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Raccolta di poesie di Ninnj Di Stefano Busà
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Un altro inverno

Un altro inverno

 

Ti parlerò in silenzio

solo col mio respiro.

Il tempo ci disperde

e non coincide con le ore liete.

Presto sarò lontano

e tu potra trovarmi seguendo

la scia azzurra delle rondini.

Un altro inverno sarà di rami spogli,

la stagione ne coglie già la mutazione.

 

Ninnj Di Stefano Busà @tutti i diritti riservati Legge 633/1941

*

L’Inverno

L'invrescere erno

 

Una pena ineludibile, strinata

di fredda malinconia calca l'inverno,

condensa echi e libecciate,

fiati ai davanzali diacci di gennaio.

A riparo dai pensieri è acclive la vita.

Il tempo respira la sua asprezza.

Ogni parola pare crescere dal seme dell'inverno,

esondare come un fiume verso il mare

tutto si affaccia al tiepido terrazzo della casa.

-Poesia- ci regala luce, estrema dolcezza di carne

che freme da minuscole gocce di brina

a custodire in chi l'ama la grazia.

Ori e rossori di un minuscolo sguardo,

il peccato della fragola al labbro.

Come passerotto attende il cibo

dal becco materno, così si scioglie

l'inverno e il suo rigore è quiete provvisoria:

nè gioia né dolore è questo morirti accanto

di un respiro e d'un pianto.

 

Ninnj Di Stefano Busà diritti riservati da Legge 633/1941

 

*

Appena un verbo

APPENA UN VERBO,

 

a volte, ci sorprende, un muro d’ombra,

la cinciallegra canterina al ramo più alto,

il serto di rose che ha giorni morenti.

Appena un soffio, mi parla di te,

dove le stelle parlano una lingua sconosciuta.

Il viaggio è compiuto...

Metteremo distanze tra crepuscoli e deserti,

transiteremo dalla morte, senza farci male.

Nella bisaccia l’ultimo pane,

a nutrire carne d’eterno.

 

Ninnj Di Stefano Busà (da: Filigrana di Pace)

*

Un varco tra le stelle

 

Un varco tra le stelle

 

Le rose si schiudono anche qui,
dietro i muri o nei cortili di periferia,
tra lattine di birra e silenzi.
Hanno strani effluvi e pulviscoli,
anch’esse premono per aprirsi
un varco tra le stelle,
oltre i viottoli, tra il mare e le case, 
spuntano a cespugli, le rose vespertine, selvatiche,
anche sui muri delle tangenziali,
le fa ondeggiare il respiro del sole,
e svettano le cimase delle foglie
lungo le dorsali dei monti a primavere.
Hanno il respiro lungo di un cielo
che non vuol cadere, perché oltre
c’è la luce, un empito che esala
dalla terra dei vivi.

 

Ninnj Di Stefano Busà

*

Ellittiche stelle silloge vincitrice de IL PORTONE

a cura di Roberto Carifi

 

 

 

Una distanza tra il grido e la ferita: la poetica di Ninnj Di Stefano Busà.

 

Quasi tutta la sua opera si affaccia sul silenzio percorrendo tutte le strade del dolore e dell’assenza.

 

Del resto i poeti, quelli veri, giungono all’ultima parola dopo aver

 

percorso fiumi «di dolore e di destino». L’autrice sa cos’è il lento

 

dipanarsi della vita, «la distanza tra il grido e la ferita» e sa

 

come attraversarli, come portare la sua croce, e tuttavia sa come

 

si spegne «la nuda realtà della sete». La realtà della sofferenza

 

(del dukkha, per dirla con il pensiero buddista) è in quasi tutte

 

le poesie di Ninnj Di Stefano Busà per superarlo, per raggiungere

 

il silenzio, la pace. Tuttavia bisogna viverlo il calvario della

 

vita, fino in fondo, fino all’abisso, fino quasi a scorticarsi l’anima.

 

«Ogni piccolo filo d ’orizzonte / si ritrae, si ripete la meraviglia / che

 

serve alla cecità / per estinguere il suo pianto». Versi alti, di una

 

poetica che resta ai bordi della sofferenza, persino del male dettato

 

dal destino. Il tragico, ricorda Hoderlin, ha più fato e virtù

 

atletica, rispetto a ciò che è dùsmoron, privo di destino.

 

Ma Ninnj Di Stefano Busà vuole liberarsi dal destino, preferisce il silenzio, la libertà, l’apertura d’ala.

