I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Come il cielo sopra Berlino
Come il cielo sopra Berlino un salto fatto di pensieri fitti nel tempo senza più tempo un cielo in cui sparire per un po’ dove un angelo dal sorriso dolce s’accontenta di guardare dall’alto tutta la tua vita e non dirà nulla e non farà nulla, non vita non morte. . . qualche volta, fra la folla, lo sai da subito l’incontro degli occhi, occhi come i tuoi appesi ai cornicioni a sfidare le nuvole con un pensiero di terra sulla punta dei piedi con questa sospensione da caduta aguzza e terribile sopra una città che ti indica il bianco o il nero…e nient’altro.
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Atlantico di tanto tempo fa
Atlantico di tanto tempo fa Nell’erica viola che digrada al mare l’uomo, in quel suo minuto eterno allarga le braccia per comprendere l’Oceano puntino nero contro il blu, niente dimora, solo bandierine puntate sulle geografie del mondo itinerari dove non abita nessuno .e tutti. cammina dentro la speranza di un attimo l’uomo del faro solo, in un arcobaleno fosforescente che gli porta l’orizzonte fra le dita, se spiega il cielo come una carta stellare sa che ogni risposta è arrotolata e che ogni casa è a forma di stella e là in mezzo, imprecisata c’è anche la sua chissà se l’ha trovata
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Polvere
Polvere Ogni goccia un granello del deserto che poi la clessidra, sai, lo zucchero dentro…solo polvere, stavano lì, pensieri cicatrizzati sul filo del tempo. Ma se ti serve l’oceano Arturo Bandini, esci, e prenditi una folata di sabbia sulla bocca perché niente rimane intorno ai miraggi non dona illusioni la polvere. Cos’è accaduto al mare ? Ti chiedi esiste, lontano, dove le clessidre sanno tempi e distanze. Esci di lì se ancora mi senti
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I nostri vecchi
I nostri vecchi - 25 aprile Nelle storie dei padri, dei nostri nonni oltre i calli della zappa fra il mais e i filari dei cavoli germogliava ogni tanto il principio di un’idea un desiderio di riscatto, di uguaglianza. Mio padre non c’è più e mio nonno fu solo un romantico socialista emblema di un mondo in fiamme. I nostri vecchi hanno resistito alle intemperie dei campi alla grandine piovuta da canne di fucile ai tradimenti assassini degli amici, hanno scritto 25 Aprile in rosso su calendari inchiostrati del loro sangue. Forse noi… no, noi abbiamo perso la guerra col presente così labilmente effimero, la continuità di riconoscere-combattere per un principio vero
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Astrazioni
Astrazioni Stando qua sui tetti sento gli occhi aprirsi su un pianto di stelle, Orione puntando a destra là nel cielo è sfumato oltre la linea bassa strizzando l’occhio a Sirio, mi dice che l’inverno è andato. Da quassù vedo meglio il mondo da quassù sogno solo se scrivo se affido alle parole un altrove, un deserto, una costellazione, un nome, perché tutto ha un posto dove stare, viviamo come scimmie in una jungla d’intenzioni in città ostili che ci somigliano senza trovare un nord e un sud d’aggancio a qualcosa di reale bellezza, i ruggiti da qui, diventano agonie lontane. Affondo in quest’attimo notturno dove l’inchiostro può scambiarsi atomi con l’energia remota di una stella, scrivo ma non dimentico di vivere
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Irene
Irene Non sarà un risveglio, Irene ma un lungo sonno sigillato da un bacio. E non sarà un addio ma solo arrivederci, arrivederci a un dopo lì dove non saranno più lutti e rosari o sangue di figli versato sulla strada o telefonate ghiacciate nella notte. Anch’io perdo qualcosa di me, oggi, domani sarà il solito domani con una croce in più nel campo ed un altro posto vuoto a tavola. Fai buon viaggio, bella Signora.
