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Raccolta di pensieri di Ivan Pozzoni
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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L’area di Broca - Questionario Poesia 21

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Carmine Tedeschi - Qui gli Austriaci [...] (2015)

Non ha peli sulla lingua questo poeta dissacratore, anche se c’è rimasto ben poco da dissacrare, dato che il vero sacro è espatriato, insieme col sacro vero, da un bel pezzo. Ma se non proprio il sacro, da sbeffeggiare ci sono ancora torme di semidei terreni, uomini di soldi e di potere che si credono padreterni e albergano in facsimili plastificati di paradisi terrestri, tipo le Istituzioni Europee, oppure gli uffici di Mediaset, oppure le più blasonate Case Editrici. «Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni,/ la Merkel tuona da Bruxelles minacciando risoluzioni/ del Consiglio Europeo, in cui siedono retribuiti in modo sovrannazionale/i vari prestanome dell’una o dell’altra multinazionale/…».Né si salva la folla dei conformisti dell’intelletto: gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti, verso i quali si sente rabbiosa pure l’eco di una sorda guerra generazionale: «i dati sociologici ci dicono che s’è alzata l’aspettativa di vita artistica,/magari con pasticche di Viagra a sbloccare afflussi alla vena conformistica,/e noi ‘generazione dimenticata’, a quarant’anni vagiamo rannicchiati in posizione fetale,/accompagnati da cinquantenni e sessantenni in piena crisi puberale». Neppure i versi rivolti agli amici smettono la veste fintocinica e strafottente: «Per una sera abbandoniamo il sarcasmo/e aiutami a continuare a sbattermene di tutto». Come si vede, della poesia che conosciamo c’è rimasta solo la rima che funziona anch’essa da flagello (soprattutto in cauda venenum). Quanto al resto, è difficile risalire a qualche altra fisionomia poetica consacrata da modelli. Ma non è proprio questo che cerca l’autore?  [recensione a Qui gli Austriaci sono più severi dei Borboni, Limina Mentis, 2015, sulla rivista Incroci].

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Massimo Consorti

Un ultimo saluto all'amico Massimo Consorti, direttore di UT e letterato.

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Libertà di espressione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Ognuno scriva ciò che desideri]

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Nazario Pardini - Cherchez la troika (2016)

   Un messaggio ampio, prolungato, mai scarnito, apodittico, quello di Ivan Pozzoni. Si può senz’altro dire che la sua poesia appartiene a un rituale nuovo, lontano dalla classica positura, da un verseggiare fatto di fiori e rosette affidati a un linguismo di sinestetici accostamenti. I problemi si accavallano nel suo poema, si fanno cocenti nell’intenzione  di delineare un sociale da correggere e rivedere. Si apprezzano da subito i titoli, gli incipit delle sue poesie che ci svegliano, facendoci sobbalzare, inquietandoci, e sottraendoci alla nostra indifferenza: I morti di fame stanno nelle accademie, Pane al pane, Assalto ai forni, In vino vanitas, All’osteria dell’amore solido, Mamma, sono un autistico, Il medico dei matti, Equitaglia, fino a L’epigrammista menefreghista:

 

“Per farti divertire, lettore sbracato sul divano

devo inventare senza sosta rime da sciamano,

non bastano al feroce epigrammista assonanze cuore – sole- mare, –

 desideri torcermi il cervello con rime tipo gong/ sarong o bordeaux/ trumeau,

ma, credendo  di mettere i tuoi tredici neuroni in un caveau,

ricevi, inaspettatamente, in cambio, un radioso “vaccagare”.

 

Non c’è altro da dire: un realismo da pane al pane e vino al vino; o meglio, da “scrivi come mangi!, e non ti nascondere in virtualismi letterari di sapore arcaico”.

Modernità a tinte forti, dove la ricerca del verbo si incanala in un fiume che talvolta scende nel sottosuolo come un torrente carsico,  finché scopre un’apertura, vede la luce, brilla e scorre in superficie; va impetuoso portandosi riflessi di sole e ombre di selve. Ma l’acqua che fluisce è limpida e chiara, e nella corsa fa trasparire la varietà cromatica dei fondali; l’energica freschezza.

[recensione a Cherchez la troika, Limina Mentis, 2016, sul blog Alla volta di Leucade]

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Segnalo la dipartita di una grande collega

Segnalo la dipartita di un grande collega, Brunello Robertetti, spentosi, ieri, all’età di 98 anni. Indimenticabili i suoi frammenti di ironia dadaista:

 

L'amore si può dire in tre maniere, io credo:

amore,

amore,

e una terza che, adesso,

non mi viene in mente.

 

 

Cosa fai pazzo scienziato!

Perdi tempo a mescolare i genetici,

mi fai la fragola pomodoro,

ti accanisci sul melone e sulla melanzana,

ti attardi sull'insalata e sulla carota come un dio impazzito,

ma quanto devo aspettare 'sto gelato di pollo?

 

 

Tu farfalla volteggievole,

la tua vita dura un attimo,

dalla sera al mattino,

poche ore per fare un bilancio critici di chi siamo,

cos'è la vita e per parlare un inglese scorrevole,

un attimo fuggievole,

uno sbattito di ciglia e proprio sul sugo del mio rigatone ti vai a appogia'?

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Distacco Cavalli di 228 lunghezze. Scarricatemi: è aggratis

http://www.poesia2punto0.com/downloads/download-info/quaderni-n-65-ivan-pozzoni/

 

Distacco la Cavalli di 228 lunghezze. Scarricatemi: è aggratis!

 

I.P.

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Marco Melillo su Ivan Pozzoni

Ecco un poeta metropolitano, capace di scardinare le roccaforti del pensiero angusto e dominante, che vive il lavoro per ciò che è: l’intensa attività di coscienza che non risparmia a sé stessa la causa delle ferite e non si assolve, soprattutto, di fronte alla dissoluzione agogica dei sentimenti umani, a questo loro essere privi d’espressioni autentiche per diffidenza e per paura, ma anche per mera superficialità. Di fronte alle catastrofi, ai rumori, anzi attraversandoli, Ivan Pozzoni diventa un fiume in piena, tirando fuori decisamente ciò che è scomodo pensare in questo tempo di crisi esistenziali trasmesse di genitori in figli e viceversa. Così, mentre noi rischiamo di impazzire tra contatti veri e falsi, tra tragedie annunciate e consumate, tra comunicazioni virali e virtuali, il poeta conserva la sua voce e l’eleva, a buona ragione cercando tra i quotidiani disastri un fine che non attenda al generale imbarbarimento, al comune sciacallaggio perpetrato in nome dell’apparire. E sono davvero gli uomini e le donne che ci passano accanto, attraversano la strada, sfiorano, intanano in esistenze disperanti i personaggi messi a fuoco. Nella loro miseria esposta, per di più, al pubblico ludibrio.

 

«La solitudine del giocatore di videopoker

non è spezzata dal tinnire delle monete anonime

infilate in un bicchiere cartonato di Coca Cola,

schiacciando, schiacciando, schiacciando

in balia di combinazioni programmate a casaccio,

abbacinata dagli effetti grafici e sonori,

che ricordano rumori e luci di una giornata di Natale.

La natura ride dell’innaturale scontro tra uomo e macchina,

uomo contro macchina, macchina contro uomo,

condannandoti all’atarassia di gesti stereotipati,

liberando endorfina ad ogni tua impronta

depositata sui tasti dell’indebitamento economico,

e tu stesso ti isoli, schiacciando e schiacciandoti,

dalle origini sociali del tuo malessere:

abdicazione dal tetto coniugale, mobilità e

disoccupazione, depressione da raggiungimento

dell’età pensionabile o cancro.

Resta l’immagine delle vetrate di un’oscura latteria

immersa nel cemento di un’esistenza cittadina,

d’un uomo, senza amore, in cerca di fortuna a Jacks or Better

o di un rimedio contro i malanni della noia,

d’una rovina incombente, come una corona scura

di corvi, a circondare il tuo capo incanutito,

abbandonato a naufragare, solo, nella tempesta

tecnologica autorizzata dai monopoli dello Stato»

(da “Patroclo non deve morire”, deComporre edizioni, 2013).

 

Con Ivan Pozzoni possiamo parlare, tornando a quanto annunciavamo inizialmente, di forme espressive che si situano al di là di quelle de-strutturate, macerate nella filosofia e nell’intuito, frammentate dalla oggettiva difficoltà di un dialogo ma libere nel loro rifiuto di stereotipi e persino della metrica talvolta. Ama le provocazioni, dimostra di detestare il linguaggio musicale fine a sé stesso, intende la discussione etico/politica come autentico progresso o suo veicolo. Interessantissime e centrate su questi ragionamenti sono le testimonianze riportate in “Il guastatore (Cocktail Molotov)” (edizioni CLEUP, 2012) e che vedono quali protagonisti il poeta-filosofo, Giorgio Linguaglossa ed Ennio Abate nella premessa al testo, da cui abbiamo scelto di proporvi “Intervista ad un morto ammazzato”:

 

«Il comitato di redazione m’ha affidato un incarico strano

correre, filosofo in bicicletta, lungo le piste ciclabili di Milano

nella speranza di sottrarre all’anonimato

l’intervista ad un morto ammazzato.

Cercando il cadavere d’un bandito,

la morte dell’uomo comune non è fatto gradito,

mi rifugiai al fresco d’un deposito mortuario,

interrogandone ogni misero affittuario,

e mi imbattei nel disdicevole pallore

delle incallite spoglie d’un rapinatore.

– Perché sei morto ammazzato? -

chiesi al colpevole dell’antiestetico reato,

– non sei riuscito a farla franca

dopo la tua rapina in banca,

finendo vittima d’una revolverata

esplosa dalla guardia giurata? -

– Più che l’effetto d’una ferita -

narrò la salma risentita,

– fu la coscienza d’aver subito furto

che mi causò morte da infarto,

essendo vittima dello spavento

del rialzo dei tassi del 30%! -

Chi, abituato ai miei versi, attendeva una storia indigesta

troverà, in conclusione, una morale anticapitalista:

l’intervista a un morto ammazzato, a volte, chiarisce tutto

sulla difficoltà di distinguere tra vera vittima e vero farabutto».

 

In vero la società, l’attualità sono sempre in primo piano. Da sedimenti riaffiorano pezzi di maschere bruciate, siano esse di matrice filosofica o compiutamente teatrale, in riferimento agli esiti (non già agli intenti). Ma in questo “teatro”, la consapevolezza arriva a tenersi in equilibrio e ad imporsi, diventando una risposta a certi crimini efferati del costume, alla prepotenza di un sistema che vuole tenere soggiogati gli uomini e le donne al consumo, come indice generalizzato di umanità disumana: «Fanciulle d’ogni tempo e d’ogni momento / contro ogni istanza educativa / disobbedite a chi, diavolo moderno, / dall’alto delle cattedre, dall’alto dei castings / radiotelevisivi, dall’alto di una scrivania aziendale, / innalzi i vostri voli da usignolo / ai bassifondi dell’inferno» (da “I bassifondi dell’inferno”, in “Scarti di magazzino”, casa editrice Limina Mentis, collana Ardeur, 2013). La precarietà del tempo. La mancanza di lavoro, di prospettive, di speranze viene ripresa dall’autore, e trasmessa in un dettato che non singhiozza, ma a tratti fa rabbrividire per il realismo che afferra. Tutto ciò riguarda in primis le relazioni interpersonali che stimolano il nichilismo, che espongono ad autentiche gelate il poeta. Di questi e d’altri mali egli è cosciente interprete, non solo spettatore. Per questa via il canto fa del dolore, nella sacralità del lamento, l’ineludibile approdo delle visioni che descrive.

 

«Passando in auto fuor dal cimitero,

città nella città,

affitti bassi da scarso acquisto,

ci siamo accorti come non tutti i cari estinti

abbiano compreso d’esser morti.