 

La sofferenza è il sottofondo della sua scrittura, ma la liberazione è lì,

 

a portata di mano. La poesia di Ninnj Di Stefano Busà è bagnata da quella forza contemplativa che ha in sé la rivelazione e il dono è accostabile al ringraziamento che fa di ogni lingua poetica una pietà del pensiero. A volte si ha l’impressione di sentirla quasi respirare, offrirsi all’esterno, all’aperto, all’infinito, essere tutt’uno con la libertà che caratterizza in fin dei conti, la sua poesia.

 

 

 

 

 

Se resta è un filo sottile,

 

uno scampolo di cose malandate,

 

un punto e a capo, un altro tempo

 

che non sai se separa

 

i tuoi ritardi, cancella i tuoi respiri.

 

Lo smalto poi si scrosta, invecchia

 

in altro modo, si smaglia dalla pelle,

 

e non c’è iato, qui dove svampa,

 

tra il buio e il mondo, tra la notte

 

e il cuore.

 

 

 

*** 

 

 

 

Senza gioia il mattino,

 

tra sguardi che ritardano

 

e un sole avaro, un luogo condiviso,

 

qualche nube.

 

La scopri da una strada polverosa

 

l’altra verità che s’attarda

 

a tentare un cielo terso,

 

un vento che sosta ad ogni porta,

 

come un passante senza nome,

 

lo vedi andare piano,

 

quando il canto è breve

 

e l’ombra fugge e il mondo

 

è solo un suono dimenticato.

 

 

 

 

 

18

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un viaggio senza ritorno,

 

una storia che porta due parentesi

 

tra un poco e l’altro della vita,

 

una distanza tra asintoti e tangenze

 

sempre più lontani, linee d’ombra.

 

Qui – dove ogni giorno è muto,

 

e manca sempre un punto

 

di congiunzione che ti stringa, –

 

e torni indietro per cercare

 

un codice segreto che lo acquieti

 

ne scopra l’ordine, una rotta condivisa.

 

Qui è terra consumata, senza più elegia:

 

terra di rami spogli, di malinconia.

 

 

 

 ***

 

 

 

Il tempo appena di guardarle le cose,

 

e già sfuggono, e il mondo ha uccelli

 

di passo, ozi, cose di breve conto.

 

appena un foglio bianco

 

e neppure un’odissea da raccontare,

 

un’elegia da vendere o incrociare

 

coi suoi morti, un’anemia di versi,

 

di suoni, di tinte accavallate.

 

Qui – dove le parole hanno solo l’ombra

 

a farle già diverse –

 

Qui – dove il verso scorre per cercarsi,

 

come se niente fosse e manca

 

la voce che lo stringe, lo conserva.

 

 

 

19

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                 SEZ.  VERBI INASCOLTATI

 

 

 

                                                   

 

 

 

 

 

Sembrano prendersi gioco dell’ora

 

le sciabolate di luci imminenti.

 

Ti corre un brivido fragrante di felicità,

 

quello che s’insinua tra le tamerici e il nulla,

 

il frutto acerbo era la giovinezza.

 

Così spalmo l’ineguagliabile acqua serena

 

sulla fronte del dio, profetizzo altri templi

 

e sentieri con la stagione del miele,

 

mentre le salmastre acque

 

si fanno opalescenti e sorridono al cielo.

 

 

 

 ***

 

 

 

Nel grido del sole c’è lo splendore

 

autunnale, stupiscimi col tuo nettare acerbo,

 

declina i tuoi lembi azzurri

 

sul portale di memoria

 

che ci è appartenuta come emozione,

 

ora radice dilapidata e sofferto dolore.

 

M’incanta l’ebbrezza, un lungo brivido di pioggia,

 

le ombre nei riflessi dorati della giovinezza.

 

con te ritrovo quel doloroso miele dell’abbraccio.

 

 

 

 

 

20

 

 

 

 

 

 

 

Momenti d’erba scioglie la sera,

 

un desiderio che stringe il mondo

 

nel suo oscuro moto,

 

e respira venti di tempesta il suo stupore,

 

perdendosi nel folto della siepe,

 

tra ali di ortiche e aquiloni.

 

 

 

 

 

*** 

 

 

 

Un sentiero di luce costeggia

 

il sereno dei tuoi occhi.

 

vi è il respiro frale del giorno,

 

la salsedine delle marine assolate,

 

le mareggiate notturne, nel gioco delle trasparenze.

