Da quando era andata a stare a Milano con Leonardo mi ero sentito sollevato. Prima di quel momento vivere insieme non aveva fatto altro che tenerci ancorati al passato. Avevamo la necessità di allontanarci per inventare di nuovo le nostre vite senza essere l’uno il testimone imbarazzato dei tentativi dell’altro. La sentivo al sicuro e questo mi aveva fatto andare avanti con più leggerezza. Mi occupavo di grandi patrimoni per una banca di Lugano. Raramente vedevo i clienti, facevo stime, presagivo scenari, compravo e vendevo pacchetti azionari come se scambiassi caramelle, concentrato più sui tratteggi geometrici delle tabelle finanziarie che su quello che mi accadeva intorno. La previsione era il mio mestiere, la matematica astratta mi rassicurava. I numeri, le formule e persino le ipotesi erano più confortanti del mondo reale. Molti ritenevano il mio un campo minato, subdolo, traditore. Io pensavo le stesse cose della vita vera. La solitudine era il mio elemento, lo spazio sufficiente e necessario per avere il controllo totale sulla mia esistenza e le abitudini mi facevano più compagnia di qualsiasi relazione umana.
Emma mi presenta alle persone che sono con lei, c’è l’avvocato che mi ha chiamato ieri sera, gli dispiace conoscermi in questa circostanza, ma così è la vita, deve sorprenderci sempre, dice. Lo ringrazio mentre gli stringo la mano e mi chiedo che cosa pensi di me e mia sorella, quanto effettivamente sappia di noi. Poi si fa di lato per presentarmi a una donna piuttosto avanti con gli anni che fino a quel momento è restata in disparte a guardarmi. La donna ha bellissimi occhi scuri vagamente familiari, i capelli grigi tagliati in un caschetto corto, mi prende la mano fra le sue e la trattiene per qualche istante: «Sono Miryam», dice, «ero la compagna di tuo padre».
I suoi occhi sono sottolineati da occhiaie profonde. Emma aggiunge: «Miryam è anche la madre di Leonardo». C’è dolcezza nella sua voce.
«Leonardo, il tuo…»
«Sì.» risponde Emma in un soffio.
Non ci capisco più niente, il mondo ha davvero deciso di andare avanti senza di me oppure sono stato io a voler restare indietro senza preoccuparmi delle conseguenze. Le guardo in silenzio, loro due davanti a me eppure così distanti. La mia mente avanza per non sequitur, mi tornano in mente vecchi ingrandimenti di foto scattate da mio padre, particolari di occhi che tappezzavano le pareti del suo studio. Mi sembra di cogliere significati superficiali, di non riuscire ad afferrare le implicazioni dell’insieme.
«Forse dovrei entrare, adesso.» dico.
Emma mi guida all’interno della stanza, ci sono persone che chiacchierano a piccoli gruppi, appena entriamo abbassano le voci a un bisbiglio, qualcuno china il capo in segno di saluto, fra loro c’è anche il direttore della banca per cui lavoro al quale non avevo affatto spiegato il motivo della mia partenza.
E nostro padre è lì, in una bara di legno scuro coperta soltanto da un velo impalpabile. Le sue mani hanno dita esageratamente lunghe che sembrano di cera. Il suo viso, ancora di una bellezza struggente, è scarno e affilato, i lunghi capelli neri sono raccolti sulla nuca e sembra sereno come un uomo che stia solo sognando. Né kippah né croci per lui, nessun Dio, nessuna fede a fargli strada nel suo ultimo viaggio. Se potesse ancora parlare di sicuro direbbe che non ha alcun senso parlare di ultimo viaggio, i morti non viaggiano, Luca, i morti finiscono e basta.
Tuttavia c’è qualcosa di sacro in lui e faccio fatica a ricordarlo nei momenti di dissidio con nostra madre. Lei folle di gelosia per quest’uomo al punto da non sopportare di vivere con lui né senza di lui, al punto da non sopportare la vita stessa e di farla finita gettandosi dal terzo piano.
«Era malato?» chiedo piano a Emma.
«Sì, ma per fortuna è stata una cosa veloce.»
Mi volto a guardarla per capire se ho di fronte la stessa persona che ieri sera mi parlava al telefono, ma lei insiste: «Sì, ci sono tante cose che non sai di nostro padre. Ci siamo sbagliati, Luca, abbiamo sbagliato con lui», mentre parla le sue guance sono rigate di lacrime.
«Nostra madre è morta a causa sua», trattengo a fatica la rabbia.
«Non è così!» dice Emma che si è ricomposta e il suo tono non ammette repliche. Almeno per il momento, perché dovrà spiegarmi dettagliatamente come abbia fatto a cambiare opinione su nostro padre nell’arco di una notte. Sono sbalordito e arrabbiato, mi sento tradito nel mio ultimo baluardo di conforto, non ho più nessuno al mondo che possa capire quello che provo, che possa giustificare quello che sono.
«Che cosa sai che io non so, che cosa ti ha detto Leonardo?»
«So tutto, ne parleremo più tardi a casa nostra.»
«Casa nostra?»
«A Villa Carme, casa di tutti noi, capisci?»