Urla, lacrime e sussurri,

col mite borbottìo dei men buzzurri,

rincorrono voli di farfalle,

simili alla monotonia costante

dello scolorir d’un vecchio scialle.

C’è il vecchio maresciallo dei carabinieri

che, non ancor abituato agli stranieri,

chiede a gran voce, sull’extracomunitario,

duri divieti di cippo funerario.

C’è la fanciulla, spirata adolescente,

che passa la giornata a non far niente,

tappezzando a foto di giornale

i muri della sua stele tombale.

C’è il maniaco, fresco di cassa,

che, ancor non arresosi alla fossa,

vaga narrando a tutti com’è bella

l’orrenda vista della sua cappella.

C’è la ninfomane in tuta da tennis

presa a saziarsi di rigor mortis

cercando di sfruttare, con disinvoltura,

i vantaggi propri della sepoltura.

Perché – mi dite – è inverosimile che vivano i defunti,

in barba ai beccamorti,

se voi che v’ostinate a dichiararvi vivi,

vivete come foste morti?»

(“Mortacci”, da “Carmina non dant damen”, editore Limina Mentis, collana “Ardeur”, 2012).

 

Molto di rado accade di trovarsi, come nel caso di Ivan Pozzoni, di fronte ad un poeta “militante”, ad una persona attiva per sé e per gli altri con lo scopo precipuo di diffondere la poesia (e non solo), di portare alla ribalta nuovi autori. È probabilmente l’altra faccia del suo impegno civile a favore della cultura e delle sue profonde corruzioni filosofiche, dei suoi testardi anni spesi a credere che, in questo paese, a dispetto di larga parte di editoria fin troppo cosciente del sudiciume che propina, sia necessario oltre che di buon gusto non apprendere solo dalla rovinosa scia del protagonismo a tutti i costi e dell’estetica macabra dei luoghi comuni l’essenza delle cose (o ciò che viene narrato e scritto in modo luminoso). 

 

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha scritto di filosofi italiani di Ottocento e Novecento. Allo stesso tempo ha scritto di etica e teoria del mondo antico. È direttore de L’arrivista (Quaderni democratici) e curatore di diverse antologie contemporanee. Le sue raccolte di versi sono numerose. Per C’è vita su Marte abbiamo letto: “Carmina non dant damen”, “Il guastatore (Cocktail Molotov)”, “Patroclo non deve morire”, “Scarti di magazzino” [commento di Marco Melillo, Interroghiamo la Poesia – Ivan Pozzoni, i bassifondi dell’inferno nel nostro tempo, sul sito C’è vita su Marte].

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Claudio Damiani - Patroclo non deve morire (2013)

«Ho letto il tuo libro. Anzitutto mi piace l’osservazione che hai, che è quasi da narratore (che io ho sempre invidiato, per come questa osservazione abbia la capacità di distrarci, occuparci) e come questa osservazione frequenti i luoghi comuni, e li cerchi e collezioni anche, con pazienza di antropologo, o sociologo, ma al tempo stesso osservi con naturalezza, con verità. E dice ciò che osserva. Più che a Cecco, ho pensato a qualcosa di molto milanese e ottocentesco: la scapigliatura. A volte sei un po’ naif, ma è anche, a volte, per questo tuo amore dell’800, o antinovecentismo innato, forse. Ci sono testi però per niente semplici, come Non mi ci trovo, L’impiccato, La solitudine del giocatore di videopoker, testi ben costruiti e solidi. C’è vitalità e libertà, desiderio di comunicare, e ritrovare un lettore, rischiando di essere semplice, e facendo bene a rischiare. Ho pensato a Esenino [Sergej Aleksandrovič Esenin], anche» [commento di Claudio Damiani a Patroclo non deve morire, email 16/06/2014].

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Franca Alaimo - Qui gli Austriaci [...] (2015)

Che funzione ha la rima nella scrittura poetica di Pozzoni così ferocemente febbrile, se non quella di conservare attraverso una volontà, sia pure ironica, di musicalità spesso così irta e selvatica, l’elemento utopico, se non addirittura il sentimento dell’utopia? E quale effetto egli si immagina di suscitare nel lettore che, dopo avere sentito un tumultuoso ed irato susseguirsi di parole, si trova di fronte ad un elemento così ‘tradizionale’ per quanto lacerato al suo stesso interno? Voglio azzardare un parallelo e sostenere che in ogni testo Ivan ripeta in modo molto personale e del tutto inaudito,  il cammino dantesco dagli inferi del mondo attuale, con i suoi vizi e mali e indicibili storture e crudeltà, alla segreta visione di un suo rinnovamento catartico improbabile ma non impossibile, veicolato verbalmente da una eco di suoni che ritentano una qualche armonia. Non gli mancherebbe nemmeno la donna-angelo (Ambra nunziante d’incondizionato amore) a fargli da guida in questo cammino quotidiano, perché una cosa è certa: è qui, sulla faccia della terra, che la ricchezza viene banchettata per la sazietà infinita dei potenti e non ci può essere riscatto per tutti gli esclusi dal convito, se non quello di rovesciare hic et nunc quella mensa e scacciarne i pochi invitati, senza ricorrere al convito mistico di speranze ultraterrene. Con queste poesie Ivan Pozzoni si aggiunge alla lista dei tanti poeti cosiddetti maledetti,  che hanno sempre suscitato scandalo e paura con i loro versi sovversivi. Di fatto, proprio essi sono gli uomini e, di conseguenza, i poeti più puri, quelli che sono sciolti da ogni sistema ideologico, da ogni ordine politico-sociale precostituito, da ogni interesse di mercato e brama personale di successo, e mettono la parola al servizio del bene pubblico, offrendo ai lettori l’arma delle idee. Se mi si chiedesse di accostare a qualcuno di questi poeti Ivan Pozzoni, senza dubbio farei il nome di Lautréamont, le cui poesie furono così a  lungo gettate nell’oblio per la loro virulenza espressiva. Certo è che, in passato,  ogni volta che la parola non si uniformava al pensiero dominante della classe al potere, essa era perseguitata e ostracizzata. Forse la cosa più triste della società contemporanea, a differenza di quelle che ci hanno precedute in cui il poeta “bello di fama e di sventura” veniva inviato in esilio e così offerto con le stigmate del ‘santo’ e del ‘sacro’ al pubblico dei lettori, è che la percezione etica delle cose si è talmente abbassata che un libro come questo può essere ignorato non per precauzione e difesa, ma per inerzia e vuoto morale, per disinteresse nei confronti dell’arte e dell’artista in genere, tanto più  che, scegliendo quest’ultimo di tenersi lontano da qualsiasi gruppo o consorteria editoriale, firma già da sé la propria esclusione. E, se è vero che nel nostro mondo super connesso esistono altre vie per diffondere il proprio pensiero, è anche vero che nel mare della rete tutto conviva in un’insidiosa poltiglia e una sorta di grande fratello accolga nel suo ventre ogni parola, digerendola, se consona,  e vomitandola se è amara. Eppure un libro palingenetico, come quello che ha scritto Ivan Pozzoni, ha, a mio parere, una possibilità di “eternità” maggiore, in quanto rappresenta un codice morale, che, pur scaturendo dall’analisi  delle condizioni di una data società in un dato tempo, è destinato a scuotere la coscienza di ogni uomo che si chiami uomo, per sempre. Lo stesso effetto fa, per esempio, la lettura di un romanzo come Voyage au bout de la nuit di Louis-Ferdinand Céline, al di là, certo, di tutte le implicazioni ideologiche a cui continua a prestarsi. Di Céline un esperto estimatore come Stefano Lanuzza  (Céline della libertà, Stampa Alternativa) fa questo ritratto che bene si potrebbe adattare all’autore di Qui gli Austriaci sono più severi dei Borboni:  “È un outsider e irregolare, un atipico e anomalo questo scrittore sempre difficile da incasellare”, come anche questo giudizio: “Forse, meglio dei sociologi, è un lucido pessimista (…) con la velleità di essere più altamente morale, a sollecitare il superamento degli ideologismi sempre vanificati da quelle negatività che nella natura umana appaiono immutabili più delle divisioni tra le classi: egoismo, superbia, invidia, avidità, avarizia, viltà, paura, stupidità, volontà di dominio…tare che conformano gli individui e impediscono il cambiamento delle condizioni di vita provocate dalle ingiustizie del potere detenuto dai ricchi”. In questa eternità della parola, vera e libera come la sua, lo stesso Pozzoni  mostra di avere fede (e, se anche fallisse ogni azienda elettrica, l’arte continuerebbe a brillare), nonostante la democrazia dell’amplifon, o l’arroganza dei dementi / che alzano la voce con i deboli leccando i culi dei potenti, nonostante domini il regno della dissoluzione di ogni forma poetica. Per raccontare la sua rabbia che distrugge per vocazione di ricostruire, Pozzoni (e questa linguisticamente è un’operazione interessante, non nuova, ma sempre difficile e coraggiosa) impasta insieme il linguaggio giornalistico, il turpiloquio, la terminologia specifica del web, espressioni del cosiddetto politichese,  modi di dire del parlato, ritenendo che nessuna parola debba restare esclusa da questa babele immorale che è l’attuale compagine sociale. Parole pronunciate con tono ora dispregiativo, ora ironico, ora aggressivo, ora dolente, con pochi spazi lasciati alla tenerezza dei propri sentimenti, come quando fa entrare in scena la donna amata. Accanto a lei c’è la donna-poesia, anch’essa amatissima: per quest’ultima il poeta soffre più di uno scoramento, forse perché sente che è l’espressione umana più votata al sacrificio di se stessa, la più violentata, la più offesa, la più soggetta alla menzogna.In fondo, tutta la scrittura di Ivan è un urlo di rabbia contro l’inautenticità dell’umanità odierna e del suo modo di raccontarsi attraverso una sorta di ostinato, imperdonabile tradimento della verità [recensione a Qui gli Austriaci sono più severi dei Borboni, Limina Mentis, 2015, sul blog Alla volta di Leucade e sul blog Poetrydream].

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Franca Alaimo su Ivan Pozzoni

Mi sono messa a leggere i tuoi libri Patroclo non deve morire e Carmina non dant damen, così come sono abituata a fare, senza sosta, bevendo a pieni sorsi la poesia. La tua è una poesia che si confronta con coraggio con il dolore, pubblico e privato, denunciando, dolorosamente denunciando, il male, la corruzione, lo sbriciolamento del bene e del senso della comunità, ma anche, cosa non meno grave, l’appiattimento verso il basso, la costrizione della coscienza, l’omologazione, l’attentato nei confronti della cultura come mutamento, diversità, creatività, libertà. I tuoi versi sono forti e martellanti, si sostanziano di un plurilinguismo efficace, che ingloba la lezione dei classici e quella dei contemporanei, che affianca al gergo e alla lingua mass-mediale, quella degli affetti e delle emozioni. Al di sotto degli spigoli, del sarcasmo pungente, del disgusto, si apre, infatti, il tuo mondo di valori, e perfino la tua autobiografia: l’incontro con l’amore che de-lude e salva. Si riconosce la tua singolarità di poeta e di uomo sulla scena contemporanea della società occidentale, malata e asfissiante, in cui la politica nazionale non riesce più a farsi garante dei bisogni materiali e non dell’uomo; in cui l’economia sovranazionale è diventata la peste che uccide sogni e mantiene tutto e tutti sospesi in una precarietà ideale, materiale e progettuale. É una poesia la tua che rivela, insomma, una profonda energia morale ed espressiva, una tromba che squilla nell’Apocalissi per ridestare i morti-vivi, quelli che hanno rinunciato alla propria identità e si lasciano avvolgere in un lurido sudario comune [commento di Franca Alaimo a Patroclo non deve morire e Carmina non dant damen, email 16/05/2014].