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Credo nelle nuvole
Credo nelle nuvole, nelle loro pagine, nitidamente scritte e negli alberi, soprattutto d’autunno. (Talvolta mi pare d’essere un albero) Credo nella vita come territudine, come grazia o disgrazia. Eugenio Montejo Credo nelle nuvole Ed io, se ho creduto nella morte è perché ho dimenticato il respiro delle radici. Credo nelle nuvole nella leggerezza delle foglie che formicolano vene e si stendono al vento donando l’infinitezza verde dell’esistere. Se ho creduto anche un solo giorno d’esser morta di me so d’averlo creduto perché sognavo un eternolungoinfinito sognogrigio senza nuvole né alberi né foglie Livia
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Il cielo d’aprile
Sarà Giove o il Leone, guerreggiando a trovare quel vessillo di quiete? Guardo le stelle girare a mezza giostra in quest’angolo di aprile, un rondo’ di lune strisciare sull’occhio furente di Giove non cambieranno ellittica, né saremo mai così grigi più di questa grigia penombra siamo topi su un cumulo di terra avulsa. Andiamocene via, verso Deneb sulla coda dell’aquila prendiamoci il tempo di restare immortali col pensiero, per poco. Se il Leone sopravviverà stanotte lo saprà la scienza e domani anch’io, desidero un inchiostro più leggero un’eclisse di sole in Indonesia, una cintura di tre stelle spioventi a primavera. Apro il respiro s’un davanzale di frontiera la vita già è difficle, quando sottrae non aggiunge
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Terragno
Terragno di terra riarsa e oasi improvvisate, qualcosa turbò l’aria cosi forte, così magica in quel tempo di terremoti e cembali. Ho immaginato i mulini verdi sull’acqua le mani colme, fresche le frasi, i simboli, i segni sepolti fra le dune. Si andava di passo alle nuvole aggrovigliati, come rarefatti ma a volte anche ruvidi corvi prima che il tribunale annotasse sentenze, che fregatura la gente allineata nelle brevi dimensioni, povertà e ricchezza tu a sinistra, tu a destra. Invece ci sono limbi dove stare senza mète e passaporti, senza gente di confine luoghi col sonno fra le ciglia, un suono, una parola un amore da scrivere in poesia e tutto questo è dolce, è lontano è terraverde
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Sole buio
sole buio dopo il ramo di mandorlo fiorito nell’azzurro dipinse d’oro il grano sull’ala nera dei corvi venuti a seppellirlo. Amavo quella poesia anche se era croce, adesso sto qui perché mi basta il silenzio sto qui e me ne frego di quanto sole buio intorno le voci. Fra la nebbia intravedo gli imperatori del nulla e rimpiango i miei angeli caduti
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Orologi desueti
Orologi desueti Quando ti parlo mi seguono i tuoi occhi senza più chiedermi nulla ci sono giorni in cui il sole cuoce la pelle dove sarebbe bellissimo chiudere gli occhi, semplicemente, sotto una carezza di luce col respiro a rilento ascoltare il suono del vento o il verso del cuculo che torna dalle terre dorate. Il tempo sbiadisce l’esistenza come una gomma cancella dalle dita anche l’ultimo contatto, ci sono giorni in cui quando mi parli non riesco più a chiederti nulla ché il tuo viaggio iniziatico s’e ancorato ad un tempo orfano dove il linguaggio è sfiorito fra le lancette di un orologio che non segna più il tempo
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Voi
Voi E’ il dolore che vi leggo le parole vi cadono come lacrime sul biancolatte di uno schermo e vanno per rivi, o fiumi lenti pozze raccolte o stagni immobili dove il vento s’acquatta clandestino ma brilla l'acqua come l’inchiostro imperlato s’un antico manoscritto intorpidito da gesti d’anime
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Vento di marzo
Vento di Marzo Scarabocchia il vento uno spolverìo di rosa sul viottolo fiori di ciliegio chiacchierino
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Coriandolo azzurro
Coriandolo azzurro Nel grigio affollato un coriandolo azzurro vola via carnevale dei miei occhi fiocco di danza turbina nel tocco la vita le poche volte nel concedere dolcezza lievissima carezza azzurra fra i capelli
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Da qualche parte
Da qualche parte Da qualche parte dove corre a gambe lunghe la statale oltre i campi arati della mia terra se torna la primavera saprò dei germogli dell'orzo, e delle spighe verdi del loro piegarsi ridendo al vento. Non c’è un tempo giusto per masticare un disincanto o parallela una leggerezza cristallina. Così io sono adesso, come nella spiga vita, morte, poesia, un arruffo di groppi intrecciati. Cammino senza mèta tenendo sulla bocca un silenzio colmo, ma dolce, un universo stipato di mille viaggi e guardo immobile oltre la ferrovia ciò che passa e ciò che è passato, quel punto lontano, un istmo stretto di malinconia. Ti siedi e chiudi gli occhi alla sera come fanno quelli che non vorrebbero destarsi. Intorno, una quiete di Zefiro sfiora il silenzio.