Leonardo torna verso l’una, ha già sbrigato le formalità per la cremazione. Mi viene incontro e mi abbraccia con il calore e la naturalezza delle persone a posto con il mondo, che non conoscono le torture di una mente in guerra con se stessa.
«Ora vai a casa con mamma, Luca. Restiamo io ed Emma qui, vai.»
«Magari più tardi», dico, «ora avrei bisogno di parlare con Emma».
«No, è con mia madre che devi parlare, ora. Vai», ripete.
Allora, esco dall’obitorio nella luce accecante del giorno, Myriam mi aspetta con la macchina in moto. Per strada non cerca di riempire il silenzio in nessun modo e io osservo i colori della città estiva, gli alberi ombrosi di via Pompilio, la leggera foschia che si alza dal fiume in lontananza. Ho un milione di domande dentro e non so decidermi a farne neanche una, guardo il suo profilo, il dolore che s’indovina appena sotto la superficie. Lei si volta e mi sorride.
«A quest’ora i parcheggi vicino a casa saranno tutti pieni, ci dovremo accontentare di lasciare l’auto in piazza, fare qualche passo a piedi.»
«Per me va bene, Myriam.»
«Gli spazi vuoti non ti fanno più paura», è una constatazione, la sua.
«E tu che cosa ne sai delle mie paure?»
Ma lei non risponde, resta in un silenzio che è una specie di pausa, un tempo sospeso e immobile come quello di un calciatore che si prepari a tirare un calcio di rigore, o di un esercito pronto all’ordine di attacco. Mentre io sono disarmato, in attesa.
Ma nessuno qui vuole attaccarmi, nessuno vuole farmi del male, lo capisco con il mio abituale ritardo.
«Leonardo vi teneva aggiornati su di noi.»
«Aveva il compito di proteggervi.»
«Non era a Lugano per caso?»
«Neanche voi eravate a Lugano per caso.»
«Vuoi dire che mio padre ha pilotato tutto? Anche il mio lavoro?»
«Tuo padre sapeva che stavi cercando un modo per andartene da Mantova insieme a Emma, ha solo cercato di farvi stare in un posto sicuro, tutto il resto è opera tua, delle tue capacità.
«E fra Leonardo ed Emma, è una farsa?»
«Ma come puoi pensare una cosa del genere? Leonardo avrebbe dovuto essere invisibile, non doveva accadere che si conoscessero, ma è successo. Allora Leonardo avrebbe voluto raccontarvi tutto, ma tuo padre non gliel’ha permesso. È per questo che ha voluto trasferirsi a Milano con Emma, allontanarsi da te, lasciarti veramente libero.»
«Ma non lo ero, giusto? Era una libertà vigilata, per così dire.»
«Preferisco pensare che fosse una libertà protetta. Vostro padre vi amava e sapeva bene che davate a lui la colpa per la morte di vostra madre, sapeva anche che il vostro odio forse vi avrebbe risparmiato un dolore più grande.»
«Ma è così che doveva andare, no? Noi dovevamo scegliere da che parte stare.»
«Perché?»
«Perché abbiamo scelto nostra madre?»
«Perché avete dovuto scegliere?»
«Per stare dalla parte giusta.» Si tratta di questo, in fondo, solo di questo e mentre lo dico so per certo che la mia vita è cambiata in quel preciso momento, travolgendo la vita di tutti e cambiando il nostro destino. E mentre abitavamo con nostra madre, contagiati dalla sua depressione, non vedevo altra alternativa per noi che stare insieme a lei, soffrire con lei. Nostro padre continuava a chiamarci, invitarci a stare da lui almeno per un paio di giorni a settimana, voleva che respirassimo un’altra aria, voleva portare nostra madre da un medico, voleva che provasse a curare la sua malattia, ma lei si rifiutava di credere di essere malata, lei era solo distrutta per ciò che era accaduto. 
«Ma non esisteva una parte giusta», dice Miryam, e la sua voce è poco più che un sussurro poi, con più fermezza: «Ognuno aveva le sue ragioni che non avevano niente a che fare con voi, certo era difficile da capire mentre eravate così giovani, ma poi? Con il tempo, crescendo, perché non avete mai voluto sapere?»
Gli alberi lungo la strada proiettano ombre e luci veloci fra le fronde e spezzettano i miei pensieri in milioni di fotogrammi.
«Poi abbiamo fatto l’abitudine a odiare», rispondo e comincio a vedere chiaramente che errore era stato, che errori madornali avevamo commesso, tutti quanti. Mi sentivo truffato e vuoto, come aver scommesso contro la mia possibilità di essere felice e aver vinto, perdendola per sempre; come se nulla di quanto avessi fatto, il poco o il molto nella mia vita, avesse più alcun valore. Ma allo stesso tempo sentivo di essere stato amato, e forse le azioni erano state scorrette e sbagliate ma intuivo che le intenzioni non avevano mai smesso di essere buone, che l’amore sa trovare milioni di logiche diverse per manifestarsi.
E forse cominciavo a capire che cosa fosse quel dolore più grande di cui parlava mio padre, era quella necessità improvvisa e impellente di rimediare a tutto il male, annientarlo e ricominciare da zero cercando di essere una persona migliore, concedermi finalmente la possibilità di amare e avere coscienza, nello stesso momento, che non c’era più nessun modo al mondo di tornare indietro.


Id: 5470 Data: 28/01/2023 22:44:50

*

La futile arte della dimenticanza

La futile arte della dimenticanza



C’era questo balcone all’angolo nord-ovest della piazza, una sobria appendice anonima di Palazzo Sforza-Cesarini. Era nero e striminzito, in un ferro battuto dell’epoca; ci ero passata sotto migliaia di volte senza vederlo fino a quando, un giorno, avevo deciso di leggere Una donna[1] di Sibilla Aleramo.
Avevo scoperto anni prima, per puro caso e con offeso sconcerto, che la scrittrice era vissuta nella mia città. Che nella mia città si erano consumati i fatti più dolorosi della sua esistenza; fatti che avevano compiuto la metamorfosi da Rina in Sibilla. 
Ero offesa e sconcertata perché non potevo dimenticare l’interminabile noia di certe letture, tributo necessario e passivo per conservare il diritto di sedere sui banchi del ginnasio e guadagnarmi l’occupazione di quelli del liceo, dove sarebbero arrivati i grandi romanzi, il romanticismo, gli scrittori più amati d’Europa e nessuno mai, neanche una volta, aveva nominato Sibilla Aleramo. Perché?
La mia non era una città che vantasse decine di nobili natali e di artisti illustri, tanto da potersi permettere di dimenticarne qualcuno. Che cosa mai aveva fatto, lei, per essere ripagata con una tale invisibilità?  

Da questo balcone di Palazzo Sforza-Cesarini sul finire dell’estate del 1890 sua madre tentò il suicidio, salvandosi per miracolo.