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Francesco Piselli - Qui gli Austriaci [...] (2015)

     «Ho ripassato piú volte gli Austriaci che non è cosa da leggersi corsivamente, va studiata passo per passo e non si è ancora finito. Approssimativamente: sono davanti a un’opera del ciclo classico, nel genere dei Satirici, piú verso Persio mi sembra che verso Orazio. Riesco cosí ad ammettere e comprendere qualche bad word, come quello che non proviene dal magma linguistico né poetico né impoetico: costituisce espressione, insieme ai frequenti nomi di farmaci e la chiamata del proprio stato fisico; anche qui resto nella tradizione satirica. Il proprio, ed il contemporaneo, lo vedo nel sollevamento di pezzi di realtà cone stanno, quasi un ready made poetico, un iperrealismo. Tutto sostenuto dalla grande e rara cultura, e dunque ben distinto dalla consuetudine lirica (lirica?) simile alle orchidee delicate che non hanno suolo. Vede che cerco di esprimermi, per dire che consento con questa dizione di cose che stanno come stanno, la rugueuse réalité di Rimbaud. Problema: il testo eccolo qua, non è impossibile che spiriti illuminati e coltivati lo comprendano, e cosí sarebbe data soddisfazione alla missione, dico missione, educativa della poesia.  Giunge il punto che un tempo si diceva editoriale, oggi non so. La pubblicazione delle diverse antologie - sono antologie - prepara i movimenti prossimi, lo spero, dico forse, lo voglio almeno. Questo discorso è secondario, il  fatto primario è che l'opera esiste, si fa leggere e calamita lo spirito come ha fatto con me [commento di Francesco Piselli a Qui gli Austriaci sono più severi dei Borboni, email 28/06/2015].

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Francesco Piselli - Patroclo non deve morire (2013)

«Nei testi di Ivan Pozzoni agisce una grande tendenza etica e civile. In una specie di spirale la poesia gira, torna e avanza. Il mio punto è che di poesia come la sua i tempi hanno bisogno, di qualcosa di necessario al momento in cui il pur a suo modo nobile ed apprezzabile stile sognante ermetico non fa da guida al popolo, ai popoli. La qualità di Pozzoni, però, nulla ha di declamatorio, che so, alla Neruda, non prende per il collo  il lettore voglio dire; lascia che le cose parlino da sé per quel che sono. La lirica vissuta anima. Insomma positività: ciò che siamo, ciò che vogliamo. Altro suo merito: un’opera a tripode, impiantata nel messaggio al presente, nella memoria della tradizione, nella prosodia. È questa che sono andato a cercare, e mi sono studiato e ripassato. Ho trovato un  respiro largo, con rime sonore e congrue di tanto in tanto: mi ha fatto contento e mi ha dato piacere. Poi c’è un particolare, la copertina (ben fatta) di Patroclo col Maalox plus ed un flaconcino che mi ha tutto l’aspetto  di EN o lexotan. Ma trovo simboli. Maalox bruciore che si ha dentro, Lexotan serenità dell’arte. Potrebbe esserci qui una via critica. Se dovessi citare un poesia che rileggo volentieri, sarebbe Milite ignoto. Il suo messaggio vi è condensato» [commento di Francesco Piselli a Patroclo non deve morire, email 03/04/2014].

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Nazario Pardini - Qui gli Austriaci [...[ (2015)

Una poesia ampia, densa, ipermetrica, razionalmente guidata, ma emotivamente sorretta, quella di Ivan Pozzoni; dove il verso tende a concretizzare le tante questioni di un mondo che viaggia al contrario; in cui la borghesia, che aveva soffocato le istanze sociali di un proletariato una volta intento ad andare sulle barricate per far valere i suoi principi (rivoluzione francese del 1848), ora continua il suo predominio creando una struttura materialista, liquida, affarista dove prestanomi di multinazionali decidono delle sorti dei popoli:

 

Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni,

la Merkel tuona da Bruxelles minacciando risoluzioni

del Consiglio Europeo, in cui siedono retribuiti in modo sovranazionale

i vari prestanome dell’una o dell’altra multinazionale,

indecisi, con rigorosità scientifica tutta teutonica,

se far fallir la Grecia o un’azienda agricola della Valcamonica (Qui gli Austriaci sono più severi dei Borboni).

 

Un “Poema” concreto, che va al sodo, e con cui l’Autore si schiera sia politicamente che esteticamente, facendo della sua scrittura uno strumento d’impegno; uno strumento che tende a evidenziare le aporie e le ingiustizie di una umanità malata; indifferente, dacché “siamo troppo lontani dai moti del 1848,/ ora l’intera nazione tira a arrivare alla mattina,/  sognando di incassare un ambo o una cinquina”. E dimostra, l’Autore, in questo suo linguismo articolato e aduso ad una solida cultura, di avere a cuore una tematica storico-sociale, ma di non disdegnare argomentazioni che costituiscono il sale e il pepe dell’essere e dell’esistere: l’amore, il rapporto della nostra vicenda umana col tempo, la precarietà dell’esser-ci, le piccole cose della quotidianità, la poetica, i correlativi oggettivi di stampo eliotiano, o di anceschiana memoria lombarda … Il tutto espresso con una crudezza anticonformista; con un lessico volutamente scabro, con intendimenti estetici avversi a tutto ciò che riguarda la nostra più verace tradizione letteraria. Tanto è vero che le rime baciate inserite nelle composizioni, come  in quella che si pone come momento incipitario con valore eponimo, evidentemente, sono poste là, in bella vista, con propositi ironici nei confronti di un certo lirismo. Qui tutto è anti, dal metro ai contenuti, dalla cifra lessico-fonica ai risultati. Si va e si vuole andare controcorrente; è l’ora di cambiare; è l’ora di finirla con quella poesia tutta fiorellini e languidi baci; tutta armonia e espansioni liriche. Come a dire che sono finiti i tempi di Puccini, o di Mascagni, di Bellini o di Leon Cavallo; per entrare nel campo musicale che poi tanto lontano non è da quello della poesia, visto che, per un’altra corrente legata alla tradizione,  ambedue i generi dovrebbero tener di conto della melodia, del ritmo, e della musicalità, considerando che l’uomo, da quando è nato, ha sentito dentro di sé il bisogno di esprimere i suoi stati emotivi accompagnandosi col battito di legni su altri legni; o seguendo il ticchettio ritmato della pioggia sugli alberi. Le parole "Mostrano il loro legame con la musica... La parola nasce dal ritmo, come la musica. La poesia utilizza il ritmo in modo letterale e la filosofia, che non canta, si muove sulle tracce del ritmo e attraverso di esso vede. Vede il Ritorno. Vede l’Enigma" (Carlo Sini). Se si vuole però considerare che l’Autore si propone di sperimentare o di continuare su un modus dicendi tutto nuovo, si deve pur apprezzare il suo odeporico coraggio dove la ben guarnita fecondità esplorativa trova posto in un ductus poetico solido e sicuro; in una plurivocità di generosa estensione significante; in cui, spesso, si ricorre a parole e a modi di dire che farebbero rabbrividire i buon pensanti, ma che, non per questo, non si può dire che non rappresentino uno stile nuovo e mordace: l’officina dei morti di fame; il gatto Keats da una parte, e bollette, stipendi, quadri aziendali dall’altra; il Vate vobis: “il sacerdote di Masera ai vespri della sera/ senza rilevare sociologicamente, facendosi un minimo di mazzo, / sa a costoro dell’impresa artistica interessi un cazzo”…  Anche l’amore, sì, proprio il sentimento dei sentimenti, quello che gioca con la vita, con gli esseri umani, facendo di loro pedine da giostrare, artefice di odî, risentimenti, trasalimenti, sperdimenti, avvilimenti, gioie, e tormenti; proprio lui è trattato con personalità direi tutta pozzoniana:

 

(…)

Però Ambra è uno splendore di ragazza, e mi ama, anche se assomiglio davvero a Bukowski:

mezzo butterato, mezza vita trascorsa nei magazzini, mezzo amore regalato a troie senza cervello.

Mi mette a dieta, volontà di farmi sopravvivere ai miei 90 kg, scrive cose bellissime,

che ricordano Paolo Nori, o Aldo Nove, , o Peppe Lanzetta, o Ivanovijc Pozzoni,

mi conduce con un guinzaglio d’amore alle mostre d’arte moderna, Pollock o Pollon non ricordo,

e quando piscio fuori dal vate – come tutti i maschi mediterranei – e mi difendo artisticamente

affermando il mio diritto ad una oxidation painting wartholiana sul pavimento non si arrabbia troppo,

è una donna post-moderna, col terrore della muffa e della noia, con uno splendido culo

(…) (Santo cielo, perché assomigli a Bukowski?).

 

Assonanze, consonanze, rime interne, rime baciate; insomma tutta quella melodia, quella euritmica soluzione verso cui Pozzoni vuol dimostrare, con sarcasmo, la sua avversione; e con cui vuole creare un ossimorico gioco, fra il  buono e il bello della vita e i “cazzi amari” da ingoiare:

 

(...)

col pubblico attaccato alla canna del gas

autori imbecilli, che vi sentite Dumas,

fallita ogni forma di microeditoria sotto i colpi dell’imu,

inquilini di case fallite, come co-intestatari,

vi divertirete a subire la T.a.r.i,  

e saran cazzi amari (Scacco alla scacchiera).

 

[recensione a Qui gli Austriaci sono più severi dei Borboni, Limina Mentis, 2015, sul blog Alla volta di Leucade]

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Nazario Pardini su Ivan Pozzoni

COMMENTI DI NAZARIO PARDINI

 

     Poesia ampia, aperta, orizzontale, nuova, di rottura, post-moderna o tardo-moderna, del filone neoNavanguardista che azzarda iperbolici sguardi verso contenuti planati in dismisure che oltrepassano l’ordine armonico. Qui la parola s’intreccia in strutture ipermetriche, o in assoli, per raffigurare quadri che frantumano gli schemi spazio-temporali. Quegli schemi di altro tipo di poesia tesa al fugit, al memoriale, allo sguardo del giorno che passa, a fare del naturismo un aveu indirecte esistenziale con una sonorità ligia al rispetto dell’a capo per il suo procedere. Non può non venire a mente, leggendo Pozzoni, l’Ars Poetica  di Czesław Miłosz:

«Ho sempre aspirato a una forma più capace,

che non fosse né troppo poesia né troppo prosa

e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,

né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni […]

Una forma ampia dunque che consenta l’ingresso nella forma-poesia della forza rigenerante della “prosa”. Miłosz caldeggia una nuova poesia che sia al contempo riflessione sulla storia e una selezione di immagini povere, prosaiche» (da: Giovanna Tomasucci: Commento su Intervista a Giorgio Linguaglossa, di Ambra Simeone). Sì, piccoli fatti, piccoli avvenimenti, grandi temi: gli elementari accidents del vivere, un minimalismo che fa di questo poetare un oggettivismo realistico, o un realismo minuzioso che tradisce ogni forma di misticismo spiritualistico, di solipsismo lirico, o di egotismo espressivo. Di quegli assoli spersi in vertigini paniche in cui l’ordine è determinato da refrain di armoniche armonie. Quindi, dire che ci si contrappone con nettezza ed intenzionalità agli schemi di una letteratura di italiana memoria; che ci si accosta con una ricerca attenta, anche se con differenti venature da poeta a poeta, all’uso lessico-contenutistico-innovativo del poema anglosassone; dire questo, credo non sia sbagliato: un dilagare della poesia in ampiezze che tocchino la coda di un prosastico fluire, dove le sinestesie, gli anacoluti, le paronomasie e gli stilemi confluiscano in un oggettivismo che escluda immissioni di sollecitazioni mnemoniche, ove vagiscono gli autunni o sorridono sprazzi di antiche primavere. E in questa novità di far poesia (o di far non-poesia) non sono rare impennate di vera sostanza e potenzialità creativa. Con cui il poeta, ribelle e controcorrente, concretizza la sua identità anticonformista e denunciataria, in nessi verbali crudi, ed efficaci e, non di rado, originali [commento a miei testi scelti da Nazario Pardini sul blog Alla volta di Leucade].