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Favola
Favola
c'è un posto che conosco dimenticato dalla gente dove gli occhi mutano in coralli e i capelli crescono rami fluorescenti e le mani diventano frutti e fiori e spighe e le gambe agili arti di gazzelle e le voci sono il vento caldo dei tropici al tramonto e le parole cerchi d'acqua intrecciati su collane d'osso c'è un posto deserto che nessuno conosce ma è lontano-lontano come un girotondo e non hai scarpe buone per girare intorno al mondo e non hai coraggio e non hai nemmeno -te- che t'accompagna così quel luogo resta in una fiaba troppo lontano immerso dentro un mappamondo
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Doomsday clock
https://thebulletin-org.translate.goog/2020/01/press-release-it-is-now-100-seconds-to-midnight/?_x_tr_sl=en&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc Doomsday Clock - (L’orologio dell’apocalisse) 90 secondi, midnight o'clock, a mezzanotte precisa spariremo polvere e cenere poi sarà la neve così candida morbidamente pulita a stendere il suo freddo silenzio sulla nostra ignominia di piccoli uomini, noi formiche ammassate dove ci faremo mancare l’aria in quell’ultimo centimetro di cielo non reggeremo la forza per entrare nell'era nuova dell’acquario né mai saremo -l’uomo che verrà- oltre la soglia del DNA nella nostra bibbia cammuffata Dio fece a sua somiglianza l’Uomo promettendogli una fine con effetti speciali multicolor persino Assenzio, la stella, nel suo ultimo splendore metterà a tacere potere e avidità
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Parole nuove
Parole nuove Quando un giorno ti vedrò arrivare con le tue gambe fatte di vento scriverò parole nuove che ti somiglino
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Amsterdam
Amsterdam Amsterdam dei vapori e delle nebbie del mercato all’angolo dei fiori lanterne rosse frementi sui canali ove trasuda ebbra la notte senza assoluzione sai di piogge sante nel ferro dei tramnvaj nei cesti di bulbi a primavera degli ombrelli a quadri ripiegati e cafè incisi nei vicoli di pietra e sei colore di fiamminghi tubetti dei pittori e dei murales osceni e sacri senza idioma mostri incauta tutta la tua varia nuda umanità
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Brusii dell’imbrunire
Brusii dell’imbrunire Ho capito che l’onda non risacca nelle immense vie del vento vedi l’albero nei suoi nudi rami sulla rètina al sol morente dita rattrappite al cielo sanguina anche ultimo brusìo di luce s’intrattengono le brine ai nodi immobile sta l'albero trafitto
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Nell’atomo rosso di un sole
Nell’atomo rosso di un sole Non c’è verso che tenga la scrittura, filosofia di pura libertà per gli esseri davvero liberi dove riconosci al primo tocco i segni di una mano disarmata priva di pallottole nascoste o lanterne melense di carta ti protegge l’infinito ti avvolge nel cadere e cadiamo semplici nell’involucro di goccia liberi come pollini appena l’acqua, sfiorando nell’impercettibile vibrar del ciglio come un tasto di pianoforte cadi nel malinconico abitare attraverso un imbroglio di strade ove l’incrocio vero è il tuo sesto senso ed inghiottendo buio vai respirando luce schiudo le mani come in un solstizio d’inverno nessuna mai fu storia di pietre
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Dalla collina un mare verde
Dalla collina un mare verde E’ un gelo di steppa l’immobilità di chi ti ignora che per certi occhi sei sempre la stessa una figura, una santa, una puttana, una che non s’avvicina, una che t’invade una caramella, un’insolente una inutile fantasia, un'imperfetta melodia una, una qualunque che per come la vedi deve andar di logica comune per quanto modesta o chiassosa sia nella poesia risiede la mia casa, in questo rinnovato silenzio amo il timido fiore, il più invisibile confinato nel sottobosco dei pensieri si accontenta del mio sguardo e così… grazie non sai da qui quanto la collina si apre nel suo verde-mare qui ho piantato alberi ovunque anche sotto la pioggia nei notturni degli orologi spaiati forse qualcuno ha capito o forse no