 

Noi siamo lì con la spietata illusione:

 

le palpebre chiuse e quella poca argilla

 

tatuata in seno – ombre celate tra la resina e la pelle –

 

 

 

 

 

21

 

 

 

 

 

 ***

 

 

 

Raggiungere il confine,

 

misurarne il suo perimetro di pietra,

 

il tempo che trasmuta in appunti

 

di diario necessari a immunizzarsi:

 

ai silenzi, ai tempi, ai luoghi

 

che si travestono di passato

 

per escluderci.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

Può venire solo dal labbro

 

la parola amata, a piegarci,

 

senza l’ombra di peccato,

 

oppure volgere lo sguardo al bene prezioso,

 

alla tenera notte che artiglia la tenebra,

 

a custodire quel tuo sorriso

 

come un sole sbucato dall’inverno,

 

o regalare la neve come un giorno felice

 

che arrossisce alla luce.

 

Di ogni cosa resta la fitta malinconia

 

sul filo del tempo, a riparo dalla sorte.

 

 

 

22

 

 

 

 

 

 

 

La notte ha occhi seducenti,

 

dal sogno evoca l’oro di memorie,

 

si fanno lente come clessidre vuote

 

all’ombra delle attese le ore,

 

alzano vessilli d’alba, reti di dolore,

 

sfilano come lame sul velluto

 

le giostre colorate dalla luce,

 

preparano il giorno al sangue già versato,

 

agl’immemori presagi della resa.

 

Sarà ancora dubbio questa disarmonia

 

di canti? Artiglio delle favole incompiute

 

scioglie la nera uniformità notturna.

 

Ogni silenzio è guado in mare alto,

 

vena di attracco lungo il bordo scuro,

 

riarso dei ricordi.

 

E non vorremmo migrare in altri luoghi

 

che quelli di un cielo di cobalto.

 

uccelli migratori ora smarriti

 

non sappiamo chi ci salverà.

 

 

 

 

 

23

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come acque chete

 

che accarezzano scafi, accelera

 

l’aprile lungo il litorale, fiati di brezza

 

promesse di equinozi attendono

 

il sogno dell’estate, ignara

 

dentro la trafittura di ferite, anela

 

l’erba a rinfoltire il verde sui muretti,

 

sui dossi e sugli anfratti.

 

E ci spingiamo al largo dalla secca,

 

dai canali melmosi, al lampo azzurro,

 

al porto più sicuro come velieri

 

salpati al vento di bolina.

 

Terra che si sfalda ereditammo

 

e oro che la ciurma inabissa

 

al suo naufragio. E giungemmo

 

al lampo delle stelle con audaci pensieri,

 

a sfogliare giorni lievi, parole

 

che precedono il canto dell’addio,

 

forse il perdono o la dimenticanza,

 

senza voltarsi indietro.

 

 

 

Alcuni testi ripresi dalla raccolta vincitrice del Premio Il PORTONE di Pisa

 

pubblicata con ETS, Pisa settembre 2013 

 

 

 

 

 

                                                                                     

 

*

Nuovi profeti

NUOVI PROFETI

 

Nuovi profeti vanno all'avventura

con atroci brandelli acuminati,

sudari e grida sono i loro sogni,

anime inermi dirigono all'assalto

di una carne superstite.

Un silenzio li colma sempre più irreale,

perso all'ascolto,

dove a brandelli i naufraghi approdano

mentre il vento ferisce i loro volti,

sferza su altari d'innocenza.

 

Un altro sogno insidia il grido tenace

della resa.

E l'anima si china a consolare

la croce dell'uomo che sempre più si attarda

su altari disabitati, su sentieri oscuri,

e...neppure una preghiera per chi cade.

*

Tra fughe e derive






Tra fughe e derive


Siamo fatti così,
resta l’impronta o appena un’ombra,
un brulicare di vento
tra le chiglie, forse appena
un nascere dal sogno
perché vi custodisca una fuga
che sia grido dentro la sua carne.

Siamo la vita che urla, il caos dentro
le mani nude d’amore,
groviglio di assenze e speranze.
Conosciamo i deliri,
l’età dolce dei germogli, qualche volta
la gioia che monta da un chiaro mattino
di luce, già a fior di pelle disciolto.

Ninnj Di Stefano Busà

*

Senza titolo

 

******

 

Scolora come un calzino smesso

il senso della vita.