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Nino Contiliano - Avvertenza a Scarti di magazzino (2013)

Che poesia e politica si nutrono della stessa potenza della parola, orale o scritta, comune e transvalutata, e con effetti di copertura o scopertura ideologica, più o meno consapevolmente perseguita con enunciati di natura, in genere, allusiva e meta-forica, è cosa ormai abbastanza assodata, come è altrettanto riconosciuto che l’oggetto della loro azione è il mondo comune della praxis e del suo prisma materiale dinamico nelle forme del sensibile, economico, sociale, politico, culturale, simbolico, etc., ovvero nelle forme della produzione di soggettività umane che rispecchiano i diversi rapporti di forza costitutivi. Di questi tempi – crisi di trasformazione e di consolidamento del capitalismo finanziario-militarizzato – è diventato nauseante stereotipo mass-mediale giornaliero sentire ripetere da economisti e uomini della casta o di parte che la crisi è della società italiana o che il corpo della “nazione” è quello di un ammalato colpito da emorragia inarrestabile, e che se non si interviene con “lacrime e sangue”, aliud pro alio (“macelleria sociale”), il fallimento, il default, la bancarotta non mancherà di mandare allo sfascio completo il “bel paese”! Per la parola del potere, la crisi emorragica, mediata metaforicamente (ma mistificante) attraverso l’unicità del corpo ammalato, sarebbe così una conseguenza dell’eguale responsabilità di ogni parte di quell’unico organismo che sarebbe la società/nazione italiana o degli italiani che avrebbero vissuto oltre le loro possibilità. Ma la parola “Bacaudae” del poeta Pozzoni non è dello stesso avviso. L’emorragia che attacca i rivoltati/rivoltosi del nuovo “Impero”, «benché se ne intuiscano i danni collaterali / nelle nuove ideologie della flessibilità e cassa integrazione, / che massacrano, a caso, solitudini inermi», non hanno una relazione simmetrica («non si vedono reazioni dell’autorità costituita»). I macellai-macellatori non hanno lo stesso destino dei macellati. La parola del poeta è allora quella che ammonisce e chiama alle responsabilità, se davanti «all’assassinio dei nostri sogni» non rinuncia a cadenzare i vari delitti consumati con il «suono dei nostri canti di rivolta»; e lo fa anche con quella veemente rabbia che trapela dall’insistenza anaforico-sintattica che la parola “Bacaudae” (appunto, “rebelles”), reiterata, porta (via via) la memoria ad un altro “branco”, quella dei Galli. Le popolazioni che, esposte al dominio della colonizzazione dell’Impero  della storia romana (III) di Diocleziano e Massimiano,  hanno reagito diversamente alla crisi: contrastando con la rivolta. E “rivolta” è la parola di auspicio che chiude la poesia “Bacaudae”. Che l’asimmetria non sia scomparsa – e neanche la  responsabilità (sebbene su piani diversi) della parola che, nella vita sociale e politica di ognuno di noi, relaziona poesia e politica – è la stessa guerriglia della poesia a testimoniarlo lì dove  la sua est-etica, diversamente dalle estetizzazioni della pseudo cultura dell’intrattenimento servile e consumistico odierno, usa la sua punta per graffiare il potere politico. Più incisiva quando gli si scaglia contro come un’arma im/propria per denunciarne e condannarne senza mezzi termini gli atti di violenza e sopraffazione consumati con gli ossimori delle sue guerre umanitarie e del dis-lavoro di classe, in cui i caduti  –  CADUTI SUL LAVORO – sono come il “milite  ignoto” o la “vittima del sinistro slogan arbeit macht frei” [UOMO BIANCO (GRANDFATHER)]. In ogni modo sono i sacrificati di sempre e utili al mantenimento dell’ordine (strutturale e non) del grande Leviatano (kapital bianco-occidentale) che non ha mai amato tanto i poeti, se non di corte. Da quando Platone ha bandito i poeti dalla città, i due saperi, legati cioè all’azione della parola “pubblica” e alla sua iconizzazione letteraria emblematizzante, sebbene attriti e conflitti non abbiano mancato di attraversare il loro cammino storico, sono stati costretti anche a dei distinguo, cui – ma a torto (secondo noi) – si è ritenuto  di assegnare (nell’opinione dei più) destini separati. Vero è anche il fatto che nella modernità e nel Novecento, quanto nella cosiddetta postmodernità o della debolezza del pensiero e dell’azione utopico-politica, il compito non è stato agevolato per la tenuta del nesso; e ciò nonostante la dialettica non sia venuta meno. Certo, dietro il lascito e il permanere dell’eredità del pensiero di Hegel sulla “morte dell’arte”, le cose non sono state facilitate; e  tra poesia politica e politica della poesia e dell’arte, l’autonomia (non indipendenza dal comune reale) dei linguaggi artistico-poetici ha dovuto rifare così, infatti, continuamente i conti con le avanguardie – che ne predicavano l’autonomia in toto, l’astrattezza e/o anche l’utopia avvenire – o con la sua dissoluzione nella politica di una rivoluzione radicale o nella sua definitiva catastrofe. E tuttavia la questione, come si riflette dalla lettura di queste poesie (Scarti di Magazzino) di Ivan Pozzoni, ancora è aperta, se il loro linguaggio assume a dignità di materia est-etica e poetico-politica non la “morte dell’arte” (perché «[...] l’arte / morta» – dice Pozzoni – non può dare risposte), bensì la morte stessa dell’uomo e del cittadino in quanto animale rinchiuso nelle stalle della produttività delle identità “brand”, del  loro consumo e del loro finire rifiuti – «finirò triturato» (LONTANO DALLE LAME) – pronti per le discariche del postmoderno depoliticizzante. Questo è quanto ci notifica la mercificazione spettacolarizzata e fantasmagorica delle immagini e delle parole del Post-moderno, cui peraltro, senza differenza alcuna tra aggettivi e sostantivi, sono ridotte le identità di ogni ordine di soggetti fabbricati in serie come individualismi competitivi attraverso l’industria dei desideri e delle pure emozioni-aggettivi/aggettivazioni evanescenti, piuttosto che insieme di relazioni sociali cui, invece, con l’amaro in bocca e a pezzi sanguinanti, richiama l’intreccio della testualità poetica messa in opera da Pozzoni, e con il peso di cui è capace il discorso simbolico dei versi in assetto di attacco. Animale «ad unica vita» (I. Pozzoni) – costruito nel laboratorio delle fabbriche materiali e immateriali delle soggettività post-fordiste per essere commercializzati come un prosumers, ma in realtà solo come consumatori prima, e prodotti poi consumati destinati a «immondizia riciclabile», o per finire nel cimitero degli “inesistenti” (dopo essere passati dalla “società degli invisibili”) –  è però animale (potenza di corpo spinoziano?) che non smetterà mai «d’urlare  ciò che / vedo fuori e / sento dentro». Un corpo dunque che ha ancora la forza attiva della potenza per decodificare e rigettare i significati che la società dello spettacolo economico-finanziarizzato gli scrive addosso come la macchina degli aghi della tortura di un racconto kafkiano. L’animale uomo cui si riferisce il poeta Pozzoni, a quanto leggiamo, si pone criticamente in mezzo alle contraddizioni della storia che lo attraversano e lo formano, ponendosi  con un sguardo che al presente e al futuro si rapporta non come assenza di impedimento, ma potenzialità relazionali in fieri e conflittuali. In quanto ancora sa che a fronte del “politikos” –  “res pubblica” – ridotti a potere diretto e duro, o delegato alle banche del presente eterno e cinico, la capacità di azione e reazione anti-mercificazione non può essere solo quella del consenso, o del testimone assorto. Il poeta – e in questo caso Ivan Pozzoni –, infatti, non essendo dimentico del general intellect po(i)etico e del suo archivio di “figure” meta-poetiche, sembra voglia dire/dir-ci (per esempio) che gli aggettivi sostantivati – “invisibili” o “inesistenti” – sono parole che portano lo scarto semico del dire altro o dell’insieme del “dire altrimenti” dell’allegoria o del doppio del suo dire polisemico: poetico e politico; insieme doppio specchio in cui si riflette e si rifrange, simbolicamente differenziato e differenziante, il comune mondo socio-sensibile. L’aisthesis della parola del regime politico è diversa, infatti, da quella della parola poetica. Se l’una ambisce all’ordine e all’omologazione, l’altra agisce per il disordine come montaggio sintattico-semantico per strappare all’omologazione quanto di senso e verità nell’ordine simbolico della forma-Stato/Partito non si riconosce e si ribella. La lingua poetica, si sa, è una struttura testuale a molti gradini. È ritmo plurisemico e, dal nostro autore, utilizzato ad hoc; è un ordine che gode di quelle proprietà dell’”isotopia” e delle “equivalenze” che insieme innalzano il linguaggio letterale-materiale (comune) ad altre significanze, mantenendo l’unitarietà (infratestuale e intertestuale) dei composti poetici  senza nulla far perdere, ci sembra, alla loro aseità multilaterale e alla partizione propria. E ciò anche lì dove sembra che ci siano salti, vuoti, silenzi o lessemi isolati o a fare verso mono-lessematico – «Piangiamo» (L’ANORESSIA D’IFIGENIA) –, o lì dove l’associazione straniante delle parole nel verso dell’insieme dell’unità ritmico-sintattico-semantizzante, piuttosto che al lamento, mira al gesto della voce che si fa urlo e giudizio come scelta di comunicazione singolare, e rivolta alle altre singolarità del collettivo-noi-plurale. Anzi, come è nel caso della poesia L’ANORESSIA D’IFIGENIA,  ci troviamo davanti a un giudizio etico-politico di condanna inappellabile e incontrovertibile che, emesso nei confronti delle pretese aberranti dell’«altare mediatico» della telegenia modaiola (insaziabili mostri tritura vite che non rinunciano mai agli “odori di morte” riservati alle “bellezze eteree” delle giovani – «Predoni voraci, / di che siete capaci, / se da vite aleatorie / ricavate vittorie?» –), si dà nella certezza della potenza enfatica e propria alla vis polemica che si trova nella forma poetica dell’”interrogazione retorica” usata a chiusura. Così ci ritroviamo in uno dei nodi gordiani del conflitto che caratterizza la responsabilità (intrinseca o  meno) della poesia e della politica come parola e discorso che non coincidono, e che lascia sempre uno spazio di vitalità al dire della poesia stessa. La politica identificata con la gestione del potere depoliticizza, omologa e pretende solo emozioni castranti e consolatorie. La poesia “politica” e la “politica” della poesia (che non sia consenso alla politica-potere di regime), in questa raccolta di Pozzoni, pur nella sua autonomia semiologica, esce invece dalle camere depoliticizzate dell’intimità lirico-vittimistica  e sentimentale e si fa acidità linguistica. A volte satiresca. Un linguaggio po(i)etico che, dissolvente e vetriolo dei toni bassi, si getta sugli spazi delle vetrine del pubblico e privato mercificati e resi lisci dall’idea d’investire in «bond argentini» (l’idea che diventa «tarlo malsano che rosicchia, senza tregua, i nostri cuori d’ebano»), o dall’«eruttar storie noiose / / su merci, scontate, in formato xabd» (SCARTI DI MAGAZZINO); oppure riciclando (poeticamente) gli “scarti di magazzino” (gli invisibili e gli inesistenti) come rifiuti speciali. E sono speciali in quanto semio-radioattivi. Messi in “schema” o in composizione di unità ritmo-semantica testuale, infatti, gli “scarti” sventagliano una rosa di informazioni tendenziose o atte cioè a significare le malversazioni che i poteri della cosmopolis (capitalistica)post-moderna hanno imbalsamato sui loro corpi marchiandoli all’inesistenza, e nascondendo all’occhio e all’udito ogni sorta di nefandezze. La visibilità e l’udibilità dei corpi mutilati e repressi, però, ora, riemerge con tutto lo spessore di denuncia e condanna (pubbliche) per le ferite loro inferte e mostrate, facendoli, magari, spettri danzatori di una “ballata” –  BALLATA DEGLI INESISTENTI – che parla da sola.