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Il tuo libro era bellissimo
Il tuo libro era bellissimo Strani modi di parlare ha la gente accartocciati dentro all’ 1-nessuno-100.000 collezionando podi d’ori e d’argenti ambite medaglie olimpiche da gettare al vento dopo le vittorie magra consolazione siffatta seduzione parlò bene quel filosofo un vulcano di cuori giocati a carte e quarantotto in goliarda compagnìa e lì, dentro, c’era anche il mio abbinato al due di coppe ti lascio un fiore a stella, amico mio è il fiore dell’addio per dirti il bene che stava in ogni petalo d’inchiostro e senza alcun rancore e con dolcezza me ne vado Ma quanto è vero che la parola è immensa bene, affetto, protezione ed è più fragile, se viene dal cuore e da un cuore solo, ha sempre il suo verbo da coniugare all’infinito lì ove non percepisce nebulose astrali di mille modi senza uno riconoscerne, chiaramente vede senza mai sbagliare.
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Nell’improvviso di ogni cosa che risuona
Nell’improvviso di ogni cosa che risuona E piovvero ore come chiodi e piovvero nuvole acide mentre il fulmine seghettato rideva nel morso della vita. E tu com’eri, creatura insonne fra il grano e la lavanda viola il cordoncino di seta smarrito sul sentiero il veleno nascosto nell’anello la chiave di lettura serrata nei pugni immortalato dentro i miei canti in un dedalo d‘anni lunghi come il mio affetto nell’improvviso di ogni cosa che risuona, stai. e come Provenza io più non sono ho camminato senza più trovarti ed ora, fuori dai teatri a recita degli applausi finti mi innamora l’ombra della luna, ritrovo l’eco giusta, l'aria pulita luce di purissimo cristallo ogni pulviscolo nei vicoli
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Rivisitazione sulle lapidi di Lucius e Aner
Rivisitazione sulle lapidi di Lucius e Aner Dove sono Lucius Atherton e Aner Clute, il seducente rubacuori e la peccatrice di Spoon River? Essi dormono sulla collina di Spoon River… LUCIUS ATHERTON Ho la mia croce sulla collina di Spoon-River Io, Atherton Lucius di Spoon l’attraente fante di cuori che mai pensava d’invecchiare qui accanto a me giace Aner Clute la prostituta (ma chissà se mai lo fu l’inquieta Aner) indubbio è che le promisi di sposarla ma il mio riso sapeva di menzogna perché dell’amore amavo l’idea e invero tutte, inclusa Aner, quando mi scoprii la prima ruga, pensai - questo è un effetto ottico… - ma lo specchio irridente mi rispose - guardati Lucius, la vecchiaia menzogna non conosce - Col tempo poi le lettere mi sembravano sfocare Perché dovette capitare proprio a me ? Dopo -quella cosa-, sdentato e ormai ingrigito più nessuna mi guardava con incanto nemmeno la cameriera del Mayer’s restaurant dove a pensione m’ero trasferito. Il passare rapido del tempo ho rinnegato per trent’anni ancora d’illusioni Io Lucius Atherton, il dismesso don giovanni di campagna, ed ora ho una lapide sdentata e sciatta come me, da qui non passa mai nessuno che possa ricordarmi giovane e bello nei giorni lievi dell’estate ANER CLUTE Fui di Spoon-River la vergogna ma a parlare era solo la calunnia perché mai io finii sulla strada, ogni sera davanti al mio cancello trovavo Lucius ed Homer Clapp in verità io amavo il primo dei suoi gesti l’eleganza e del suo riso la menzogna un’estate mi chiese di sposarlo (o forse io lo immaginai ?) ma Lucius si recava ai matrimoni che non erano mai i “suoi “ giaccio qui accanto a lui ogni giorno qualcuno porta fiori alla mia tomba ma nessuno può sentire la mia supplica - date a Lucius una foglia del suo cedro chè possa riposare estati lievi, sotto l’ombra dei suoi fragili rimpianti –
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Il vento alle vele