E sebbene agli occhi degli estranei sarà giustificato come un incidente, l’episodio decreterà la conclamata malattia della donna, che finirà i suoi giorni in manicomio, e segnerà in modo feroce e indelebile l’adolescenza della futura scrittrice.
La cittàduzza di Mezzogiorno[2]  in cui ero giovane io non s’era ancora trasformata in una vera città eppure, durante gli ottant’anni passati, era stata tanto abile quanto la più consumata delle società nell’avvalersi, per annientare, non dell’aperto disprezzo bensì dell’arte di ignorare; agendo con una dimenticanza scientifica fino a far dubitare che Sibilla fosse mai veramente esistita.
L’avevo fatto anch’io, seppure per altre ragioni, rinviando l’incontro con la sua opera per letture ai miei sensi più urgenti. Una donna poteva aspettare.
Non potevo immaginare che aprendo quel libro sarei stata vittima di un sortilegio che, una volta stuzzicato, avrebbe fatto tornare in superficie in modo più prepotente ciò che era stato oscurato. Leggevo il suo romanzo e cercavo i luoghi in cui lei aveva vissuto. Scoprii cose che non conoscevo; la fabbrica abbandonata di bottiglie, primo esperimento di industrializzazione del luogo, dove suo padre era stato direttore. La stessa via della bottiglieria, nascosta alle strade principali e quasi dimenticata, era quella dove avevo vissuto con la mia famiglia, da bambina. E la villa protetta da un piccolo bosco di querce che vedevo dal mio terrazzino – dove avevo legato la mucca gonfiabile Carolina vinta con i punti della Invernizzi – era quella che, pur dopo svariati rifacimenti, suo padre aveva fatto costruire per sé e la sua famiglia. Anche Rina, non ancora Sibilla, ci aveva vissuto con il marito, dopo un breve esperimento romano. Quella villa, infine, era il luogo da cui era scappata per sempre, lasciando dietro di sé anche l’adorato figlio – le leggi dell’epoca impedivano che fosse affidato alla madre – e infliggendosi quella ferita che, mai cicatrizzata, avrebbe condizionato tutta la sua vita personale e artistica.
A ogni pagina scoprivo la mia città attraverso gli occhi di lei. Il ritratto spietato dei luoghi e dei protagonisti e della sua sofferenza di anima altra erano diventati la mia ossessione.
E riuscivo a comprendere, credo – ma non a giustificare – il motivo della sua messa al bando. La mia città era stata insultata dalle sue parole più di quanto lo fosse stata dalla sua condotta scandalosa. Il carattere e i modi degli abitanti erano stati da lei descritti con una tale tagliente precisione che era impossibile non riconoscere una parte di noi stessi e non sentirsi messi a nudo e oltraggiati.
Ma con le sue pagine, in realtà, Sibilla Aleramo ci aveva donato uno dei primi romanzi femministi del ‘900 portando allo scoperto, attraverso la propria storia, la condizione della donna, succube di mariti-padroni e di una legislazione svilente che le negava qualsiasi diritto civile.
Mi addormentavo con il suo libro in mano e sognavo le sue stesse parole che scorrevano dietro ai miei occhi chiusi come i titoli di coda di un film. Ma all’improvviso diventavano parole diverse; il suo racconto si trasformava impercettibilmente nel mio, o meglio, in quello del sogno che stavo facendo.
Era come se avessi spinto sulle pareti d’un tratto liquide del presente per scivolare nel suo passato e modificarlo, attraverso una sensibilità che non sapevo dove mi avrebbe portata.
Nel sogno era lei, ma ero anche io. E in definitiva era anche un’altra, una specie di risultato spirituale di noi due. Vedevo l’ufficio della bottiglieria e io – lei – giovane e moderna per i tempi, tenevo la contabilità. Il ragioniere ambizioso con cui dividevo la stanza, approfittando del fatto che fossimo soli, un giorno mi aveva spinta sul tavolo.
Poi scappò.

Rimasi immobile per qualche istante, ancora incredula e sopraffatta da un sentimento sconosciuto di mortificazione, nei confronti di quanto accaduto e di me stessa. Sentivo in modo confuso che la mia dignità e la mia fierezza, in un attimo, non mi appartenevano più.  Poi udii dei rumori nell’ufficio. Mi scossi.

La porta che era stata sbattuta su di me si riaprì piano. Era mio padre. Si immobilizzò nel vedermi mentre mi sistemavo le vesti nel silenzio scandito dalle lancette dell’orologio a muro sopra alle scrivanie. Infine parlò: “Chi?”

Era il febbraio del 1892 e avevo quindici anni e mezzo.

Ebbi paura per ciò che sarebbe potuto accadere nel momento in cui avessi pronunciato quel nome; paura per me stessa e anche per l’uomo che con la sua corte, dopo il tentato suicidio di mia madre, mi aveva aiutata a ritrovare un poco il mio sorriso. Da quando mio padre aveva assunto la direzione della bottiglieria in questa piccola cittadina di mare, era diventato un altro: severo e implacabile in fabbrica, con gli operai e a casa, con noi. Che tradiva la mamma, era stato il mio stesso violento corteggiatore a dirmelo. Forse stava cercando di attirarmi a sé, di annientare la stima che tuttavia ancora provavo per lui.

Forse aveva mire più ambigue di quelle di un qualunque innamorato, ma io ero troppo inesperta per immaginare le sue aspirazioni segrete.

Pensai invece che quell’uomo avesse cercato la via più facile, compromettermi, per sposarmi contro la temuta mancanza di consenso da parte di mio padre. E non sbagliava.
Mio padre sognava per me un’emancipazione e una libertà di pensiero che un eventuale matrimonio avrebbe solo dovuto esaltare. La cura dell’intelletto, il progettare grandi cose, e l’unione con l’altro – necessariamente subordinata all’incontro con uno spirito affine – erano gli insegnamenti di lui.

Invece in quei momenti stavo già considerando l’idea di sposare quell’uomo. Perché ormai, che alternative potevano esserci per me? Forse avrei trovato una quieta felicità nell’essere moglie, avere dei figli, essere una donna come tante altre.
Ma io non ero come le altre!

Tanti pensieri mi si affacciavano insieme, e in modo sconnesso, mentre mi sentivo pronunciare il suo nome.

Ma accadde qualcosa di inaspettato. Quel padre che si era allontanato da me e da tutta la famiglia con fredda indifferenza, si avvicinò e mi abbracciò. Parlò con una tenerezza che avevo dimenticato: “In un mondo di ignoranza e costumi primitivi, quello che è successo indica che ora niente sarà più come prima per te. Che un danno è stato compiuto. Che la riparazione è una sola. Guardami!”
Lo guardai.
“Ma appartieni a questo mondo, tu? Credi che possa essere una riparazione sposarsi con chi ti ha usato violenza? Che trovarti faccia a faccia ogni giorno con questo uomo possa essere una riparazione? O non sarebbe forse l’incubo peggiore della tua intera esistenza? Con queste premesse chi potrebbe sperare in qualche cosa di buono?”

Guardavo mio padre come in una trance ipnotica. Ogni sua parola colpiva direttamente il centro del mio essere e dipingeva davanti a me uno scenario realistico e tragico.

“No”, risposi infine. “Niente di tutto questo potrebbe essere una riparazione.”


Ora il ricordo di quei momenti sbiadisce i suoi contorni davanti a questo mare. La sua superficie brilla ai raggi del sole di mezzogiorno, increspata da impercettibili onde.
Non viviamo più in quella città.
Sono su una piccola spiaggia, è estate e presto avrò diciotto anni. A settembre frequenterò l’università di lettere, a Roma.

Mio padre fra poco chiuderà il suo ufficio alla colonia penale sulla vicina isola di fronte.
Oggi pranzeremo tutti insieme.

Mia madre, le mie sorelle e mio fratello sono a casa, la nostra casa sulla scogliera.

Io sto ad aspettarlo su questa piccola striscia di arenile, appena separata dal porticciolo da un basso promontorio di roccia calcarea.