 

Riportiamo alcuni frammenti:

 

Potrei tentare di narrarvi / al suono della mia tastiera / come Baasima morì di lebbra / senza mai raggiunger la frontiera, / o come l’armeno Méroujan / sotto uno sventolio di mezzelune / sentì svanire l’aria dai suoi occhi / buttati via in una fossa comune; / Charlee, che travasata a Brisbane /  in cerca di un mondo migliore, / concluse il viaggio / dentro le fauci di un alligatore, / o Aurélio, chiamato Bruna / che dopo otto mesi d’ospedale / morì di aidiesse contratto / a battere su una tangenziale.

 

[...]

 

Potrei starvi a raccontare / nell’afa d’una notte d’estate / come Iris ed Anthia, bimbe spartane / dacché deformi furono abbandonate, / o come Deendayal schiattò di stenti / imputabile dell’unico reato / di vivere una vita da intoccabile / senza mai essersi ribellato; / Ituha, ragazza indiana, / che, minacciata da un coltello, / finì a danzare con Manitou / nelle anticamere di un bordello, / e Luther, nato nel Lancashire, / che, liberato dal mestiere d’accattone, /  fu messo a morire da sua maestà britannica / nelle miniere di carbone.

 

Chi si ricorderà di Itzayana, / e della sua famiglia massacrata / in un villaggio ai margini del Messico / dall’esercito di Carranza in ritirata, / [...] / e Tikhomir, muratore ceceno, / che rovinò tra i volti indifferenti / a terra dal tetto del Mausoleo / di Lenin, senza commenti.

 

Questi miei oggetti di racconto  / fratti a frammenti di inesistenza trasmettano suoni distanti / di resistenza.

 

[…]

 

La parola poetica così non rinuncia al suo intervento nello spazio comune, e come rovescio conflittuale dell’azione politica negativa. La polis democratica non può rinunciare a nessuna delle due parole in conflitto –  la poetica e la politica. Nonostante la poesia (POST-MODERNO) di Pozzoni, che chiude la raccolta, testualizza: «scrivo con angoscia», l’angoscia agisce però come un pungolo nelle carni; un dissolvente che buca gli scandali fatti pagare ai “sans”, altrimenti, dal poeta, chiamati “scarti” o invisibili e/o inesistenti. Se l’angoscia è un modo passionale di constatare che è impossibile sottrarsi alla storia e ai suoi effetti spiacevoli e controversi, è pur vero che la passione non è solo “passività”; se l’ottativo «questi miei oggetti [...] trasmettano [...]» (in realtà, come crediamo, è un imperativo camuffato), lascia infatti intra-vedere anche l’altra  faccia del pharmakon, allora il richiamo all’azione attiva è chiaro e traspare nella forma del monito. Il monito rivolto al “noi” per un’azione della collettività che unisca i “morti” ai vivi onde continuare il processo e la lotta di liberazione iniziato da chi ci ha preceduto. Intanto il primo passo è di “resistenza”, e poi verso il luogo della soglia o dell’”eterotopia” come possibilità (J. Rancière, Il disagio dell’estetica) di desoggettivazione da una parte e di diversa identificazione dall’altra, ovvero della “produzione” di soggetti di un’altra cittadinanza che la con-tingenza non esclude, ma, contenuta in nuce, orienta a  non macinare capri espiatori e vittime sacrificali! Entrambe le parole, poi, hanno un senso e una capacità conativa relazionale in quanto sono dette e agite solo nell’esser-ci in pubblico dell’ora e qui, e anche in absentia dell’essere-insieme. Non c’è infatti un io, un tu...se non c’è prima e poi anche un noi (presso gli amerindi Wintu, la parola io non esiste; e per riferirsi a qualcuno l’espressione corrente, per esempio, è “Ivan noi”). In queste poesie di Ivan Pozzoni, il “noi”, fra l’altro, sottinteso o esplicito, al presente o al futuro è costantemente richiesto come l’ago di una bussola che punta ripetutamente verso  i rifiuti speciali: «Di noi, non resteranno / neanche i rifiuti, monete, cocci, / calcinacci di antichi insediamenti, / di noi addestrati ad essere rifiutati» (LA SOCIETÀ INVISIBILE); «Bacaudae, siamo, Bacaudae / [...] // [...] / in ogni senso di inutilità, / unicamente ci arrenderemo / all’assassinio dei nostri sogni / cadenzato al suono dei nostri canti di rivolta» (BACAUDAE). In questa responsabilità della “partizione” (J. Rancière) del mondo sensibile e sociale in “scarti” e non scarti, la poesia – linguaggio transcodificato e deautomatizzato come nella raccolta del nostro autore –, non fa mancare neanche l’urlo (ribelle) che non smetterà mai «d’urlare ciò che» (LONTANO DALLE LAME) vede fuori e sente dentro. E con ciò, crediamo, il poeta vuol dire che il senso dell’”esser-ci” ha ancora il valore d’uso d’una parola non privata, ovvero una comunic-azione poetica di tal fatta che, in quanto  tale, non può interessare solo i pochi. Il “dire altrimenti” degli scarti di magazzino di Ivan Pozzoni deve interessare allora poeti e non poeti, se è vero che “la voce dei poeti riguarda tutti noi dal momento che nella vita pubblica e privata contiamo e facciamo affidamento su di loro” (Hannah Arendt, Il futuro alle spalle). Così c’è, crediamo, nei versi fra-stagliati di queste poesie, e di segno contrario all’andazzo dell’omologazione consensuale  e/o dell’acquiescenza corrente, una forza capace di alzarsi/ci al di là delle discariche e delle derive nichilistiche del post-moderno, ovvero dell’impero della fantasmagoria della merce e del suo potere – la misura dell’equivalenza – che nella polis ha asservito cose e persone depoliticizzandone la vita pubblica e comune e riducendola a puri rapporti di mercato economico-finanziario. A nessuno, leggendo queste poesie (fotogrammi di un tempo in moto, e delirante), può sfuggire che il loro ritmo reale, quanto passionale e veloce (in prevalenza “ascendente”, crediamo), avanzando tra straniamenti e transcodificazioni (SCARTI DI MAGAZZINO: la stampante che brontola e l’impiegata che emette “stridio”) e isotopie fono-semantiche a/di vario livello, è coralità che coagula e iconizza la “ci” spazializzata e cosalizzata (dell’esser-ci) in un allarmato e allarmante “noi” personalizzato-pluralizzato; un noi che, in pausa di giudizio, riflette:  «Ci assale / un senso scontroso d’inutilità, / abbrutito dal terrore di morire di stenti, / e di ferite» (SCARTI DI MAGAZZINO). Neanche il senso di angoscia (come già detto avanti), che il poeta registra in battuta finale – «[...] // Poi, scoperta / la morte dell’arte, / nel Post-moderno, / scrivo con angoscia / intuendo che l’arte,/ morta, non riuscirà / a rispondermi» (POST-MODERNO) –, fa venir meno questa potenza “insurgente” della reazione che è propria di ogni passione. Ogni passione ha un suo lato miscelatore attivo. E ognuno è coinvolto nella sua unità complessa, qualunque sia il fondamento ideologico che ne dice le ragioni. E se le ragioni sono mosse dalle illusioni e dalle percezioni dei poeti, che sotto l’azzardo dell’immaginale e del paradossale, dicono la verità come un’arma critica e a doppio taglio, non per questo la parola della poesia deve essere esiliata. È finito il tempo in cui “Platone” cacciava i poeti dalla città! Semmai i poeti non debbono sottrarsi alla storia di cui essi stessi sono attori, quanto invece disubbidire al consenso servile offerto/chiesto a/dal potere. E specie oggi che il bio-potere ha messo a profitto e rendita persino l’universo dei linguaggi (l’immateriale), della creatività, degli affetti, della fantasia, dei desideri, dell’immaginario, etc. Né l’arte né la poesia possono fare rivoluzioni liberatrici o dar risposte ultime e definitive, ma, e con buona pace del motto hegeliano della morte dell’arte, la parola dell’arte e della poesia continua a vivere nelle stesse trasformazioni della storia e del suo linguaggio, e graffia. A lungo termine lascia dei segni. Sono le incisioni che hanno il taglio differenziale allegorizzante della parola poetica e demistificante che vediamo respirare in questa poesia di Pozzoni, che, in decisa e saputa inter-testualità con i canti di Fabrizio D’André e l’antologia poetica “Spoon River” di Edgar Lee Masters, si s-porge con i suoi “caduti sul lavoro”, i “morti, e reperti archeologici”, le “vittime sociali e collaterali” e gli “eroi, e sconfitti”, o le “stanze” delle ballate degli “inesistenti”. Per quanto riteniamo insufficiente questa avvertenza per rendere tutta la portata della memoria-narrazione poetica (sia d’archivio che profetica) di queste poesie di Ivan Pozzoni, ci congediamo dai suoi caduti invisibili/inesistenti come tante altre “iscrizioni” che del nostro tempo svelano altri “lupanari” e altri “graffiti”, i graffi che ne tagliano ombre e luci lasciandoci comunque dei segni diversi rispetto a quelli dei «lupanari di Pompei», ma sicuramente altrettanto concreti. Con loro la voce e gli urti politici della moltitudine dei “sans”, variamente identificati,  sono più pericolosi da morti che da vivi dal momento che il poeta gli ha ridato esistenza contestuale fratta (deframmentandone l’apparente consistenza), e sparpagliando i frammenti come lame e punte di un bisturi implacabile. E tuttavia, ci sembra, che lascino anche in giro un lievito di ribellione per quella gentilezza e tenerezza, cui aspira sempre la grazia di una rivoluzione, e che invece il cinismo  del macchinismo dell’”uomo bianco”, presunto neutrale, schiaccia e ricaccia nel fitto del bosco. E, da questo, la vi(a)o-lenza della “tenerezza” della ribellione non tarda a farsi sentire ancora se da “Bacaudae”, alla caduta del “palazzo d’inverno” del recente passato, alla contestazione dei “figli dei fiori”  e quella di Seattle di ieri,  alla “rivoluzione dei gelsomini” araba di oggi e degli altri movimenti “occupy” del presente (in atto) non lascia la poesia e la lievita. La poesia?: “Un bosco di tenerezza / s’annida nel mio ventre / dando vita / a un embrione ribelle” – scrive (Luna di cenere) la poetessa mapuche Rayen Kvyeh (Cfr. Luca Rosi, La poesia non cambia il mondo, ma può renderlo migliore, in “Collettivo / Atahualpa R”, gennaio-dicembre, 2007). [Avvertenza a Scarti di magazzino, Liminamentis Editore, 2013]

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Renzo Montagnoli - Scarti di magazzino (2013)