Non possediamo il suo significato,

la frenesia ci lascia un segno.

Qui o altrove tutto è appuntato al cuore,

quanto basta poi di una bellezza acerba

è solo marginale: il bandolo è breve,

la notte una scommessa che non lascia

vincitori, e stringe la ruga sull’asfalto,

la strada illuminata dal lampione,

un cenno appena di saluto. Eppure,

tutto ti attraversa e tu resti come un fascio

di meduse aggrovigliate,

perché lo sguardo abbraccia le bonacce,

le ore che non strappano i tuoi fogli,

e riscrivono la vita che ti passa accanto.

Tutto è provvisorio, già lo nega

il lampo dei tuoi occhi, quando distanzia

la luce dalle ombre.

 

Ninnj Di Stefano Busà

*

Nel calco

NEL CALCO


Tutto è nel calco di mano,
quando il cielo si fa ramo
e l'ombra scuote le ore dell'attesa,
le più turbolente.
E' la stessa notte,
la stessa fuga da noi stessi
che spegne i fanali della strada,
a metà tra il sonno e la veglia.

*

La clessidra

La Clessidra


Tra strategie d'inganni
il tempo vola via, si perde dell'oro
lo splendore vano o svuotato di magìa.
Moto perpetuo di clessidra
che rende operoso l'assoluto:
un'oncia, appena un'oncia di ricordanze,
per non perire tra le rovine del cuore. 


*****


Potessi pronunciare a fil di voce il nome,
proteggere solo un po' il filo d'erba,
il minuscolo bene.
Le perdite-vertigini gà annusano
il bisogno nudo dei sensi, non ci resta
che resistere tra le mani del caos,
amare le poche meraviglie serrate in cuore.
Mentre la promessa asseta
un chiarore rimane di stelle.

*

Ti ascolto L’avanzata delle ombre Come allora

Ti ascolto

Come una promessa piovuta dal cielo,
che tuttavia sa di amaro,
la dolcezza frappongo ai silenzi di campane,
ai rigogliosi ruscelli d'acque chete
che scendono come lacrime
a solcare i miei occhi.




C'è pesantezza sui rami ricurvi di neve,
che attendono l'avanzate delle ombre.
Così scrivo e lascio che la pupilla si schiari
alla luce dei fanali, all'incognita di terra,
al bozzolo schiuso di farfalla dipinta sulla parete.
Scrivo per difendere la tenebra dalla tormenta,
la pietà dall'empietà che la sovrasta.


Come allora

Tutto come allora, l'ibisco al davanzale
con la luna piena, il corpo aggrumato da lapilli
e cenere, ferite ardenti come vulcani 
che eruttano magma dal sottosuolo e paiono spenti,
ma sono dormienti, i fiumi che scorrono
nelle vallate sanno il lento perire delle cose...

*

Ci vuole la notte

Ci vuole la notte...
per liberare fioriture di labbra,
scaldare sguardi e giorni capovolti,
sensi ossidati e trascorrenti.
A margini invernali, tra nidi spogli
e passeri svolati la notte rallenta la morte,
sostiene tra le pallide ombre
l'artificio degli occhi, le azzurre dimore,
senza più sogni.

                   **********

Così lo specchio riflette il bagliore
delle forme ingannevoli, il vuoto temibile
senza più margine né sole:
la grazia di corpi accaldati ma spenti,
memorie di sete e di fame,
chiuse forme di vita già scritta
che pare differita.

*

Il Presente


IL PRESENTE

di Ninnj Di Stefano Busà

Poi ti accorgi che il passato
è un sogno sfumato e ti segna
il silenzio, o appena il conforto
del sole. Nulla è più indifeso del giorno
che avanza senza codici certi,
senza risposte o verità.
Il viaggio ha stazioni d'attesa,
una religione di parole che non trovi,
regole sfuggite all'occasione
che più non tiene, si sfalda.
Il presente è un osso spolpato,
una preghiera senza dio, ha zone d'ombra
che l'umano fatalmente ignora.
Se torna di soppiatto plana sui tetti,
ti nutre di passioni,
si arrocca alla sua brevità, alla nudità.