Il vento alle vele Il vento alle vele brucia l’anestetico compresso sulla garza delle labbra ognuno governa il suo vascello fra tempeste e bonacce e nei notturni andanti la luna scende al mare a bersi della visione il sogno. Siate poeti di una setta estinta sciolti all’albero maestro in balìa della luce delle stelle in balìa d’un soffio di cielo, albatros raminghi dipinti ai voli oltreconfine. Certe immensità non tornano spumano via come onde fra le onde
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A margine di riga
Declinando, quando il sole chiude la corolla ai fiori i profumi rinserrati in sé. Sopraffatta dall’afasìa che torna conto i passi del gambero la mia lingua a corto di traduzione una deriva senza bagnanti tiene insieme i drappi delle labbra e vanno, a profusione con l’idioma dei balbuzienti idioti i miei insetti di pensiero che al sole depongono uova come larve omissioni, parole, verità. Declinando ancora un passo sotto a margine di riga sotto il cumulo dello schermo luminoso osservo un gesto (ritirato) era forse un “sol” di polpastrello un tocco di poesia una sottile piuma alata.
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Rubo quello che mi piace
Rubo quello che mi piace Nascondo le dita che vorrebbero rubare è innocente rubare qualcosa nei giardini di chi non coltiva fiori di plastica, se domani ti manca un tulipano pensami
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Il tempo non porta cicatrici
Il tempo non porta cicatrici Questa candela ti ha parlato di me ancora è un lume nel buio e se la cera consunta la renderà minima basteranno tutti i ponti, i prati, i deserti che abbiamo attraversato con le nostre fughe di parole le nostre figure immateriali ombreggiate di sole e pioggia. Tu eri lì ogni sacra stagione a dipingere un ovale perfetto del mio viso sconosciuto e le gentili Madonne, e i Cristi illuminati dalla tua grazia hanno accarezzato i gesti della tua anima. Noi ci siamo solo seduti accanto così giovani e... sorridi ?, nella penombra d’angoli e spine un posto inacessibile ma bello come te e saremo ancora lì, senza cicatrici, su un mozzicone spento di candela ancora in una zolla di terra nascosta nell’altra parte del cielo.
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Colletti bianchi
Colletti bianchi Questa idea della felicità tappata negli spiragli inattesi è appena un soffio schiusa fra le pieghe delle cose, lo vedi anche tu ch’è solo una libellula sulle dita un impalpabile afferrare per non precipitare dentro gli orologi fermi sulle piazze declamanti gli orologiai del nulla. Che paesaggio la mente… scale, finestre, e gradini
e da ognidove un miraggio, e che scialbo concetto ho io dell’aristocrazia sciacalla e funzionaria che manda avanti calcoli, opportunismo, e amici degli amici privi di talento e viaggi dentro un vero centimetro di fede. Scendo alla prossima dove l’aria è periferia dove lo sguardo sprofonda oltre il semplice guardare
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Gli occhi dei piccioni
Gli occhi dei piccioni I numeri, cosa vuoi che siano i numeri un cruciverba di logiche nodi d’esistenza. Quando gli antichi incrociavano le stelle risolvevano equazioni più semplici del nostro linguaggio, pensa a un alfabeto da imparare ad occhi chiusi dentro un giorno qualunque, di timide intenzioni come fosse il primo giorno di scuola ove accendere una luce. Noi, qui, in questi deserti raggrinziti di smog abbiamo gli occhi dei piccioni la sorda malinconia ripresa in volo da vite scese dal cornicione
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900 e la bellezza
La bellezza è una ferita Un giorno un chiodo cade da una parete... fran, ha ragione lui, l’autore. ...fran... cade. Naturalmente. Ha ragione lui. Un giorno un chiodo cade e non sai perché debba essere proprio quel giorno ma è così. La bellezza ferisce anche quando si porta via chiodi e quadri. E tu non sai più farne a meno. Come quelle parole che appena bastevoli mancano sempre di un soffio il centro perfetto. E che sono lì a ricordarti che sanguini violentemente sotto il sole incurante di averle sentite sprofondare come una lama tagliente, sottilissima, dentro la sensazione calda delle viscere. Non ha gioia perfetta la vera bellezza.