È quasi deserto. Solo un piccolo capanno di bambù e paglia si erge verso la fine del litorale e alcune donne vestite di scuro, immerse nell’acqua fino al ginocchio, camminano avanti e indietro, chiacchierando. I loro bambini, in camiciola bianca, riempiono secchielli di sabbia, forse alle prese con la costruzione di un castello. Appena arrivata, per un attimo le donne mi hanno osservata, poi non hanno più fatto caso a me. Accovacciata sulla battigia, contemplo il verde abbagliante; al limite dell’orizzonte si scorge una grande nave.

È un mare affatto diverso da quello che conoscevo. Più morbido. Abituata a nuotare nelle acque selvagge di quella piccola città dove tutto accadde, e al senso di sfida che provavo nell’andare al largo, qui invece ho la netta sensazione che non vi sia nessuna sfida da vincere; nessun dubbio sul mio ritorno, salva, alla riva.
Qui il mare è vita, è cura. È casa.

E pure se la colonia penale, che si staglia contro la gioiosa azzurrità del cielo, è ben indovinabile con le sue massicce pareti a strapiombo e il suo inevitabile carico di umanità angustiata, la bellezza iridescente di questo luogo non ne è scalfita in alcun modo.

Indosso un abito di lino leggero che mi ha suggerito mia madre. Sorridendo lei mi ha detto: “Lo so che farai il bagno, mentre aspetti il papà. Metti qualcosa di pratico!”
L’ho guardata, sopraffatta da un sentimento d’amore che quasi mi spezzava il cuore. Non c’era più nulla di tragico in lei. La malattia odiata, di cui tutti avevamo paura, non s’era più manifestata. Qui mia madre aveva ritrovato la serenità. E mio padre, a contatto con quella moltitudine tormentata, aveva ritrovato i suoi ideali e soprattutto la sua umanità più bella.

Sfilo il vestito dalla testa e rimango in sottoveste. Slaccio i sandali, mi alzo e finalmente entro in acqua. Il mare è basso e caldo e comincio ad avanzare fino a quando non mi arriva alla vita, prendo un profondo respiro e mi immergo.

Nuoto con gli occhi ben aperti. Emergo quel che basta a riprendere fiato. Torno sotto, voglio vedere la meraviglia dei piccoli pesci che a banchi danzanti passano intorno al mio corpo. Nuoto fino alla fine della baia, dove è più profondo, eppure trasparente, e riesco a vedere il fondale appena roccioso. Il silenzio ovattato e la luce filtrata attraverso la superficie mi avvolgono con affettuosa complicità.  Riemergo e rotolo su me stessa, guardo verso la spiaggia. Le signore vestite di scuro, forse con un filo di sgomento, stanno osservando nella mia direzione. Nel punto in cui ho lasciato i miei vestiti vedo mio padre, la sua figura alta ed elegante. Con una mano si ripara gli occhi, mi guarda. Alza un braccio in segno di saluto e io faccio lo stesso. Le donne ora osservano lui.
Mi avvicino velocemente alla riva ed esco dall’acqua.
All’improvviso, so con certezza di essere felice. È una sensazione tattile, concreta.
Il babbo mi scompiglia i capelli e mi bacia sulla fronte, attento a non bagnarsi il bel vestito.

“Sei diventata davvero brava, Rina. Ma sei andata troppo lontano. Chi ti avrebbe salvata se ti fossi trovata in difficoltà? Quelle signore laggiù non mi sembrano capaci di nuotare.”

“Mi sarei salvata da sola, babbo.”

“La mia Rina! Sei diventata davvero coraggiosa.”

“Me l’hai insegnato tu!”

Lui sorride, orgoglioso.

“Ora rivestiti, siamo attesi.”

“Babbo”, gli chiedo, mentre ci incamminiamo sulla ripida salita che porta al paese, “forse c’è sempre un’alternativa e si può guarire?”

“Non sempre si può guarire, figlia mia. Non sempre esiste un’alternativa. A volte non basta neanche il coraggio.”

Il tono pensieroso e grave delle sue parole mi induce a smettere di camminare. E mentre osservo la sua figura di spalle che, ignara, prosegue senza di me, mi rivedo in quella stanza in cui una violenza di pochi attimi pretendeva di cambiare il corso di tutta la mia vita.
Ma non ce l’aveva fatta.
Sospiro forte di sollievo. Mi sento così leggera che potrei volare. Basterebbe una piccola rincorsa sulla strada e potrei sollevarmi, planare al di sopra degli alberi, e di questo mare. E di questa isola e del mondo intero. Libera, senza passato né condizioni.
Mi rigiro nel letto nello slancio che presto mi solleverà.

All’improvviso mi sveglio.

 

  



[1] S. ALERAMO, 1921. Una donna. Terza Edizione. Firenze: R. Bemporad & figlio.

 

[2] Ibidem, pag. 21

 


