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Quelle mani

Romanzo

Carmela Cammarata
Del Vecchio Editore

Recensione di Antonio Piscitelli
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Pubblicato il 12/06/2012 12:00:00

Più che di romanzo si tratta di mitografia, non solo perché la protagonista sproloquiante, Zlata, ha una statura tragica che oscilla tra Giocasta e Medea, vale a dire tra incesto e infanticidio, ma anche e soprattutto perché è figura simbolica che conduce, senza indulgenza per chi legge o, nella finzione narrativa, per chi ascolta, all’archetipo del Male. È dunque opera esegetica questo bel libro di Carmela Cammarata, se è vero che denuncia le possibili modalità con cui la coscienza forgia se stessa e si giustifica. Non c’è azione o pensiero nella storia di Zlata che non trovi giustificazione nelle convenzioni di una nomologia appositamente elaborata per legittimare il crimine. Non è vero che non ci sia morale nell’agire di questa donna. C’è, è studiatamente formulata per coonestare il dato di fatto, teleologicamente utilitaristica e conservativa. Fondamentalista, in parole povere. Zlata è tutti noi. Rappresenta il cinismo stomachevole con cui, a salvaguardia della nostra integrità da predatori, poniamo le ragioni del bene comune di cui ci facciamo interpreti e propalatori, univocamente, senza neppure ascoltare le ragioni degli altri che, oggi, malauguratamente per fondamentalisti e integralisti, sono i più e che, prima o poi, sommergeranno in un bagno di sangue le nostre malefatte.

Non so se il bagno di sangue ci sarà davvero, ma temo che la pagheremo cara, se non noi, le future generazioni. Il personaggio di Farisa, la negra, s’allontana dalla scena dei crimini, migra altrove e partorisce altri figli, così come la Francese (alluderà all’Illuminismo?) porta in grembo il frutto della felicità. Non la nostra, tanto per essere franchi, quella degli “altri” che ci sostituiranno, con altre leggi, con diversa Storia.

Siamo alla frutta, sembra dire la Cammarata, con buona pace di chi resta ostinatamente legato a una Civiltà che non ha più nulla da esprimere. Troppe le falsità che abbiamo raccontato ai nostri figli, fino a rincitrullirli del tutto. Non abbiamo mai messo al mondo tanti scemi come nell’epoca presente. Una mano pietosa li seppellisce in giardino, pace all’anima loro!

Ciò che mi lascia perplesso della tesi di fondo, o almeno della interpretazione che no ho data, è l’indulgenza per il passato, rappresentato da quel padre Erminio che si rifiuta di assolvere Zlata, mentre il più giovane don Carlo lo fa, sia pure senza convinzione. Cosa vuol dire questo, che abbiamo avuto un passato “morale”, capace di distinguere il Bene dal Male? Lo studio della Storia sembra dirmi il contrario, se devo porre su uno dei piatti della bilancia la quantità di sangue e dolore delle vittime e sull’altro la levità con cui i carnefici hanno sempre vissuto nella maschera protettiva delle ipocrisie istituzionali. La morale è sempre stata giustificativa dei rapporti di potere, l’hanno imposta i vincitori.

Fatte salve le possibili deduzioni in senso contrario dei potenziali lettori della Cammarata, resta la qualità di un’opera nella quale, più che il testo, conta la struttura. Le voci narranti sono più d’una, in prima persona, anche se a spiccare è la lunga, estenuante e balzana logorrea della protagonista che, per molti versi, richiama alla memoria figure letterarie come la Tzia Bonaria di Michela Murgia o certe donne lucane della Mariolina Venezia di Mille anni che sto qui, tanto per citare produzioni recenti del panorama letterario italiano. Ma ancor più somigliante è questa Zlata alla Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio, della storia criminale del nostro paese, una donna dalla quale tanta ispirazione ha tratto il teatro e il cinema. È espressione, anche linguistica, della lucida follia con la quale si rivela un animo distorto dal pregiudizio, dalla superstizione, da una fede pre-confessionale e tuttora animistica che perdura nel paludamento della liturgia sacralizzante. Sembra Bene e invece è Male. Si santifica addirittura nel martirio, quale testimonianza di una verità che trascende il contingente e si propone come assoluta e immutabile. Va investigata con gli strumenti dell’antropologia e della psicanalisi, con progressivo divezzamento dalla natura diabolica dei moventi. Non c’è un diavolo che induca al Male, c’è la nostra sete di dominio, il nostro egoismo, il nostro essere vincitori. Il “diverso” è la negazione vivente della nostra verità, perciò va combattuto e, se possibile, eliminato dalla scena del mondo. Ecco spiegata la furia omicida di Zlata, sanguinaria non meno di tutti noi che operiamo il male, convinti, più che convinti, di essere nel giusto.

Mi piacciono le voci delle donne, sempre che non si commiserino troppo, mi piace la loro spregiudicatezza nell’eviscerare questioni che sono alla base della nostra autolegittimazione. Carmela Cammarata lo fa mirabilmente e per questo mi piace. Vi rendete conto che continuiamo a ripeterci, con maniacale insistenza, di essere i buoni, a dispetto e contro ogni evidenza che dimostra esattamente il contrario? Vi sorge mai il dubbio che il nostro filantropismo, che si dà l’alibi di aspirare alla felicità dei diseredati della terra, non sia altro che un modo di camuffare nuove forme di sfruttamento e colonialismo, per operare veri e propri genocidi culturali? No, non mi assolvo! Inclino alla speranza, come forse tenta di fare l’autrice di “Quelle mani” nelle ultime battute della Francese, ma non mi assolvo. E denuncio tutte le Zlata del mondo per crimini contro l’umanità.



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