Che la poesia possa avere temi molteplici è risaputo e fra questi, certamente non secondario, è quello politico, avvalendosi la stessa della forza della parola per portare avanti un discorso in genere più incisivo, meno retorico di quello proprio del politico di professione. E di poeti politici gli esempi sono tanti e tanto per citarne uno assai noto ricordo semplicemente Trilussa. Tuttavia ritengo doverosa una separazione fra chi è politico-poeta (e all’epoca dell’Unione Sovietica ve n’erano non pochi), tutto teso a osannare un’ideologia o un sistema e il poeta-politico, capace più degli altri, di evidenziare i limiti di regimi e anche di sistemi economici, al fine di rendere edotti di ciò che non va e perché non va. Fra questi ultimi includerei, indipendentemente dal suo orientamento politico, anche Ivan Pozzoni, autore prolifico e di cui ho avuto modo di leggere questa silloge dal titolo emblematico Scarti di magazzino. Complice l’attuale grave crisi economica questo poeta monzese ha saputo sciorinare con versi di notevole efficacia i mali che sono alla base del neoliberismo, più che una dottrina economica, una rapina economica camuffata da sistema definito come il migliore possibile, quasi idolatrato, al punto da creare permanenti squilibri e ai più una vita asfittica, incolore, quasi vegetativa, oggetti umani pronti ad essere buttati quando non servono più come accade per gli scarti di magazzino. I versi di Pozzoni non sono satirici come quelli di Trilussa, ma inchiodano nella loro solare realtà, senza retorica, asciutti e densi, quasi stilettate nel cuore della generale indifferenza. Al riguardo esplicativi mi sembrano questi tratti da Milite ignoto e riguardanti il triste moltiplicarsi dei caduti sul lavoro:…/ Marciavi vivido nell’aere mattutino / fremendo brame d’amore adulterino, /  senza intuire neanche di sfuggita / d’essere vittima di un crudele carovita; / marciavi lesto senz’ombra di tristezza, / diluendo i dubbi in avventatezza, / nei tuoi vent’anni di vita amara, / chiamati a chiudersi dentro a una bara. E nelle poesie successive ci sono tutti i nomi e i fatti della crisi economica: dalla famigerata Lehman Brothers alla cassa integrazione, dalla solitudine esistenziale all’anoressia, dai nuovi eroi agli sconfitti di sempre, un giro panoramico sulla ruota di un mondo che sembra girare all’incontrario. Anche chi non si riconoscerà nei personaggi di questi versi scoprirà però che l’unico rimedio all’indifferenza, spesso astratta, che ci accompagna e in cui lenti ci ha rinchiuso il capitalismo neoliberista, è il sorprenderci a pensare  e a provare il timore di finire un giorno come il vecchio dell’Hotel Acapulco (…./ Abbandonata, nel lontano 2026, ogni difesa / d’un contratto a tempo indeterminato, / etichettato come squilibrato, / mi son rinchiuso nel centro di Milano, / Hotel Acapulco, albergo scalcinato, / chiamando a raccolta i sogni degli emarginati, / esaurendo i risparmi di una vita / nella pigione, in riviste e pasti risicati. / Quando i carabinieri faranno irruzione / nella stanza scrostata dell’Hotel Acapulco 7 e troveranno un altro morto senza testamento / chi racconterà la storia, ordinaria, / d’un vecchio vissuto controvento?). Da leggere, senz’altro [commento a a Scarti di magazzino, Limina Mentis, 2013 sul sito Arte insieme].

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Nunzio Festa - Scarti di magazzino (2013)

Quando una lingua, in questo caso un linguaggio poetico, diciamo riferendoci ai versi di Ivan Pozzoni, dunque quando una poesia si spinge nelle traversie d’ogni necessità della vita in vivendo: amore, lavoro e tempo libero: mischiando gli elementi per far un suono semplicemente universale e sicuramente unico: dobbiamo entrarci dentro, nella scrittura; per perderci. Ovvero sperimentare le liriche. L’ultimo libro pubblicato dal poeta di Monza è titolato “Scarti di magazzino”. E se per l’attento Contiliano le pagine hanno come una bussola che conduce, comunque, verso una metà, noi sosteniamo che non può esistere tempo geografico d’arrivo in questa plaquette. Perché il materiale, dal sociale, che Pozzoni qui fa brillare ha certamente un plurale. Però siamo nel prato grigio, adesso, dell’utopia. Allora è certo che il poeta sente un fervore di scontro necessario con lo stato di cose di fatto. Come è sicuro che i punti d’accumulazione dello scarto visti da Ivan Pozzoni sono sconfitta e obbligo di contestazione. Anche dove si rifocillano di glorioso passato. Pure in quanto la fonte non basta. Non basta più. Proprio dove il dovere morale chiede al poeta di spiazzare le cronache della crisi al fine di battere il lamento delle lamentazioni. C’è il potere. E il potere non ci sta bene. Punto. Epperò non può starci bene come ci siamo ridotti. Specie quando prima, ovvero nella pubblicazione precedente, “Patroclo non deve morire”, il poeta aveva messo in difficoltà delle sue stesse contraddizioni. Con il faro rappresentato dalla poesia stessa. Del fare poesia. Ma in questa raccolta trovava, allo stesso tempo, la maniera, forse poi perfino un po’ rifiutata se non addirittura rinnegata, di gestire un rapporto diretto e a tratti intimo con lo stile. Pozzoni, classe ‘76, da saggista s’è molto occupato e s’interessa dei filosofi italiani d’Ottocento e Novecento, dei quali a nostro avviso trattiene l’intransigenza. Che nella sua poesia diventa scontro incendiarlo con la banalità del sopravvivere della modernità del consumo ai tempi della crisi. Ascolta l’inciviltà, Pozzoni. Dell’involuzione culturale del modernismo a getto continuo è schifato. Con i suoi versi prova a ricordarci che ancora esiste l’umanità. Nonostante l’amore si possa guardare attaccato a un palo da discoteca e le possibilità d’incontro, amoroso, possano tradursi in uno slang che mette insieme la lingua della messaggistica da cellulare e la riprovevole fattanza da sufficienza. Sesso, soldi per la sussistenza, uscite inutili. Mentre l’equilibrio generale traballa [commento a a Scarti di magazzino, Liminamentis Editore, 2013 sul sito Leggere e scrivere].

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Antonio Spagnuolo - Patroclo non deve morire (2013)

Sospeso tra il sopravvivere ed il rischio della ferita Ivan Pozzoni ricama un tessuto variopinto, che dalla cronaca di giornali, di network, di blog scivola freneticamente nel quotidiano, per raccontare episodi, per  innescare un inno, per fluidificarsi nella dimensione del sociale, elaborando il suo dettato poetico in maniera personale e culturalmente valida. “Il titolo del libro di Ivan Pozzoni è Patroclo non deve morire, è un enunciato imperativo che non ammette eccezioni. Nella storia Patroclo muore in combattimento, nell’opera di Ivan Pozzoni invece Patroclo deve continuare a vivere affinché la storia non si concluda e si aprano altri scenari.” – Scrive Giorgio Linguaglossa nella prefazione. –  E la fantasia ha dei tagli alimentati da  riscontri memoriali o da impannate critiche verso la mercificazione di un mondo sempre più alla deriva. Una poesia compressa che riluce per flessibilità e pluralità. Ogni valore qui abbandona pregiudizi, nella capacità di raccontare o rielaborare,  nei dettagli realistici di eventi, o nella profondità di metafore , grazie all’accumulo intelligente di un immaginario concreto e colorato. Il gioco ha momenti impegnati, dalla denuncia delle sperimentazioni farmacologiche all’inafferrabile momento di asfissia dell’impiccato, dalla crisi del mondo occidentale alla ballata di un amore contorto. Una girandola che al vento offre autentiche testimonianze. “…Canto doloroso disincanto,/ dai baratri, vette d’abisso, delle coltri / di Dio, come usignolo nel / becco d’aquila di Pindaro, / mettendo a stento i buchi nei miei denti/ allenati a morder cenere , mettendo al bando i battiti lontani/ del tuocardio. / Adesso che sei nell’aria, o in una tana / nella terra mesta, ch’è uguale, / amerò buco nell’ozono, inquinamento / atmosferico o della falda / acquifera, vermi, sarcophagidae, batteri / autolitici, e non mi mancherà / coraggio di morire”. Compresenza degli opposti, quasi uno smarrimento tra anticipazioni cosmiche ed un ordine per così dire biografico, entro il quale le esperienze diventano una istantanea che precede l’ascolto. In effetti l’intero esclusivo universo poetico risponde agli archi temporali, alla rievocazione lirica per eccellenza, agli strappi del momento per riflettersi nel microcosmo realisticamente precisato [commento a Patroclo non deve morire, deComporre Edizioni, 2013].

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Raffaele Piazza - Lame da rasoi (2008)

     Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha già pubblicato alcune raccolte di poesia. Tutte le poesie del libro, che prendiamo in considerazione in questa sede, sono centrate nella pagina e, spesso, essendo costituite di versi brevi, sono verticali. La raccolta ha una forte compattezza espressiva e non è suddivisa in scansioni; il poeta utilizza un linguaggio duro e crudo, del tutto antilirico, come se i versi fossero lame di rasoi, come dal titolo, e tutto il contesto è giocato nel dialogo serrato dell’io-poetante, con un “tu”, presumibilmente la figura dell’amata. La poesia che apre la raccolta ha un carattere vagamente programmatico e c’introduce nel mondo della poetica di Pozzoni. Questa poesia è intitolata Mani vuote:-”/Non hanno nessuna/ intenzione di capire,/ bimba mia,/ neanche da lontano,/ che non riusciranno/ mai, a rubare l’anima/ ai poeti, finché/ vive chiusa in/ casseforti dalle/ pareti di zinco,/ con borchie/ d’ottone,/ rubare/ anime/ di fanciulli,/ non conviene, perché si rimane,/ sempre a mani vuote/-”: questo componimento esprime una riflessione, non priva di ironia, sull’essenza della poesia e sull’anima dei poeti, potremmo dire sulla maledizione di essere poeti: il componimento può dirsi risolto in un apologo ben riuscito a favore dei poeti e della poesia, poesia tanto bistrattata e fraintesa, soprattutto ai giorni nostri, da quello che Erich Fromm, già negli anni ottanta stigmatizzava come il modello vincente, quello dell’avere rispetto a quello dell’essere, modello che è anche quello dell’arte e della poesia. In questi versi il poeta viene visto come un eterno fanciullo, come nella poetica del fanciullino pascoliano e, si potrebbe presumere il poeta stesso, come eterno adolescente, secondo la concezione leopardiana, schema che riecheggia alla lontana la forma dell’elogio dell’immaturità,, tema trattato da pedagogisti, filosofi e psicologi. In definitiva in questa poesia viene esaltata la dignità dell’essere poeta che si realizza nel possedere una natura inafferrabile, pur senza essere necessariamente vate. Una poesia differente dalle altre di Lame da rasoi, nelle quali è stabile la presenza di un “tu” è Animali braccati, che ha per tema il mondo del lavoro, spesso spietato, sul quale il poeta riflette. Si tratta di una poesia dal taglio sociopolitico, nella quale il tipo di linguaggio dell’autore bene si adatta alla materia trattata: c’è da notare, in questa poesia, tratto costante di tutte le poesie di Pozzoni, che il linguaggio è scabro ed essenziale nella sua icasticità e, nello stesso tempo, nitido e chiaro, dall’andamento narrativo.:-”/Cosa ci resta/ da fare, sbranati/ da immortali/ mondi del lavoro,/ con offerte inesistenti,/ rasentando sfruttamento,/ non retribuito da atti/ adatti alla vendetta,/ con l’umiliazione divorante/ di chi non sia filiusfamiliae,/ chiusi nel carcere d’oro/ della frustrazione, smarriti dentro a tunnel/ d’ansia demoralizzati,/ amoralizzati, immoralizzati?//…Attraverso i versi taglienti e acuminati del poeta, tali per le scelte lessicali e per il ritmo sostenuto, l’autore riesce a dipingere dire, situazioni che tanti lavoratori, soprattutto del settore operaio e impiegatizio, sono costretti a vivere sulla propria pelle: si tratta di un mondo del lavoro che sottende un bassissimo trattamento stipendiale, che crea scoraggiamento e disagio nel lavoratore, tra l’altro costretto ad azioni ripetitive, meccaniche e disumanizzanti. A tutto questo contesto si può affiancare il disagio creato dal mobbing, termine tipico del postmoderno, per farci intendere tutte le forme di screzi e cattiverie, che si verificano nel mondo degli uffici, da parte di colleghi più forti e maliziosi, ai danni dei colleghi più deboli. In questa raccolta l’amore e l’eros vengono scritti e vissuti a tinte forti, con parole gridate e, a volte sofferte, come l’amore fa soffrire, anche se può dare rassicuranti gioie: così, a questo proposito è paradigmatica la poesia Fiotti davena, che è antitetica alle poesie amorose di Neruda, come pure è molto lontana dalla tradizione amorosa latina e greca. In questa poesia ci sono espressioni che sconfinano nell’oscenità e l’amore non viene vissuto con delicatezza, anzi, si potrebbe affermare che l’io-poetante, più o meno autobiografico che sia, abbia paura della tenerezza. C’è da notare, in questi versi, l’ansia divorante di una sensualità aggressiva nel fare della donna un oggetto di piacere, pur provando amore e attenzione per la stessa figura femminile. Qui si nota un procedimento anaforico con la ripetizione di Prendimi forte all’inizio di ognuna delle tre strofe del componimento:-”/Pendimi forte/ tra le braccia/ e tira la catena/ maschera oscena/ grido d’arena/ sulle nottate vorticose/ d’anima in cancrena/ sulle giornate stese/ steso ad asciugare/ all’ombra dei rancori,/ sulle tue scommesse/ messe in mano a scaltri allibratori-/”. Notiamo in questi versi una densità metaforica e sinestesica veramente notevole e un procedimento per accumulo nei versi leggeri eppure icastici che si avvicendano con un ritmo sincopato. A volte si arriva, in questo componimento, ad un’esaltazione della sensualità:-”Prendimi forte/ spiazzami / tra le tue braccia/ e i tuoi seni,/ tira la catena,/ dopo esserti abbuffata/ bulimica, abulica…/” Se il corpo è importante come strumento di conoscenza, come elemento fondante nell’essere nel mondo, qui il corpo si riduce a sola carne, tesa in una ricerca spasmodica del piacere sessuale, congiunto, senza pudore, con quello del cibo: attraverso i versi di questa poesia il poeta ci fa anche sorridere con una velata ironia e, c’è da notare che, e questo è un pregio, nel suo eros esibito e disinibito, Pozzoni non cade mai in descrizioni violente: descrizioni, invece, quelle di Pozzoni, che illuminano il lettore sul senso del fare l’amore, come avviene in tante pagine della letteratura, utili per capire il senso dell’eros [commento a Lame da rasoi, Joker, 2008, sul blog Poetrydream].

