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al testo di Federico Zucchi
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Il bisbiglio dell’arte anonima
Anni fa, camminando per Parigi, in una notte di buio antracite con una Loira di vino nel cuore restai a lungo a vegliare il trionfale anonimato di Notre-Dame. Restai seduto insonne ad ascoltare il brusio pedante degli scalpellini la caparbietà dei fabbri, il volo dei vetrai alpinisti, la cecità degli orefici armonici. Tutto insisteva nell’aria di maggio unendosi al grido degli operai scivolati dai pinnacoli, alla smorfia dei bestiari impressi nella pioggia. Invano l’indomani cercai nei testi una firma posta in calce all’opera, ma sulle altezze al limite della statica restava solo l’orma della vetta collettiva. Da molto tempo l’arte non è più anonima e il nome campeggia come un sigillo imprescindibile sui dorsi dei libri impilati, sulle assonometrie dei palazzi esclusivi, sulle pale d’altare all’ultimo grido, sulle foto che indugiano sul cornicione del sonno come uccelli rapaci di Hitchcock. L’arte di strada viene pedinata dai bagarini delle aste, la provocazione consuma spesso la sua vocazione nell’androne di un commercialista, il rudere di una casa tatuata da Banksy diventa presto virale ed è riassorbita dal palcoscenico. L’anonimato non potrà tornare, specie oggi che abbiamo lasciato addormentare la forza delle correnti ascensionali, specie oggi che fatichiamo a venerare lo sconosciuto con archi rampanti sospesi nel vuoto. L’anonimato non vorrà tornare, ma forse i profeti della condivisione diventeranno presto evanescenti se non si lasceranno varcare da una bifera spoglia, da una bellezza ritrosa che nutra -nascosta- il tarassaco della mancanza. |
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