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Raccolta di pensieri di Bianca Mannu
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Il caro vecchio vizio

Il caro vecchio vizio

 

È un caro vecchio vizio prendere posto alla scrivania e riannodare i fili con i pensieri  scritti ieri, o solo abbozzati la sera prima,  rimasti impigliati a frammenti di foglio riciclato. Certo, quei pensieri si sono un po’ un po’ raffreddati.  Vanno sepolti o rianimati?

Volto le spalle al mondo formato telefono e tv, chiudo le imposte agli strepiti e alle voci, non sfoglio le cronache del giorno, non mi aggiorno sulle liste dei gruppi elettorali, né sulle promozioni sbandierate nei bollettini colorati dei supermecati, non faccio i conti e non seguo la tabella del risparmio, non penso al conguaglio spese  del bancomat, né al premio che un mio eventuale verso otterrebbe se mi attenessi alle norme dell’ultimo bando di concorso o se cedendo al gusto in corso, mi precipitassi ad impinguare di droghe emozionali l’ultimo strambotto .  Zittisco con  la radio anche la meteorologia delle miserie, respingo guasti, accompagno in discarica montagne di macerie , suggello il cuore alla pietà che crolla in borsa, inibisco alle gambe la corsa per le slot.

Pulita e abrasa occupo l’asettica stanza in attesa dei significanti imminenti, mi concentro sul foglio virtuale del pc.

Che farò? Ecco la mia tastiera che espone come in una fiera tutta la schiera inespressiva dei significanti, muti postulati per voci,  beanti articolazioni, senza significati e ancor meno significazioni.

 Senza? Ma via! Forse a non significa a? O non signica forse o?  Uhm, sì e no. Non devi accentuare l’autoreferenzialità degli alfabeti! Allora, significato basculante? Uhm, ça dépend…  Voilà le clavier de l’ordinatur: tout le monde c’est comme ça! Da un certo punto di vista.

E infatti la tastiera, come una finta gatta morta - ma senza gatta e senza la morte,  né vera né finta, del-la  gatta/gatto che non c’è- allude… Allude?  Allude verso me, perché sono un relais dell’intuizione - allude alla mia libertà: iaoanuvsesgoirrevuncalbixezèmità!

Così, però, non c’è mica gusto! Un poco mi piacerebbe, se giusto riuscissi a cavare un senso, piazzare dei sintagmi e bellamente assemblarli a indicare qualcosa di assente: una linea di terra senza terra e senza linea d’una qualche direzione, un ché incolore per le tinte uscenti da un immaginario, in vista di un erbario  umano che non sversi sul campo le solite figure intinte di vissute eccitazioni , né sciorini in calce la sua dilagante presenza  o minga il succo d’una sua diluviale essenza  con la pretesa di deporre di persona  l’impossibile norma della solita lezione.

Adesso ciò che ho scritto, non lo riscrivo, ma altrimenti lo descrivo: se vuoi seguire l’impulso, divenuto fame, sogno  incoercibile di scrivere, devi affrancarti - s’intende temporaneamente - dal mondo delle minuzie e miserie quotidiane (che non puoi espellere dalla tua fisica esistenza) devi impedire alla folla delle notizie di invadere la tua mente e di signoreggiare sulla tua attenzione, devi mettere il lucchetto alle facili emozioni, devi resistere alle commozioni, devi strappare alla lingua il tuo intestino, devi lasciare i corpi sopra lo stuoino e devi senza dovere, e avere potere per ogni dovere, di imporre, di deporre, di posporre, di frapporre , di apporre, di esporre o semplicemente porre senza alunché da maneggiare se non ordire significanti alfabetici, significanti grafici, con cui “assogare”,  catturare, liberare, detonare significati duri e puri, perituri e imperituri, immaturi e prematuri, possibili e futuri, così balzare sopra le tensioni, andare a cavallo delle intenzioni, viaggiare sui lanci accidentali e su quelli abituali  delle significazioni,  cioè sul quasi nulla dei toccamenti senza osmosi  o chimismi virulenti .