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Raffaele Piazza - Carmina non dant damen (2012)

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976; tra 2007 e 2010 sono uscite varie sue raccolte di versi; è direttore culturale della Limina mentis Editore. Chiaramente il titolo del testo prende spunto, ironicamente, dal detto latino notissimo Carmina non dant panem, con il quale i nostri progenitori intendevano dire che la pratica della poesia non dà alcun guadagno in termini materiali ai poeti. Damen significa in tedesco signore e quindi Ivan Pozzoni, spostando il significato, vuole farci intendere che, come la poesia non apporta il raggiungimento del denaro, così i versi sono inutili anche per la conquista delle donne, nonostante tanti esempi di opere poetiche dedicate a figure femminili, come La vita nova di Dante, scritta per Beatrice e Il canzoniere di Petrarca, in vita e in morte d madonna Laura. È ovvio che i suddetti esempi di opere ormai classiche non avevano come scopo la conquista della donna come può essere intesa nella mentalità degli uomini del terzo Millennio, ma esprimevano una concezione medievale per cui la donna veniva considerata angelicata, punto di riferimento e di partenza per raggiungere un’elevazione spirituale e pervenire a Dio. Tuttavia la figura femminile è elemento centrale per molti poeti, in primis, Pablo Neruda, che ha scritto bellissime poesie d’amore per la sua donna, anche se la sua conquista era già un dato acquisito. Entrando nell’ambito stilistico e formale di Carmina non dant panem, bisogna mettere in risalto che la plaquette e suddivisa in tre sezioni e che, semanticamente, presenta un’incontrovertibile struttura architettonica bene articolata, è frutto di una coscienza letteraria consapevole, come già era evidenziato nelle opere precedenti dell’autore. Il testo, che è corredato da una prefazione di Luca Benassi, ricca di acribia, è suddiviso nelle seguenti scansioni: Amore liquido, Lavoro liquido e Vita liquida. I titoli delle sezioni, con la ripetizione della parola liquido, ci fanno intendere la cifra distintiva di questi versi, che, mettono in luce un’identità fluida dell’io-poetante, immersa in un mondo liquido qual è il nostro presente, nel senso del suo essere caotico e scisso, tempo nel quale l’individuo è sperso nei meandri della globalizzazione, è alla ricerca delle proprie radici, come ha più volte notato il filosofo Zygmunt Bauman. Il tono del versificare è affabulante e narrativo ed è permeato da una grande musicalità, conseguita attraverso il ritmo cadenzato; il poeta raggiunge una forte chiarezza espressiva e tutte le composizioni sono centrate sulla pagina. Elementi essenziali sembrano essere misticismo ed erotismo, che si coniugano bene tra loro in una stabile tensione verso la figura della ragazza della quale il poeta è innamorato. C’è un forte pathos nella vicenda sentimentale narrata in tutte le sue modalità e situazioni, nelle quali il menestrello poeta cerca in tutti modi di conquistare la sua dama. Centrale il componimento eponimo introduttivo, nel quale viene detta una moneta sulle due facce della quale sono impresse l’effigie di una regina e quella di un menestrello vestito d’un manto di terra [commento a Carmina non dant damen, Limina Mentis, 2013, sul sito Literary].

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Giorgio Linguaglossa - Qui gli austriaci [...] (2015)

«La sapienza tattica di Ivan Pozzoni fa uso della parola-segno, della parola-mezzo in conseguenza della presa d’atto del tramonto della Parola giudicante o della Parola simbolica per approdare ad una Parola Anti-parola, una parola conflittuale figlia del processo democratico del decadimento e della confusione di tutte le lingue e di tutti i linguaggi, nell’abisso della intermediazione di tutti i linguaggi degradati a linguaggi veicolo, linguaggi da trasporto, nastri trasportatori di linguaggi merce e di linguaggi oggetti. Questa mediatezza della lingua (prodotto dalla civiltà dei segni), l’impossibilità di comunicare immediatamente il «concreto», è l’abisso dell’astrazione, per Benjamin terza conseguenza del «peccato originale linguistico». Questo uso degli elementi astratti della lingua nella «poesia» di Pozzoni si converte nella pirotecnica virulenza derivata dall’abbandono del «nome» e della sua capacità denominante. Di qui per Pozzoni l’asservimento della lingua nella «ciarla», cui segue l’asservimento delle cose alla lingua dei segni secondari, terziari, quaternari etcetera (con buona pace della forma-poesia), fenomeno questo attiguo alla infinita intermediazione dei linguaggi dei segni: la disseminazione del linguaggio dei segni in una entropia dei linguaggi non più denominanti. Il «segno» non è più impronta divina del «Nome», ma impronta di un altro «segno» in fuga perpetua, trasformazione del comunicabile in comunicabile, cancellazione del comunicabile, cancellazione dell’oggetto, cancellazione della cancellazione in un moto vorticoso e perpetuo, carnevalizzazione della cancellazione in un moto entropico perpetuo. […] L’atto di insubordinazione per un autore avvertito ed acuto come Ivan Pozzoni consiste in questo, nell’essere, o meglio nell’apparire, «miope e astigmatico», nello scrivere «hyperversi», nel rendersi irriconoscibile, camuffarsi, assumere maschere, giocare con la sua condizione di orfano, di ibrido, di parricida della poesia educata e forbita che ha fatto anticamera nelle sale d’aspetto del gusto corretto del conformismo. Per Pozzoni si tratta di una questione di sopravvivenza, di fare dell’autenticità una inautenticità, e di quest’ultima una dis-autenticità, secondo una strategia del funambolo, del buffone, dell’ibrido, dell’escreto, del saltimbanco di palazzeschiana memoria. Questo istinto del parricida (parricida delle istituzioni stilistiche), costituisce una invariante che attraversa tutti gli atti poetici finora attuati dall’autore dai suoi esordi fino a quest’ultima opera. Il parricida, l’escreto, il ribelle assoluto, colui che rifiuta la tradizione e la contemporaneità, colui che rifiuta la forma-poesia, che si vuole porre nella terra di nessuno, nel limen, nella chora non solo per non essere riconosciuto, ma anche e soprattutto per non riconoscere ad altri la legittimazione ad occupare il campo della «poesia» ormai diventata una merce satura di «bon ton», di «morale» e di «onestà». Pozzoni fa di tutto per non essere riconosciuto; vorrebbe, ma un istinto segreto gli dice che non può, e allora carica e sovraccarica di antagonismo linguistico e di escrescenze i suoi componimenti per renderli irriconoscibili ed irricevibili alla società letteraria che vale. Per Pozzoni la poesia non può essere se non attraverso l’esperienza dell’impossibilità ad esser poesia [Premessa a Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, Limina Mentis, 2015]

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Giorgio Linguaglossa su Ivan Pozzoni (II)

«Ivan Pozzoni è un giovane di talento e talentuoso, un rivoltoso naturale, un irriguardoso dei ceti e dei riti dei ceti letterari, un anfibio direi in un paese come il nostro di ex cattocomunisti che non sanno di esserlo. Direi che ogni generazione ha bisogno dei suoi Ivan Pozzoni, essi sono degli anticorpi assolutamente necessari allo stato di salute del consorzio, diciamo, civile. C’è un fatto, però. Che oggi gli anticorpi da soli non bastano più, la bassa marea montante del conformismo è tale che è in grado di inglobare e ingurgitare qualsiasi anticorpo senza battere ciglio ... e allora mi chiedo e vi chiedo: c’è bisogno di un virus ben più distruttivo, perché qui non è in gioco la letteratura, che non esiste più ormai da almeno 40 anni, ma il conformismo dei ceti letterari oziosi e ingordi di denaro e di proventi, da qualunque parte essi vengano e dovunque essi siano diretti. Caro Ivan, la poesia è in stato di tale sfacelo che può sopportare qualunque ribellione come un rinoceronte un battito di ciglia» [commento a miei testi scelti da Nazario Pardini sul blog Alla volta di Leucade].

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Giorgio Linguaglossa su Ivan Pozzoni

  «[…] vorrei lasciare una mia testimonianza di simpatia e di stima ad Ivan Pozzoni, un poeta, anzi, un anti-poeta che scrive anti-poesia, e la scrive molto bene, con grande dovizia di argomenti e di sberleffi irriverenti contro tutti e tutto... credo che ogni generazione ha bisogno di intellettuali come Ivan Pozzoni, una persona libera, libera dai conformismi, che non appartiene a nessuna consorteria che non ama le affiliazioni e le cordate. Ivan ha una energia esplosiva, i suoi testi sono ordigni ad alto potenziale di esplosivo, sono ordigni incendiari, sono cose che mi restituiscono il buon umore quando le leggo, sono testi ilari i suoi di irrefrenabile ilarità, una ilarità che deriva da un bellicoso miscuglio di anticonformismo e di disformismo di cui questo paese ha assolutamente bisogno […]» [commento a miei testi scelti da Nazario Pardini sul blogAlla volta di Leucade].