Id: 5158 Data: 01/07/2021 16:01:17

*

Un anarchico sentimentale

Da un po' di tempo ti eri ammosciato. Niente più albe per Frank; non dopo che il tuo miglior amico se n'era improvvisamente andato in Uruguay per cercare di riordinare le idee, rilassarsi e Dio sa cos'altro. Le tue serate non furono più le stesse e, se per questo, neanche i tuoi giorni. Niente più bagordi, per te. Il divertimento nella sua essenza più pura era morto. Lo seppellisti sotto quintali di nostalgia e ti fidanzasti con Veronica. Sapevi fin dal principio che la cosa non avrebbe potuto durare. Lei era una donna di quelle che, invece di polemizzare per ogni tua contraddizione, ti guardava con un sorriso dolce. Ma potevi indovinare dal suo sguardo che nulla di quello che avevi detto era andato perso. Veronica non polemizzava, no: lei catalogava e archiviava. Poi un bel giorno se ne usciva con una domanda casuale ma precisa e tu sapevi di essere in trappola. In fondo l'unico, irrisolvibile problema era che Veronica era veramente innamorata di te. Provava quell'amore di fronte al quale non ci si può non sentire, in qualche misura, in colpa. E tu colpevole lo eri e fino al midollo. Perché tu un amore così non l'hai provato mai, né per lei né per nessuno al mondo; non in questo modo, non in questi termini. Così, mentre il tempo passava, dentro sentivi sempre più forte il richiamo del mondo, il "là fuori" che grattava via via più insistentemente sulla porta, finché a un bel momento il “là fuori” aveva strisciato fin dentro al buco della serratura ed era scivolato giù di sottecchi, aveva raggiunto in silenzio la tua pantofola blu e vischiosamente s'era arrampicato sulla tua coscia di maschio volitivo; in modo subdolo si era impossessato del tuo pollice che, con movimento felino e compulsivo, si era messo a scorrere le notifiche sullo smartphone. Sono o non sono gli anni dei social? Puoi anche restartene in apparenza tranquillo e beato accanto alla tua donna che si fa le unghie davanti alla TV e smanettare con indifferenza sul cellulare, consultando le notizie del giorno, il meteo, l'aggiornamento di stato di un tuo amico lontano...
In realtà stai curiosando sul profilo della sconosciuta che ti ha inviato una richiesta d'amicizia, chissà chi è? Si chiama Siria@117, tu non l'hai mai vista e non ha nessun amico in comune con te. La cosa ineluttabilmente t'incuriosisce, accarezza la tua vanità, esalta il tuo egocentrismo di maschio che sa di saperci fare, non esulando in certo qual modo dal giustificare e sdoganare una punta molto appuntita del tuo narcisismo congenito, atavico, duro a morire. Lei chi è? Ha un viso di una bellezza meravigliosa, sempre ammesso che la foto sia sua. Il suo profilo è disseminato di post ammiccanti e provocatoriamente sensuali. Sei tentato di accettare la sua richiesta, ma di sicuro Veronica se ne accorgerebbe, comincerebbe a fare domande sospettando chissà che cosa, quando in fondo non è successo proprio nulla.
Ancora.
Dunque cominci quel gioco di avanscoperta senza dare nell'occhio. Sprofondi nel divano dal lato opposto alla tua donna beatamente ignara e allo stesso tempo allunghi un piede e lo insinui sotto alle sue gambe. Così, con aria fintamente annoiata, cominci a esplorare il profilo di costei che è emersa dal nulla come una Venere dalla sua conchiglia. La Venere ha tantissimi amici, centinaia di seguaci. Riesci a vedere alcuni post che la tipa ha pubblicato. Sono immagini ammiccanti in lingerie, alcune sono molto provocanti e in modo provocante costei le ha commentate. Sono decine i commenti scatenati di uomini e donne che hanno raccolto l'invito. D'acchito non sai cosa fare, poi Veronica scansa infastidita il tuo piede – reazione che era nelle tue meschine intenzioni fin dall'inizio – e, istantaneamente libero, ti autoassolvi in anticipo su ogni possibile evoluzione della faccenda, decidendoti a contattare la sconosciuta via chat. Le scrivi usando tutta la cautela possibile, cosciente del fatto che costei potrebbe e, al tempo stesso, potrebbenon essere la stra-figa mondiale che appare. Lei ti risponde senza fretta, probabilmente impegnata in più di una conversazione; resta sull'impersonale, ringrazia per i tuoi complimenti, ma non più di tanto. Avvezza, dev'essere, a riceverne. Non sai che inventarti per attirare un po' di più la sua attenzione. Le domandi come mai ti abbia inviato una richiesta d'amicizia, come abbia fatto ad arrivare fino a te, e lei ha una scusa più che plausibile: ha visto la tua foto sulla pagina on line di un notiziario locale, mentre posi tutto soddisfatto con la tua cernia da 24 kg, ancora agganciata all'amo. Si è incuriosita, ecco tutto. Detesti ammetterlo ma ti si sta già un po' ammosciando; ti aspettavi qualcosa di più personale e, volendo stare strettamente ai suoi post, senz'altro qualcosa di più spinto. Siria@117 se ne esce dalla chat di continuo, ha altro per la testa, ti molla e ti riprende senza grande interesse. La cosa comincia a farti girare i coglioni: ti ha o no chiesto l'amicizia? Che cosa fa adesso, ti pianta così? Chiedere l'amicizia è una cosa seria, sottintende un interesse, promette una conoscenza. È questo che fai tu ogni volta che chiedi l'amicizia a qualcuna, no? No.
In verità, la maggior parte delle volte non te ne importa proprio niente delle donne con le quali cerchi di entrare in contatto. Stai solo foraggiando un pezzetto di mare. Più tardi passerai con la tua rete a strascico, sperando che qualcuna sia rimasta impigliata; districherai la rete quel tanto che basta a capire se è scopabile e poi la rigetterai in mare a fine uso. Almeno, questo succedeva prima di Veronica. Ora non ne sei più tanto sicuro. Ora che sei dall'altra parte, attribuisci alla richiesta un significato più pregnante; altrimenti dovresti ammettere con te stesso l'eventualità che il soggetto in questione potrebbe aver adottato il tuo stesso modus operandi. Cazzo! E se fosse un uomo? Ne hai sentite a decine di storie simili su truffe di ogni genere. Ma questo non succederà a te! L'unico modo è farla uscire allo scoperto così, senza starci tanto a pensare, la inviti al tuo club per la sera successiva; dici che ci sarà una festa, molto da bere, musica da ballare, bla bla bla.
È più che confermato che Siria@117 deve essere molto richiesta, infatti risponde dopo più di 20 minuti e in modo fastidiosamente sufficiente: "Che cosa ti fa credere che io abbia voglia di uscire con te?" "Vedere il soggetto della foto dal vivo?", chiedi. "Ti dirò”, fa lei, "ho visto quella foto, m'è piaciuta ed è finita lì; non sarai mica uno di quelli che per una richiesta di amicizia la fa tanto lunga e ne approfitta subito per provarci?" Ecco, da uno a dieci, se tu dovessi dare un punteggio a ciò che trovi più irritante in una donna, la sua risposta farebbe l'en plein al ribasso. In un attimo il tuo ego si è gonfiato a dismisura e sta facendo a cazzotti per uscirsene fuori con una delle sue memorabili battute. Ma attenzione però, ego a parte, ti funziona ancora qualche neurone dotato di potere razionale, che ti spinge a considerare il fatto che costei potrebbe davvero essere una stra-figa mondiale. E bruceresti un'occasione così solo per un po' di orgoglio ferito? Puoi ancora darti da fare con le parole, sei bravo e lo sai. Così, seppellito il piano A, passi di netto a quello B e rilanci: "Guarda che ti ho solo invitata a uscire per conoscerti, non mi sembra così strano". E lei: "E secondo te io uscirei con uno che non ho mai visto, eccetto che in una stupida foto, per andare al club vattelapesca, scroccare qualche drink e farmi sbattere in macchina?". È il colmo, la tipa ha davvero deciso di farti incazzare. Si fotta il piano B e la remota eventualità che la tipa sia la stratosferica ecc.
Esplodi con un: "Senti, per me potete andarvene tranquillamente a farvi fottere tu e la tua convinzione di essere chissà chi. Pensi davvero di essere così preziosa?". La preziosa non si fa attendere stavolta "Ma complimenti per l'eleganza! Ora mi mandi a farmi fottere, ma un attimo fa mi invitavi buttandola là, come tanto per fare qualcosa; avrei dovuto essertene infinitamente grata? O posso rispondere semplicemente come la penso?”. È una senza peli sulla lingua, senza dubbio, e quindi puoi essere sincero pure tu: "Chiaro che vorrei provarci con te. D'altra parte dalle foto che pubblichi non mi sembri una che la tiene sotto sale”. Lo scambio diventa concitato. “Ti dirò, anch'io ho guardato le tue foto e non sembri davvero il conquistatore per il quale vuoi farti passare. Hai anche una certa età, o sbaglio? E anche un principio di pancetta niente male. E che dire del tuo tono? Ti proporrò per il premio zotico dell'anno, contento? Mi sembri soltanto uno che non la vede da un pezzo! Ciao e sogni d'oro e mi raccomando: non tirar tardi sulle chat erotiche, ti hanno fuso il cervello!”. È il colmo, in un colpo solo costei t'ha dato del vecchio, del panzuto e del segaiolo. A te! Andresti su tutte le furie se soltanto fossi solo. Così, ti contieni, la mandi mentalmente a cagare, e chiudi la parentesi. Ma questo non diminuisce per nulla il tuo malumore. E non puoi sfogarti in altro modo che ripensando all'improvviso a Camille. Ah, Camille! Chissà cosa starà facendo adesso. Provi subito a mandarle un messaggio, tanto per vedere se è sveglia. Lei c'è sempre per te. Quando non riuscite a vedervi, fate spesso del sesso telefonico. Certo ti sentiresti più tranquillo se Veronica se ne andasse a letto. Cominceresti a provocare Camille e lasceresti che lei provocasse te. Camille è fantastica. Non hai mai conosciuto una che sapesse usare le parole così bene. E le sue fantasie, mio Dio, come sanno coinvolgerti. Decisamente è una donna fuori dal comune. Ma Camille stasera non risponde, probabilmente già dorme. Te la immagini nel suo grande letto bianco, lo stesso letto in cui da anni fai del sesso meraviglioso con lei. Lei non ti avrebbe mai dato del vecchio, questo è certo. Camille è l'amante ideale, ma guai a dirglielo! Quella stronza di Facebook, Siria@117suole, ti ha rovinato la serata. Dev'essere una matta, pensi, ma non sai spiegarti come lei stia in qualche modo eccitandoti con questo suo piglio di donna che sembra sapere esattamente chi è e quanto vale. Sai che dovresti mollare lì ma non ci riesci e con un colpo da maestro attacchi su un tono completamente diverso. C'è o non c'è ancora e, più forte di prima, l'auspicabile probabilità che la femmina in questione sia davvero chi dice di essere? E scrivi, “va bene, probabilmente hai la tua parte di ragione. Sono stato poco gentile, frettoloso, maldestro. Ti prego di accettare le mie scuse. Le tue foto mi hanno spinto in una direzione sbagliata, lo ammetto. Sei così bella e eccitante e all'apparenza così disponibile che ho dimenticato all'improvviso le buone maniere che, ti assicuro, mi contraddistinguono. Ricominciamo da capo, vuoi?” E mentre aspetti la sua risposta, ti accorgi che sei stato talmente preso dal battibecco con la sconosciuta che non ti sei accorto neanche che Veronica se n'è andata a letto. La risposta della stratosferica non arriva. Al diavolo, pensi. Più in là di così non puoi andare. Decidi di chiuderla con i social, per stasera, e te ne vai a letto anche tu. Trovi la tua donna addormentata sul fianco, il suo viso dall'espressione serena ti sembra quello dell'innocenza. È bello e quasi scultoreo il suo corpo sotto al lenzuolo. Ti spogli e ti infili nel letto in mutande sentendoti vagamente un imbecille per essere stato a perder tempo con una stronza virtuale mentre questa, viva vegeta e carnale, era a portata di mano. Probabilmente quando si è alzata dal divano per andare a dormire ti ha augurato la buonanotte. Di sicuro tu non l'hai sentita. Eri troppo incazzato e preso dal gioco. Ti infili a letto, ti avvicini a lei e senti già il calore della sua pelle; la osservi nella sottile luce che emana dalla finestra, il suo viso ha un'espressione di intenso abbandono e ti sfiora per un secondo l'eventualità che dietro a quegli occhi chiusi ci sia una Veronica con un'altra vita, altri sogni, altre possibilità che non ti contemplano. Eccitante! Sfiori la sua pelle alla base del collo, la percorri con dolcezza fino alla spalla e la sua morbidezza esagerata ti dà come al solito un brivido, quel brivido di quando l'hai toccata per la prima volta. Sposti il lenzuolo per scoprirla e ti accorgi della luce che proviene dalle sue mani. È il suo telefono ed è ancora illuminato; lo prendi per appoggiarlo sul comodino quando inevitabilmente ti rendi conto che è ancora aperto sulla stessa chat che hai appena chiuso con Siria@117: Ecco chi era! E solo allora vedi che Veronica ha aperto gli occhi e ti sta guardando con una delusione che sembra il compendio di tutta la delusione femminile di ogni epoca storica dall'alba dei tempi. Una lacrima le scivola sul lato della guancia, se l'asciuga e si volta dall'altra parte, lasciandoti lì come l'inguaribile stronzo che sei sempre stato e sempre sarai.