 

 

Devi ricordarti che qualunque cosa tu scriva, abiterà un mondo di pensieri già scritti, perché l’essere umano nasce con e per il linguaggio. E quello storicizzato e culturalizzato nasce per la scrittura. E tuttavia ognuno di noi ha almeno un potere minimo, quello di situare la propria esistenza comunicativa in un interstizio specifico che fa la differenza. Ma questa non è una conquista facile, perché frequentemente si cade nel vischio di rimanere abbagliati e imprigionati entro motti già esistenti e facilmente riproponibili con infinite varianti. Ma questi non sono solo motti, sono mondi di relazioni già elaborate di cui finiamo per rivestirci come di una maschera vuota perdendo la nostra specifica dimensione.   La spontanità espressiva ha in realtà ben poco di spontaneo, accoglie e ripropone quanto trova, provocando deliri di potere pseudocreativo. Il tasso di godimento soggettivo è in questi casi così forte da inibire un movimento, linguisticamente parlando, di vera creazione, che si vorrebbe tale da restituire in modo inedito il nostro vero rapporto col mondo che siamo capaci di portarci dentro.

Una cosa non ho detto che è primaria e propedeutica al cimento letterario: lo studio e la lettura, non solo di prodotti letterari, ma di ogni sapere capace di incrementare la nostra intelligenza e sensibilità.

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Sotto l’ombrellone giallo-verde: liberi pensieri di Bianca

Malgrado la problematica e dilagante proliferazione umana, il mare disegna oggi, purissimo, il suo orizzonte blu; e sotto il suo drappo mattinale, così setoso, nasconde perfettamente il suo fondo cimiteriale e dissimula con incredibile cosmesi neoformazioni inquietanti.Oggi il mare giace nell’intervallo di una meteopatia sedata. Come in un dipinto antico (dove lo si presume colto nella sua prossimità allo stato virginale) appare placidamente amico nelle sue variegature d’azzurro, intento a duplicare un cielo popolato di trasparenze e nuvole fioccose.

Eppure, certamente, con le precipitazioni dei giorni scorsi, il cielo ha pianto gli ormai soliti veleni, ignorati dal pigro formicolio degli appassionati del bagno di sole che precede il successivo di acqua marina.

Tutto, quel tutto minimale dove può giungere l’occhio lucroso degli habitués, tutto è dolce, sommessamente buono per il gaudio dei frivoli, cioè  di tutti noi animaletti bipedi presenti sull’arenile dei Centomila (braccio quartese), intenti a imbalsamarci di creme, a spidocchiarci come scimmie, a commisurare la nostra con la pancia degli altri, confortati dalla modesta, ma splendida amenità del luogo,  del momento e del temporaneo privilegio.

Il destino, quello cinico e baro, chiamato a presentarsi di persona da un tribuno ambiguo, sembra viaggiare al momento ben oltre l’orizzonte, oppure, chi sa, nascondersi negli anfratti costieri o forse nei gadget spaziali, occhi lunghi e insidiosi, che il sole cancella nello sfolgorio dei raggi, un po’ causa e un po’ complice della nostra isolana sonnolenza colposa.

Noi, gente d’Isola e luogo di sbarchi provvidenziali quando butta tempesta, noi da millenni navighiamo soli o male accompagnati, e pare che quasi non ce ne accorgiamo. Astiosi tra noi, abbiamo lasciato che i lupi bianchi ci rosicchiassero fino alle budella, ché tanto abbiamo l’Origine e la genia Neolitica!

Ed è a causa di tale  ancestralità (di cui andiamo talvolta fieri, talaltra vergognosi, riesumata nella sua crudezza, ma poi,  rivestita, per la sua commerciabilità, nelle varie esplosioni di sagre e di cortes adescanti, con addobbi da bric-à-brac allestiti alla buona con i rottami di qualche prosperità subalterna, peraltro vicinissima alla miseria servile degli ex valvassini) che siamo incapaci di vivere il nostro presente, di prefigurarci un futuro, magari condito d’acredine, ma diverso da una “balentìa” bacata in radice.

Di questo e d’altro mi arrovello dentro la mia non ingrata solitudine da spiaggia. E mi pare una vecchia galera alla deriva questa terra, non da marinai governata, ma  semplicemente usata da una filibusta di vecchie pantegane.