*

Se ci sei, sei il segno supremo


di Ninnj Di Stefano Busà


Se ci sei, sei il segno supremo della Redenzione


Tu sei presente nella difficoltà
dell’essere, nell’urlo del disincanto
e del dolore, quando il frastuono
vanifica la ricerca della Tua verità,
quando la sconfitta è davanti a noi,
nuda e mascherata di orgoglio,
quando si dibatte la coscienza
e ha il sopravvento il male,
la presunzione d’infrangere
le regole divine, camuffarsi da giganti.
Monadi arroccate alla frenesia
di possedere la vita ad ogni costo,
ignoriamo che il vero peccato
è spingere alle soglie dell’umanità:
la perversione, l’anonima coscienza
senza più richiamo, fuori di tenerezza
e di perdono,

*

All’amico Walter Mauro

a Walter Mauro


Nel segno l’incontro, Walter,
(la vita) come un brivido ci regala,
talvolta una filigrana di emozione.

Ma è lotta con l’angelo, che offre lo sguardo
oltre il contorno d’occhi,
la misura del dolore che investe la terra
e la commuove, o tenta l’arbitrio sottile
del frastuono d’anima, mentre brucia
la fantasia, osare poi è un intenso profumo
che inebria.

*

L’Amore è incendio che divora

L’amore è incendio che divora

I giorni srotolano assenze
sul corpo piagato da arsure,
dove le lacrime hanno breve ristoro,
noi ci gingilliamo tra luce e tenebra.
dentro l’alba dei fuochi divoranti,
un magma di pensiero e tenerezza, il nostro,
una canzone che vibra di teneri virgulti,
di gaiezze immemori e tenaci.

Questo amore si alza dai puri silenzi,
a inondarci di stelle.
Siamo vita che attende il suo farsi,
anelito alla felicità delle radici.
L’amore (lo senti?) è incendio che divora.
Amami,
in questa immensa solitudine,
dove anche i fiori piegano lo stelo,
scegliamo l’inferno del cuore,
il gorgo di luce, la sostanza della vita.

*

Ad un amico a Luciano Luisi


Ad un amico (a Luciano Luisi)


Segnò l’ora un bisbiglio, sottile
come un fiato di libeccio sui gerani,
nutrimento d’anima scagliato nell’ignoto.

Da un luogo all’altro rivivo quella sera serena,
che noi tutti adornava di un’eguale nota,
(poesia), segnali al cuore la fantasia
che di ognuno tentava ali estenuate
dal fitto groviglio di tenebra.
E dunque culliamolo oltre il dolore
e l’altrove, quel mite e sublime giorno di festa,
il solitario dono che ci vide rasserenanti,
una sera,
prima che grande lontananza ci divida.


*

Dalla raccolta edita:Il sogno e la sua infinitezza


SI RIPORTANO ALCUNI TESTI della raccolta edita: IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA
di Ninnj Di Stefano Busà


Non che io conosca la geometria dell’aria
il volo del coleottero sul ramo,
dentro la morte dell’estate è il suo flagello,
la linea di demarcazione, la palude stigea
la foglia che marcisce e alimenta la notte
incombente, senza volto e nome.
Una luce, la nostra, che ha il debito dell’usura,
l’orizzonte sempre lontano.
Possediamo il godimento, il ramo stento,
la fitta del rovo: ogni vascello naviga a braccio,
lo scafo affonda, eppure sfaglia la memoria,
la sua radice mortale di lussuria.
Rinascere poi è come tentare
quel poco che non conosciamo, la verità
è sentiero inesplorato, sasso duro a spezzarsi,
eppure è chiaro il giorno, c’è tanta luce intorno.





Respirami in limine di campo,
dove le spighe non maturano,
regalami lo strappo dell’abbraccio,
il fiore d’innocenza, la melagrana spaccata
al solleone.
Lo sfaglio della terra ci rende calvi di vento,
col ritmo di meraviglia pronto a morire,
ad offrirsi alla falce della carne,
alla forma che cancella tutte le altre forme
nella minuscola gola di farfalla,
dove la minima distanza è dolorosa,
taglia in due il seme e la sua storia:
la visuale delle cose diventa già memoria.




Poggio le mani sul tuo cuore
sono falce e spiga che fiorisce e lenisce,
m’invento l’ostinazione delle pieghe,
mentre i tuoi ventricoli sanguinano,
anche la vita con le sue distanze minime,
è un giro di valzer scordato.
La tenebra avanza
col passo stanco del plotone senza obbedienza,
in ordine sciolto o in fuga,
come dai giorni di dolore o dall’inverno
che non ha fuochi per scaldare.
Così la morte, una lingua muta
che sbianca carne e sangue,
fin dove scorre il soffio della linfa,
a sciame cattura il brusio tenace della vita.