Id: 4977 Data: 02/11/2020 12:56:33

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Il giorno perfetto

 

Il giorno perfetto

 

 

La tavola scivola veloce e leggera sull'acqua che è limpida e azzurra di primo mattino e colpisce a piccoli spruzzi i tuoi piedi ben saldi sulle staffe. Le tue braccia sono rilassate ma pronte a bilanciare con sicurezza la forza del boma e delle linee che tendono la vela. Il vento è diventato una brezza tesa ora che sei a circa un quarto di miglio dalla costa. Ti volti per dare un'occhiata alla spiaggia ancora non invasa dagli ombrelloni e per controllare la presenza di eventuali altri kiters. Ma non c'è anima viva, nessuno sta armando la sua ala, né ci sono boe che segnalano la presenza di sommozzatori sulla tua traiettoria; verso l'orizzonte, solo qualche piccola barca a vela che deve aver preso il largo prima ancora di te e ancora più oltre, fin dove il tuo sguardo può arrivare, qualche peschereccio. Alle tue spalle, la ruota panoramica sembra un relitto metallico dopo un’esplosione, e fai fatica a immaginare il fascino che esercita su così tanti turisti che fanno la fila per salire a fare un giro. Venite piuttosto a farvi un giro qua, gli diresti. Provate l'emozione di saltare in balìa di una forza completamente libera e indipendente da voi ma che dovete riuscire a controllare. Anzi, non ci venite. Non riempite il mare con il vostro traffico, con i vostri schiamazzi da consumatori distratti e fatalmente inappagati. Salite sulla ruota, lanciateli lì i vostri “Ohhh” di meraviglia. Ti viene da ridere a questi pensieri, perché a te non importa niente di quello che fa la gente; la massa, il popolo con le sue ferie, con le sue partenze intelligenti, con gli sconti di cui approfittare; con la sua calca nei locali, nei ristoranti, nei supermercati. Tutti ti sembrano inseguire la felicità su percorsi di consumo obbligati, come se la felicità fosse qualcosa che si possa comprare. E invece no, non la potete comprare, ve la dovete guadagnare, pensi, mentre il vento sta portando la tua ala allo zenit.