Contro di loro, noi (sa gentixedda) possiamo perfino arrabbiarci per un momento, ma non riusciamo a uscire dalla condizione di topi subordinati,  l’un contro l’altro in lite per qualche briciola sfuggita alla pantagruelica voracità dell’intero Areopago isolano e oltremarino.

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Pensiero sintetico sul tema del potere

 

 

Bisogna essere in molti a volerlo esercitare (il potere) tale da divenire una forza capace di incidere e cambiare lo stato delle cose. Forse bisogna liberarsi del concetto che fonda il nostro sistema produttivo, e che io giudico di massima immoralità, e che è questo: il fare profitto, mettendo tra parentesi il come, il perché, a quali condizioni e a beneficio di chi, come motivazione fondamentale di progresso.  L'accumulazione dei beni in forma di merce denaro, consegna ai pochissimi e alla loro avidità, il controllo dei bisogni vitali di tutti, espropria i molti del proprio ambito vitale e della propria libertà, asservisce tutti all'orrore dell'essere ciascuno lupo per l'altro (homo homini lupus. T. Hobbs)  Ma questa qualità evidenziata da Hobbs, non è una qualità naturale, è squisitamente umana, perché l'animale non progetta di accumulare e neppure organizza lo sfruttamento del lavoro altrui in vista del proprio profitto, tanto meno organizza il sapere e la morale con questi scopi. Forse è questa la critica  che Papa Francesco,dietro Marx, esprime nella speranza di risvegliare il senso di ciò che è veramente importante nella vita umana.     

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Scrittura come messaggio?

Ricorrentemente mi aggiro in un luogo mentale indefinito, un alcunché attraversi senza denotati fisici il nodo sensibilità-mente-memoria-lingua, una sorta di città delle parole come labirintico laboratorio mentale, nel quale sono nate, per esempio  i testi di Tra fori di senso, (di cui immodestamente sono autrice). Da una siffatta officina possono tuttora nascere per essere scambiate/fruite riflessioni, narrazioni, poesie e altro ancora, di quanti militino nel difficile incrocio tra linguaggio/parola, ingranaggi dell’immaginario  e inquieti cimenti su/per/contro/oltre l’accidia del senso comune che allude alla più opaca e a noi più contigua cosa, in forma di problema sempre aperto e congetturale: la realtà, la quale involve anche il fare scrittura.   

  Ricorrentemente farnetico tutta sola con la mia ossessione: i possibili sensi del messaggio poetico, se e quando esso può considerarsi messaggio; vale a dire, discorso “che vuol dire”, che parte da un emittente per incontrare dei riceventi/lettori e persino eventuali corrispondenti.  E pur oscillando sui dubbi, insisto nel pensare che le opere poetiche (esiti di attività manipolatorie a più livelli), anche quando, in apparenza, non vogliono comunicare specifiche cose o vogliono apparire sfiati di interne e personali tensioni o nenie per l’autoconsolazione del-la poeta bambino/a, sempre sono messaggi, in sosta per imminente partenza o avviati a incontrare il proprio compimento  in chi avrà il capriccio o la volontà di farsene destinatario e interprete. Senza un siffatto destino, l’opera (a meno che non scompaia nello status di feto abortito, e allora non sia), è e resta un “carme presunto”, come sostiene J. L. Borges.

Questo che dico è un punto di vista che non si propone come salvacondotto per qualsiasi cosa venga prodotto in nome della letteratura e della poesia. Al contrario, insiste nell’accollare agli autori la responsabilità – sia pure non totale né esaustiva - di costituirsi come possibile provocatore-interlocutore di umani, viventi e futuri, oltre i tempi/luoghi generazionali e oltre i tempi/luoghi delle culture particolari. Questa possibilità mi affascina perché mi pare suscettibile di attivazioni che non prevedono conclusioni e apre a uno spazio malsicuro e tuttavia affascinante.

 

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Modelli e stereotipi

 

Non conosco altra monotonia se non quella che mi viene imposta. Il conformismo più bieco e più stupido cambia spesso vestito e si atteggia anche alla trasgressione, quella finta, disimpegnata, e si accoda acriticamente alla moda, che è poi l'insegna dell'assoggettamento a un modello la cui razionalità è assai problematica. Ma serve a illuderci che facciamo parte del branco.