È feroce, insopprimibile, indelicata, è … lieve. Ecco perché devia da un’estetica comune. Le parole sono rami che invitano l’aria, la bellezza è un sogno d’aria, un senso che non ragioni. Che accogli come ti prende. La bellezza. La bellezza, sì, è una ferita, una macchia di papaveri nel prato che dilaga nei pori della terra in modi indiscreti e profondi, acuminati, paradossalmente fragili. Un giorno ti volti e capisci che non puoi più farne a meno, che la sai finalmente riconoscere, ha un sapore, un colore, un odore, una presenza nei capelli profumati della ragazza che ti viaggia accanto in tram, nell’ombra di due piccioni intenti a tubare sui fili elettrici della tua città. E se ne sta nascosta sotto una grondaia intrisa di pioggia, rannicchiata, smarrita dal gran frastuono del mondo, gli schiamazzi di chi passa, la violenza di chi calpesta le orme degli altri. Se ne sta lì e tu ti volti, così, improvvisamente e capisci tutto. Tutto quello che c’è da capire senza una parola. E ti ferisci, non puoi far altro perché cominci ad amarla mentre la perdi ancora.
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Trattienilo questo fanciullo
Trovassimo anche noi un puro, discreto, sottile lembo umano, una nostra fertile riva tra pietra e corrente. (R.M.Rilke – La Seconda Elegia - da Elegie Duiniesi) Trattienilo questo fanciullo Trattienilo questo fanciullo, latore di un’anima lontana come l’eco di un’urna chiusa lui risponde trattienilo nel peso indescrivibile dentro la cavità di ogni vena viva, lui è quel piccolo adolescente smarrito in cerca delle sue lusinghe soavemente arrotolato nel pensiero pensato morbidamente morto in sé inquietamente Io amo questo fanciullo morto nelle sue inguaribili convalescenze impassibile di colori falsati, bianco tappeto di un invernale destino agli incroci degli sguardi straniti solo miei attòniti Se lo potessero vedere fra la platea dei morti recitanti gli assegnerebbero il sorriso stordito degli angeli di coloro che la felicità confondono protesa verso un altro mondo bellissima e dannata felicità come un dono inatteso appeso oltre la forca del tempo
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Crisalide
Crisalide
dieci cicatrici preziose e tingono di vero l’illusione che tu sia da qualche parte, rosari luminosi per la musa che oggi indossa le tue impronte io non sono niente, anzi dovrei scusarmi ora che la farfalla non c’è più, e tutto si trasforma. Ma tu, come vivi ascolti ancora il suono delle parole gli incubi la notte dove ti ripari d’inverno, l’inverno della tua tristezza... Hai acceso il fuoco ? Senti freddo da una eternità e il tuo fiore protesta. Stavi la’ fuori a guardare lo scempio delle tue ruvide amarezze "perché da me non può nascere nulla nemmeno un fiore" erano questi i diluvi senza fine le negazioni, la pioggia battente A cosa serve la poesia? A salvarci, a salvarti da te, pensavo. a ridarti un fuoco, un segno, dovresti tornare a casa, sai mettere due quadri, misurare l’ampiezza del giardino e delle braccia accendere un lume dietro le finestre, vivere ugualmente legando le ossa frantumate incollarle alla tua inusitata dolcezza compromessi di vita per uscire dai diluvi. Il mare gonfio è un’onda di schiuma improvvisa che ti prende la vita, ti sbatte altrove ma non ti uccide. E se per caso scrivimi un saluto se ricordi il mio nome.