Ecco il salto, abbastanza alto da riuscire a fare mezzo giro su te stesso e planare morbido sull’acqua.

Tu ami questa sensazione di completa libertà e di incertezza sull'esito di ogni singola evoluzione. Non puoi fare a meno di pensare che questo sport somigli più di quanto si possa immaginare alla vita; e agli scossoni inaspettati e agli schiaffi e agli attimi di pura gioia, anche questi mai preannunciati dal benché minimo segno. La vita sorprende in più di un attimo. Ma quale vita, pensi? Forse vorresti che fosse così, la tua vita: una serie incessante di salti, di cadute, di sorprese, di vita. Ma forse, invece, la vita somiglia di più a un mare in bonaccia che può arrivare a dare la nausea per il suo rollio lento e prevedibile.

Ci sei. La vita è un interminabile andamento di bonaccia, interrotto in modo inaspettato da qualche guizzo di felicità.
Stamattina non sai che t'è preso.

Ti sei svegliato intorno alle quattro in un bagno di sudore, nelle orecchie ancora il ronzio della musica alta che suonavano in quel posto, nella testa ancora le parole di lei. Avresti preferito un ronzio e un frastuono ancora più forti, ammesso che fossero sufficienti ad azzerare il senso di quelle parole.

Ma poi che cos'è che ha detto? Niente che non sia negli schemi di una normale ragazza qualunque.
Tranne che sta decidendo la tua vita per te.

Non sono le parole a farti paura, né il significato di ognuna di esse presa singolarmente. È quel senso del futuro già stabilito, implicito, che ti fa paura e tu non hai avuto abbastanza fegato per dirle che, per te, le cose non stanno esattamente come pensa lei; che forse di legarti in questo modo non è esattamente nei tuoi piani, in questo momento.

Tu la ami? Sì, forse. Ma ami anche un sacco di altre cose che non collimano proprio al millimetro con il suo modo di vedere la vita.
Ti sei alzato dal letto con la voglia di fare qualcosa di vivo, di energico, di stupido.

Hai messo l'attrezzatura in macchina e hai cominciato a correre, correre, correre fra colline e alberi che si stavano colorando di rosa; dal finestrino aperto aria frizzante a riempirti i polmoni. E mentre il giorno si proiettava su tutte le cose della terra, la sua luce accecante, con un bagliore di fuoco, ha raggiunto anche te. Ti si è oscurata la vista per un tempo che è sembrato infinito, ma come per compenso, la tua mente è diventata lucida e affilata. E finalmente hai visto con chiarezza le emozioni che ti avevano travolto e com'erano riuscite a farlo. Era tutta colpa di quel sentimento d'impotenza che provavi sempre quando dovevi far valere le tue ragioni, sempre preoccupato com’eri di andare oltre, di ferire. Solo che agli altri, per lo più, non importava un accidente di andare oltre o di ferire. Erano così convinti delle proprie ragioni, così ciechi di fronte alle ragioni e ai sentimenti degli altri; e così egoisti anche quando dicevano di amare, da non vedere altro che i propri bisogni; immaginavano un mondo perfettamente disegnato per esaudire i propri desideri; un mondo in cui gli altri non potevano che ricoprire il ruolo che essi gli avevano affidato.

“Sono incinta”, lei aveva detto, ieri sera.

Ma era successo davvero ieri sera?

O un mese o un anno prima, forse? Oggi sembra tutto così chiaro, come le cose che guardi da distante perché sono successe tanto tempo prima e tu non ne sei più coinvolto. Tutto sembra spazzato via da questo vento che si sta ingrossando. Le onde hanno preso a scagliarsi con più forza sulla tavola che, pure, fila dritta contro l'orizzonte e con piccoli balzi si allontana sempre di più da terra. Eppure, quella striscia al di là della tua terra e del tuo mare, non sembra avvicinarsi. Anzi, hai come la sensazione che, più ti dirigi verso di lei, più quella ti sfugge. Ti sfiora appena il pensiero che forse ti stai allontanando troppo e che forse dovresti provare a virare per riavvicinarti alla costa. Ma ancora la scena di ieri sera davanti agli occhi prende il sopravvento. Il cameriere ha da poco servito il vino e si è allontanato. Tu sei rimasto in silenzio, guardandola come se fosse un'estranea, tu stesso inondato da un sentimento di estraneità e non-appartenenza, a quel momento, a quella frase, a quel significato.

Devi aver avuto un'espressione instupidita, pensi, come quando qualcuno fa una battuta e tutti intorno a te ridono, ma a te sfugge il significato.

Ti sei versato da bere, sempre guardandola in quel modo, con un'intensità che ti avvolgeva come una cappa di pesantezza e dalla quale non riuscivi a liberarti. Ti sentivi rallentato e hai dimenticato anche la cortesia di versare da bere per prima a lei. Lei taceva, rimandandoti il tuo sguardo. Hai finalmente versato il vino nel suo bicchiere, hai alzato il tuo per un brindisi silenzioso e serio in direzione del suo, ancora appoggiato sul tavolo. E all'improvviso un pensiero consistente e duro come un ammasso di roccia dura ti ha colpito con tutta la violenza del suo impatto.

Chi è lei? Tu non la conosci davvero. E questo era il bello fra voi fino a pochi istanti fa; voi vi stavate conoscendo, prendendovi tutto il tempo necessario, senza alcun altro progetto che il piacere di passare del tempo insieme, scoprendovi piano e con estrema dolcezza.
Riesci solo a pensare a quanto sia stata un'estate bellissima. Sei passato di colpo da un periodo di estrema solitudine, in cui ti sembrava che la tua vita si fosse cristallizzata nell’assenza quasi di ogni rapporto umano, a un turbinio di conoscenze. Una più eccitante dell'altra. E nel bel mezzo di questo turbinio hai incontrato lei; lei che era lontana abbastanza da renderti agevole il rimandare, a un momento indefinito, la decisione di dare alla storia una forma più stabile. E, durante la sua assenza, ogni volta ti lasciavi travolgere da altre storie, altre passioni incontenibili. Ma poi lei tornava sempre a trovarti. E ti piaceva anche questo. Lei ti piaceva.

Era così diversa, con il suo modo di fare un po' all'antica, così restia a lasciarsi andare. Fare sesso per lei era stata una cosa seria, era stato fare l'amore. Intere giornate a nuotare, a passeggiare fra i boschi, a prendere il sole e quei baci, che arrivavano ogni volta quasi con pudore, ti facevano sentire come qualcuno che riceve un dono prezioso. Poi alla fine del week-end lei ripartiva e ti tornava prepotente la voglia di fare sesso con qualcuno che era fatto come te.