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Giorgio Linguaglossa - Patroclo non deve morire (2013)

«Datemi un  punto di appoggio e vi solleverò il mondo». Con questa frase attribuita ad Archimede inizia l’avventura della téchne. La tecnologia deriva dalla applicazione di postulati scientifici, ma questi ultimi presuppongono un postulato metafisico: è l’idea della volontà di potenza che guida le azioni degli uomini. La tecnica ha inizio con una asserzione metafisica. L’avventura della tecnologia ha inizio da una asserzione metafisica. La volontà di potenza è la forza con cui si manifesta il nichilismo; è un dato di fatto. È l’assunzione di un punto immaginario che coincide con un punto reale l’idea postulata da Archimede, tra l’altro realmente esistente, che deve essere individuato per mezzo di meri calcoli matematici. La matematica è la rappresentazione dello spazio mediante il numero, e l’arte è la rappresentazione dello spazio semiotico in segno semantico significativo. Il titolo del libro di Ivan Pozzoni è Patroclo non deve morire*, è un enunciato imperativo che non ammette eccezioni; nella storia Patroclo muore in combattimento, nell’opera di Ivan Pozzoni invece Patroclo deve continuare a vivere affinché la Storia non si concluda e si aprano altri scenari. «Crisi del mondo occidentale e crisi del mondo occipitale», scrive Pozzoni, con uno stravolgimento semantico nel derisorio, a cui corrisponde una crisi della forma-poesia. Crisi dunque quale strategia di assoggettamento delle masse al capitale, crisi quale strategia di sopravvivenza della forma-poesia nel bel mezzo del «tardo moderno», crisi quale punto estremo della crisi, dopodiché c’è l’implosione della crisi, la sua ricaduta, la sua scomparsa quale fenomeno e la sua ricomparsa quale essenza del Dopo il Moderno. Non c’è più un epifenomeno ma la fenomenalizzazione del fenomeno. E la forma-poesia di Ivan Pozzoni accetta la sfida del suo tempo e del proprio scacco, accetta la mutilazione quale strategia di sopravvivenza della «poesia» nell’epoca del quaternario cibernetico-mediatico. Patroclo muore sempre di nuovo, ergo, «Patroclo non deve morire». «Gettato nella flessibilità dell’oltremoderno» (dizione di Pozzoni), non c’è altra soluzione che diventare «liquidi», accettare la «liquidità» quale unica strategia di sopravvivenza. Siamo qui fuori dall’idea della mediazione, della dialettica (hegeliana, marxiana e neoliberista), della razionalità del reale; siamo all’interno di un quadro culturale che contempla solo la categoria della compossibilità di tutto con il contrario di tutto. Il reale è il prodotto della compossibilità. Nella «poesia» di Ivan Pozzoni tutto è possibile perché nulla è più reale del reale de-realizzato; tantomeno la «poesia» ha diritto all’esistenza nelle attuali condizioni di (non) esistenza. Nelle nuove condizioni del quinquenario cibernetico-mediatico la «poesia» è un guscio vuoto, una forma svuotata e de-realizzata. Nelle nuove condizioni di de-realizzazione del reale non ha più senso neanche impiegare il concetto e la procedura della de-fondamentalizzazione del discorso poetico (come sono lontani i beati anni Sessanta!): divelto, crollato il fondamento, è rimasta una impalcatura vuota, uno scheletro non più significativo. Crollato il fondamento non ha più alcun senso parlare di avanguardia o di retroguardia; e la poesia di Ivan Pozzoni accetta questa situazione con una presa d’atto priva di nostalgia; la cibernetalizzazione e la digitalizzazione del reale produce la progressiva frantumazione delle «forme» chiuse o aperte che siano, la dissoluzione dell’endecasillabo e del pentagramma sonoro del Novecento: questo «Marinetti non l’avrebbe mai scritto», dice Pozzoni; ed io aggiungo: «non l’avrebbe neanche pensato». [Avvertenza a Patroclo non deve morire, deComporre Edizioni, 2013]

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Giorgio Linguaglossa - Introduzione a Il Guastatore (2012)

     Ivan Pozzoni trae tutte le conseguenze del fatto che il locutore ha cessato di essere fondatore, e che il linguaggio ha cessato di essere la dimora dell’ego; che, insomma l’essere, l’ego e il linguaggio stanno tutti in una dimensione di galleggiamento dove presente e passato collimano con il futuro-passato. Ivan Pozzoni ha liquidato la poesia così come ha liquidato la filosofia; tutto è affondato sotto i colpi di quel machete che è l’affondamento della Fondazione. Pozzoni risolve (a modo suo) e con pieno diritto la questione della “Poesia” facendo una cosa che, molto semplicemente, è fuori-della-poesia […] Ma, direi che anche questo azzeramento mi sembra una operazione che ha i suoi risvolti positivi e negativi, tanto è vero che Pozzoni riesce meglio quando abbandona la griglia in rime che non riesce in quanto troppo telefonata, mentre riesce molto meglio quando si libera della forma-poesia […] A me la non-poesia di Ivan Pozzoni non dispiace, anzi, direi che mi diverte e mi piace, per alcune caratteristiche: che getta al macero la “neon-avanguardia” (dizione di Pozzoni) che rigetta la poesia “metrica” optando per la “ametrica”; getta tutto nella spazzatura adottando in proprio e in toto tutta la spazzatura, introiettandola in un sistema tipo Beaubourg, un sistema di reversibilità, di reversione degli ordini linguistici, metrici, tematici, sottotematici; ricuce i sotto circuiti semantici e discuce i sotto circuiti ideologici e significazionisti. Pozzoni si pone un problema molto semplice e molto serio: che la poesia contemporanea è rimasta senza un referente e senza un pubblico. E questo è un fenomeno nuovo che la neoavanguardia non si era posta perché il problema a quel tempo non si profilava all’orizzonte con la chiarezza con cui invece si pone oggi. Ennio Abate pone il problema della continuità / discontinuità? Penso che Pozzoni non si ponga nemmeno questo problema; il problema della tradizione e dell’antitradizione? Pozzoni non se lo pone nemmeno. Vuole fare il guastatore, va con le cesoie per spezzare il filo spinato che il Novecento ha posto a difesa dei fortilizi della Tradizione e del Canone, tutte parole grosse che designano un significato preciso: i rapporti di potere che sotto stanno e sottendono i rapporti di produzione tra le istituzioni stilistiche maggioritarie. Pozzoni, a mio avviso, fa bene a buttare tutto all’aria e a carte quarantotto. Non ha nulla da perdere perché non c’è nulla da perdere. Tutto è già stato perduto, e chi non se ne è accorto forse vive nel mondo rodato e patinato dei propri sogni, o perché non gli fa comodo ammettere come stanno le cose. Pozzoni non ci sta a questo gioco all’ipocrisia collettiva che va di moda nel nostro paese, dove si parla di: crisi non-crisi, poesia etica, poesia mitica, fine del realismo, poesia del quotidiano, autobiologia in poesia etc. e chi più ne ha più ne metta. Siamo nella confusione babelica di tutte le lingue e di tutte le maniere. [Introduzione a Il Guastatore, CLEUP, 2012]

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Anti-«manifesto» neon-avanguardista

Anti-«manifesto» neon-avanguardista

(Ivan Pozzoni)

 

 

«Qui giace un autistico»

 

 

 

 

     1] Odin: Ogni battaglia della «neon»-avanguardia è aeriforme [Ogni «neon»-avanguardista, scatenandosi dalla schiavitù della contingenza locale, deve accettare la sfida dei capitalismi nomadi, asfissiandone i mezzi di dominio (mass-media), recidendone la volatilità, illuminandone il lato oscuro; riconsegnato alla tangibilità ontologica della forma e del volume attraverso attentati di «solidificazione», l’anonimato delle «autorità» multinazionali, rifattosi «spazio» assaltabile, torna a essere reale obiettivo bellico dei numerosi movimenti di critica sociale, riconcedendo ad essi, allo stesso tempo, nuovi «spazi» liberi dal dominio e dalla schiavitù della contingenza locale];

 

     2] Dva: Il dialegesthai è fondamento di democrazia [Rafforzando il dialegesthai tra voci differenti, non cadendo nella rete dell’esclusione e dell’emarginazione dell’attività culturale altrui, coltivando l’universalità del diritto / dovere di comunicare, non cedendo all’attrattiva della critica destruens, evitando atteggiamenti aristocratici, si arricchisce l’autonomia individuale];

 

     3] Tri: L’atrofizzazione della dimensione narcisistica dell’artista è urgente [La strada dell’atrofizzazione della dimensione narcisistica dell’artista inizia dallo snodo del riconoscimento dell’urgenza di coordinare iniziative artistiche collettive, solidali, ed anonime, connesse al correttivo dell’epigraficità dell’arte aedica, o trobadorica];

 

     4] Chetyre: L’«opera d’arte» è filiera solidale [L’«opera d’arte» come «filiera» di interazioni feedback tra «agenti» diversi ha urgenza di riscoprire la sua natura contrattuale socialista, contro ogni forma di capitalismo, contro ogni logica di mercato, contro ogni incidenza assistenzialista; artista, mediatori culturali, editore, tipografia, distributori, corrieri, depositi, negozi e destinatari sono immersi in una vicendevole relazione di diritti e doveri];

 

     5] Pyat: L’«autore» è finalmente deceduto [Non essendo «autore» dell’«opera d’arte», l’artista non alienato e non ignorante, deve assumersi il dovere di concorrere ad essa, come tutti i restanti «agenti» della «filiera», in tutti i fattori di «produzione» (creatività, lavoro e finanza). Nel tardomoderno, con l’affermarsi del dato sociologico della collettività dell’«opera d’arte», è alienazione dell’intellettuale inattuale ignorare la nuova categoria socioeconomica del dovere d’autore, smarcandosi, con arroganza parassitaria, dai costi della (anche) sua attività];

 

     6] Shyest: La tristezza metodologica è resistenza contro ogni destino da rifiuto umano [L’uomo di cultura, contaminato dalla natura marginale del disadattamento, deve farsi terrorista contro modelli di reificazione e sfruttamento dell’umanità, reagendo all’ontologia, nichilista ed annichilente, resa attraente dalla moderna maschera del divertimento ad ogni costo, della vita trendy, con un deciso energico richiamo a un’etica della tristezza];

 

     7] Syem: Ogni «forma-poesia» è caduta [Per narrare, con i nostri inutili meta-récits la concreta implosione di «soggetto» e «oggetto» sull’«azione» è divenuto insufficiente il richiamo a una «forma-poesia» fondata, con l’«immagine» tridimensionale o con la «metafora», sul trinomio classico «soggetto nominale» / «verbo» / «complemento oggetto»];

 

     8] Vosyem: L’ironia è medium di rimorfologizzazione costante [L’ironia, come mezzo di ribaltamento, di rimorfologizzazione costante (dall’asino all’uomo e dall’uomo all’asino in asino umanitario), assume ruolo centrale nella dis-educazione del «giovane», sfuriando da una fase destruens in cui svuoti e/o abbatta ogni struttura di senso, e arrivando a costruire sensi sempre nuovi e rivivificanti];

 

     9] Dyevyat: La «militanza» è unica categoria socio/ontologica del fare cultura [Fare cultura è attività «militante», militare. Fare cultura non è un lavoro; essere cultura non è mercato. La cultura non si vende: si mantiene, si cura, si finanzia, si sostiene. Non è un diritto: fare cultura è un dovere civile. La cultura costa: dobbiamo subordinarci, a tutti i costi, ai costi della cultura (esistenziali, temporali e finanziari)];

 

     10] Dyesyat: L’arte è estetica normativa [Arte ed etica, incontrandosi sulla strada della metaetica emotivista, realizzano, insieme all’antiformalismo, una bellicosa estetica normativa individuale. I riot-texts dell’arte sono mera raccolta di testi / documento, verbali d’assemblee d’arte, rivolte alla concretizzazione dell’ideale estetico normativo della democrazia lirica e simbolo di resistenza, o sovversione, contro i valori nomadi delle élites dominanti].

 

 

     0] Poshel na khui: Il critico letterario becero (auto)-munito della dote mistica di fornire interpretazioni «oggettive» sui nostri testi è mero reperto archeologico del XX secolo.

 

(Ivan Pozzoni 1976 - 2016)