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Il marchio di Caino
Il marchio di Caino Mio nonno Caino uccise suo fratello in un campo di grano fra le spighe insanguinate portiamo in faccia il suo dna le nostre cellule ricombinate e ora ne ho capito il segreto ma forse voi pensate che Dio sia giusto… Nephilim caduti o Cherubini spettri di un cosmo centrifugato credenza nomade fra le parole di una Bibbia di cui ho perso il segno questa nostra mortalità esposta, ci marchia nella condanna del nascere
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Certe mattine come sono
Certe mattine come sono Alla pioggia che ingrigisce l’asfalto in un velo sfrangiato di bitume agli ombrelli a scacchi rossi vuoti d’orbita nei passi, come sono pallidi gli autunni di sfiducia alle parole di poca fede dietro le sacrestie del cuore, come sono sfocate le verità dei fari sulla lente storpiata del vetro, e gocciola e va lenta quando bussa sul parabrezza, ritmica
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Archeologist
Archeologist Scavo fra le rovine di un tempio pagano con la mia penna fuori tempo una predestinazione, ho pensato, ma perché io ? Vengo dal pipistrello, spirito guida e non lo sapevo prima di aver smarrito il senso del tempo prima di aver sostato nell’ipogeo ascoltando in un perfetto silenzio l’insieme delle loro storie 22 marzo 2018 Archeologist – Livia
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blu notte
Blu notte Randagi della luna adepti alle straziate fughe in un quarto di finestra accesa a notte
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dal Cinese
dal Cinese Primavera di chi non ha niente di chi ha camminato i confini, e quando son tornati erano diversi, polvere e sassi frantumati dalle fionde malelingue e quel riso primavera che figurava bene e meglio, nel menù di un cuoco per finta cinese riesumato nel piatto del giorno, quando il riso lo nascondevi in una manica piega impercettibile magìa? O vicino all’angolo della bocca, la tua bocca bella di parole che ricordavano la pioggia malinconica o il pianto di chi è solo come te, delle volte penso se hai ancora quell’ombra di carezza
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Frastagliati
Frastagliati Eppure ti ho baciato rivadimare nella tua linea frastagliata col mio linguaggio sbagliato ho accettato il sale sulle labbra le tue ferite a cielo aperto ma oltre dietro l’invisibile si aprivano vene e sorgive e fontanili di luccichii dorati come illusioni. Torno sempre a cercarti con la carezza di un’onda più leggera. Silenziosa.
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Ungaretti e i suoi fiumi
Ungaretti e i suoi fiumici guardava dentro scopriva se stesso in fondo se l’acqua portasse in ogni rivolo la vera goccia l’unica sacra ragione per cui siamo qui sapremmo riunire estuari e affluenti attraversare canali sconosciuti come fanno le farfalle per parlarci di quell'altra vita ostinati a rimanere nel buio di una livida luna abbiamo dimenticato ogni memoria d’acqua e questi fiumi gutturali, smemorati hanno una voce che scende a valle vuota
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Le vele
Fino a quando furono di carta pareva avessero le ali visitando il nord e il sud degli orizzonti per me, un viaggiare verso le isole vergini un nuovo mondo sospeso fra le spezie delle americhe perdute, sopra i legni corrosi dal sale, vascelli di carta, di parole e schiume le sentivo salire dalle dita, queste fragili onde d'inchiostro avevano la presunzione di portare un poco di felicità
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mezzogiorno di cuoco
Punti d’arrivo, bilanci i panta rei lasciati da una filosofia non scritta ci penso domani che tanto domani arriva burrasca o tempesta spaghetti al tonno, acciughe, capperi, e fiamma bassa per il sugo un tablet, infinito mappamondo oltre i confini del tavolo sempre questa assurda voglia di parole, - per come sanno palpitare, certe parole - che azzurra il mio rettangolo di cielo mi guarda dai vetri, un po’ nuvolo e un po’ grigio fors'anche un po’ infinito, ottobre malinconico mentre passa il giorno, il mezzogiorno.
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