Non ti sentivi in colpa; non avevi mai fatto alcuna promessa di stabilità.
Non che non volessi arrivarci alla stabilità, anzi lo speravi, ma volevi prenderti il tempo sufficiente per arrivare a quel punto.
Una specie di punto di non ritorno, pensi adesso.

Perché è di questo che ha bisogno la tua vita.

Perché tu ora non sai più esattamente chi sei.

Tu non sai più nemmeno che cosa vuoi.

Che cosa vuoi? Vuoi stare con lei? Con lei che ti sta guardando con una tale compattezza di emozioni inespresse, ma per te così tangibili? O forse è solo una tua impressione. Che cosa c’è in quegli occhi che ti guardano? Potresti dire che si tratta di diffidenza, mista a stupore, e a paura, e a dubbio.

Sì, forse è proprio il dubbio che prevale nei suoi occhi; il dubbio che questa sua notizia non ti colga precisamente con gioia. Probabile che per una frazione di secondo ti sfugga un sorriso a questo pensiero, perché tutto ti sembra così maledettamente ironico dal tuo punto di vista e arrivi addirittura a provare dispiacere per lei; per lei e per tutte le facce toste del mondo che vorrebbero soltanto decidere il percorso della vita degli altri, da qui all’infinito; e poi rimangono delusi quando non ci riescono; oppure si arrabbiano, accusano, giudicano. Per la verità, lei non sta dicendo ancora niente, ma ti senti addosso tutto il peso delle sue aspettative. Eppure sei assolutamente sicuro del fatto che fra voi non ci siano mai state promesse.
Un figlio? No, decisamente non è quello che vorresti ora. Tu ti trovi con tutta probabilità al di là del suo spettro di aspettativa. Tu stavi cercando di capire se lei, così diversa da te, potesse arrivare a bastarti, a sconfiggere, e per sempre, quella tua ansia di bruciare, di vivere, di amare oltre ogni limite.

È questo che stavi facendo. Dovevi dichiarare queste intenzioni, mettere nero su bianco questa tua volontà di ricerca di comprensione di te stesso; o fare, che so, testamento, dichiarando, nel pieno possesso delle tue facoltà mentali, che da qui a cinque minuti, cinque mesi, cinque anni, non volevi assolutamente diventare padre?
Quel punto di non ritorno che cercavi, comunque, non era ancora arrivato. Nessuno sapeva che avevi una ragazza più o meno fissa, e ti guardavi bene dall'ammetterlo anche con lei. Perché semplicemente non era così. Ci tenevi a lei, ma tenevi anche ad altro. E adesso lei avrebbe voluto questo figlio da te. E tu saresti dovuto diventarne il padre. Non ce l’hai con questo bambino, ma con tutto quello che comporterà la sua nascita in tema di libertà e responsabilità e legami che non sei per niente sicuro di volere. Perché tu, mentre lei non c'era, correvi dall'altra.
O forse dovresti dire che correvi “dall'altro”?
Com'è che la gente definisce le persone come Alex? Una donna a metà? Un uomo a metà?

No, di solito la gente non è così gentile nei loro confronti. Tu ti sei rifiutato fin dal primo momento di etichettarla. Per te Alex era la passione pura e travolgente che l'estate aveva fatto arrivare fino a te. Con lei non avevi avuto freni inibitori e ti eri sentito completamente libero di essere te stesso, per la prima volta. Una sensazione totalmente nuova per te. Il sesso così non l'avevi mai vissuto, eppure ti sembrava tutto completamente sbagliato. Meraviglioso, eppure sbagliato.
Tu ti sentivi sbagliato.

Il mondo intorno a te chiedeva che tu fossi l'uomo forte e virile che appena si fosse messo sul serio con qualcuna avrebbe avuto cinque figli almeno, ma che poi avrebbe avuto donne e ancora donne  in quantità. L'amante per eccellenza, così ti vedevano. Doveva quindi esserci un mondo di tenebra dentro di te e anelavi a che qualcosa o qualcuno ti squarciasse il petto per strappartelo via, lasciando entrare quella luce che ti avrebbe finalmente fatto sentire in pace. Avresti voluto essere una persona normale, rientrando forse banalmente in uno schema e fare quello che fanno gli altri; essere quello che ci si aspettava da uno come te. Oppure avresti voluto trovare il coraggio di essere soltanto te stesso e fregartene di cosa si aspettavano gli altri. 
Oggi ti sembra il giorno perfetto per capire che cosa devi fare. Ora che il vento s'è fatto ancora più forte, ti strappa con rabbia dai tuoi pensieri. La vela tende le corde con violenza e ti costringe ripetutamente a saltare anche se non provi più alcuna gioia nel farlo. La voglia che ti ha preso, questa mattina, di trovarti in mezzo al mare, sospinto in decine di direzioni diverse da un vento ribelle, ti sta stancando. Volevi sentirti libero e padrone di governare la tua ala come avresti voluto essere capace di governare la tua vita e, proprio per questo, adesso non vedi l’ora di fare qualcosa.
All’improvviso ti sembri uno che sta solo perdendo tempo e ti prende una smania incredibile di tornare; di smetterla di scappare, o di sognare, ché ormai ti sembrano la stessa cosa. A certe decisioni non si può abdicare, perché sarebbe come dire: accomodatevi, fatela voi la mia vita, decidete voi per me! All’improvviso vuoi rientrare, metti la tavola di taglio e conquisti la bolina per risalire la direzione del vento e velocemente raggiungere la spiaggia.  La stanchezza si fa sentire, ma è nelle braccia e nelle gambe, qualcosa che la tua forza di volontà può riuscire a dominare e, con decisione, ritorni verso terra.

E comprendi che la questione non è essere sbagliati, ma sentirsi sbagliati.

Quella striscia di sabbia che ora si avvicina comincia a essere più movimentata, molte persone stanno facendo il bagno e allora ti avvicini alla riva con delicatezza. Raccogli con calma la tua attrezzatura, stanco ma improvvisamente leggero nella testa, pensando che forse tutto questo ordine del cosiddetto mondo normale sia solo apparente e che molti prima di te hanno di certo dovuto percorrere strade diverse per trovare la propria felicità. 

È valsa la pena uscire in mare, pensi, perché non ce l’hai più questo timore di affrontare le cose, né c’è più quel sentimento di impotenza e di resa di fronte a ciò che vogliono gli altri. 

 

Carichi la macchina e torni verso casa, deciso a vivere la tua vita così come sei.

In qualche modo ce la farai.

 

 

 


Id: 4971 Data: 16/10/2020 18:09:40

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Il caffè turco »
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