Anche il giorno si oscura,
senza sussulti, senza saziare la fame
che indaga tutte le varianti del pasto.
Possediamo una sola geometria di sguardi,
un germogliare labile di cieli,
che incrocia flussi migratori,
ancora col fiato sul becco,
quando la morte li attende al varco sulla rupe,
dove il viaggio si fa memoria d’aria,
sorriso di radici inquieto,
alghe e rocce che portano in mare aperto.
E non è che io cerchi l’altra metà del cielo,
un ritorno d’erba dell’età primeva,
Il mio sogno ha sassi duri e licheni
sfrangiati dal troppo rinascere
fiore e radice. Ora è seccume di ramo.




Nell’incavo delle tue braccia un sussulto,
veglia che induce l’un l’altro
a godere dell’amore,
nell’attesa del tutto compiuto che artiglia
la minima gioia, l’edera tenace della storia,
sono onda di tenerezza sul volto.
A tratti, ci restituisce l’innocenza, l’amore,
mentre calziamo l’ipotesi del volo,
ma non abbiamo ali che ci spingano
in mare aperto, lì dove si compie
il miracolo di luce, lo spoglio della vita
che ti respira e ti perde, come il sole d’inverno…




In un minuscolo filo d’erba
tutta la dolcezza che ci resta.
Respiriamo la vita come zolla dopo la mietitura,
mordiamo l’aria secca, la solitudine
del vento, fino a sperderci nel volo breve
di una rondine di mare.



La solitudine, liscia come gli anni
senza vento e bocci, solo radici nodose
e il groppo in gola che ricorda
il pesce sott’acqua, la sete sulla pelle.
Si compie poi la dolcezza che inonda,
la vanità della parola che non cede
alla mestizia rassicurante della carne,
al rosso del sangue e al miele,
fino al colpo finale che toglie e non dà,
al respiro vicino alla resa breve e convulso.





Ho radici che percorrono linee d’acqua,
come il vaso di Pandora tendo a scoperchiare
la vena del cuore, la perfezione di un ritorno,
la nostalgia del germoglio sotto il sasso.
E non vi è viaggio che inizi con altro viaggio,
binari in disuso, sentieri inconoscibili,
disavanzi da poveri guitti.
Morde la fame come un giorno senza requie,
sfaglia vite logore,
un declino che ha l’attraversamento dello Stige,
la caparbia bellezza dell’inverno
dentro la morte disseccata e scabra.
Ogni gesto si connette all’altro,
ogni vocalizzo-parola entra nella memoria,
la perfora, come lume che ristora la tenebra.
Dalla geometria del fango origina
la nostra prima sete.



Ci lasciamo alle spalle
un debito di radici e foglie,
le nostre prime schermaglie d’amore,
un sistemico accavallarsi di germogli,
senza la facoltà di disvelarsi, di aprirsi
in boccio alla faglia del cuore.
Resta un desiderio inesplorato
quel cercarsi, quell’esplorarsi
con la caparbietà della logica,
che s’apre all’ostinazione dell’autunno.
Cancelliamo i giorni dal calendario,
ci offriamo alla dimenticanza.
La vita che viene, dici, non è scritta
per darci la facoltà della meraviglia,
la fioritura fuori stagione, l’anelito
dell’aquila alla rupe.




Ogni cosa è realtà di assenze:
valori nominali azzerati,
persi i contatti minimi con la felicità,
ci resta la tracotanza dell’asfalto bagnato,
la grandine o l’immagine crepuscolore,
il sole a perpendicolo.
Ritmi tentacolari,
mannelli di dolore come giaculatorie.
Intercediamo a comando, sommando l’ordine degli addendi
i dividendi: la dimensione ultima strapiomba,
cerca gli appigli necessari
per trattenere le cose mai avute.
Qualcosa poi resta a segnarci il silenzio,
un fiore reciso o la sera che ci lascia
come un pensiero mai nato, (solo sognato).



Solo un abbraccio chiesto e ridato,
un piccolo legame amoroso,
la folle mestizia della notte a rischiarare
il biancore delle crepe, quando il buio
è senza riparo, una distanza dal solco
o dal binario che scinde la vita,
l’ostinazione del morso nella carne.
Ogni cosa è inizio alla sua fine,
un sole che ride al mattino e cerca
la sua massima concentrazione
nelle nuvole alte della stratosfera.