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Raccolta di pensieri di Annalisa Scialpi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Verlaine: maudit e innocente, recensione di Annalisa Scialpi

 

 La poesia di Verlaine sembra essere votata, come l'esistenza del poeta, alla 'fatalità' dell'amore. Si respira, in realtà, nei suoi versi, un accostamento tra ricerca dell'amore e della 'sensazione', che diverrà l'elemento principale dei suoi versi. In linea con la poetica del suo maestro, Charles Baudelaire, considerato il cantore delle sensazioni squisite, unico modo per accedere all'estasi in una società dominata dalla volgarità della borghesia, in ascesa fino alla 'modernizzazione' di Parigi (che prenderà forma definitivamente durante la fase del secondo impero di Napoleone III), è la ricerca dell''innocenza' della sensazione stessa. Obiettivo estetico che, più tardi, prenderà forma nel movimento pittorico dell'impressionismo e che farà di Verlaine un anticipatore del movimento simbolista.

Con Verlaine entriamo quindi in un mondo poetico fatto di emozioni, sensazioni, che esondano da un cuore con l'anelito dell'innocenza. Si tratta della qualità dell'anima che vuole catturare l'attimo segreto in cui le cose si rivelano e i fiori spandono il loro vero profumo: l'attimo di una epifania.

Sulla fede in quell'innocenza il lettore più critico potrebbe scorgere il dubbio, reso dalla stessa vicenda autobiografica del poeta, che lo vede in bilico tra ferocia e compassione, vocazione alla 'maledizione' e contemporaneamente ricerca della conversione. Non potrebbe, in sintesi, quella 'fede' nell'innocenza dell'attimo rivelatore essere appiglio di un animo in fondo immerso nel conflitto borghese, incapace di offrire, invece, una più matura 'visionarietà' e quindi una vera rivoluzione poetica?

Colpisce, in ogni caso, nella poesia di Verlaine, il canto accorato che si fa preghiera, ricerca scaturita, in fondo, da un animo infinitamente bisognoso di essere com-preso, unica grazia in grado di dissipare i tenaci chiaroscuri che travagliano l'anima del poeta.

L'età dell'oro ricercata nella forma dell'innocenza assume, quindi, toni lirici e slanci poetici autobiografici:

 

Io faccio spesso un sogno strano e penetrante,

sogno una sconosciuta, che amo e che mi ama,

che ogni volta appare diversa, né la stessa

né un'altra interamente, che mi ama e mi comprende(...)

in “Il mio sogno familiare”.

 

Ma, parallela a questa ricerca della pienezza d'amore, si affaccia l'ombra del maudit, che emerge dai suoi incubi e gravi manie, che lo porteranno a una vita d'eccessi, soprattutto dopo l'incontro 'fatale' col poeta Arthur Rimbaud, col quale condividerà un periodo esistenziale di vagabondaggi, fino al tragico epilogo dell'arresto.

La figura femminile rimane ammantata anch'essa dal paradosso, tipicamente baudelairiano, della donna salvifica e parimenti, crudele. E tuttavia non vi è giudizio nei confronti della 'crudeltà', della 'violenza', quasi che questa fosse necessaria alla vita, al germogliare della sua irruenza estrema, quel 'vitalismo' che ne rappresenta l'irradiazione necessaria.

Non mancano toni elegiaci o melodrammatici, nelle sue poesie. Il tormento del poeta è in prima scena, talvolta con esiti di spettacolarizzazione e di estenuazione del sentimento.

Verrebbe da domandarsi quale significato racchiuda la parola 'amore' per Verlaine o se il sentimento ricercato dal poeta non sia più simile a una sorta di 'follia o paradosso misticheggiante' capace unicamente di dar luce alle vette della sua poesia. Il poeta errante e maudit, il vagabondo, assume così nella sua epoca un aspetto quasi mistico. Egli sarà infatti considerato Maestro da molti giovani poeti. In preda a un'ebrezza dionisiaca, il poeta si concede allora all'attimo, certo che solo questo nutrirà, attraverso la sensazione, il suo bisogno di unione con il Tutto.

La poesia, allora, scorre come acqua cristallina di una melodia pura. L'epifania poetica apre a una speranza immensa, a un sogno di purezza e di innocenza che appartiene alla gioventù, compresa quella dello spirito, di cui il poeta è incarnazione.

L'immensa speranza giustifica il caos e gli eccessi della vita del poeta come ribellione alla monotonia e al fango della società borghese livellante e schiavizzata, dalla quale tuttavia sgorga, come riscatto, la pura poesia. Questa irradia la luce chiara di un'esistenza diversa, in grado di sacrificarsi al grande Ideale estetico, di cui il poeta riceve il Crisma dell'elezione, proprio attraverso il suo essere maudit. O, in altre parole, diverso.

 

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La sconcertante attualità di Le fleurs du mal

Baudelaire, la sconcertante attualità di Les fleurs du mal, di Annalisa Scialpi

    Charles Pierre Baudelaire nasce nel 1821 a Parigi e vive in un periodo storico denso di illusioni e di contrasti, fin troppo permeato dagli ideali illuministici che hanno spazzato via ‘il vecchio’. Anche se questo torna alla ribalta, pretendendo gli antichi privilegi delle vecchie monarchie. Problematica è anche la sua vita: a sei anni perde il padre e i rapporti col patrigno, il tenente colonnello Jacques Aupick, sono segnati da contrasti e ostilità. Dopo una tentennante carriera al liceo Saint Louis, dove conseguì, nonostante tutto, la maturità, si diede ad una vita bohémien, dedicandosi alla letteratura, ma anche frequentando prostitute e accumulando debiti nel gioco. Frequentò circoli letterari, conoscendo celebri personalità nel panorama artistico e letterario, dove peraltro si sperimentavano gli effetti di uso di sostanze stupefacenti sull’ispirazione poetica. Collabora con saggi, critiche e poesie su alcune riviste. Nel ’48, inoltre, partecipa ai moti rivoluzionari parigini. Les Fleurs du mal fu la sua grande opera. La pubblicazione dell’opera gli costò un processo, per il quale dovette pagare una multa di 300 franchi e eliminare sei poesie dalla raccolta, con l’accusa di oscenità. Morirà a 46 anni, per ictus ed emorragia cerebrale, con un corpo ormai sfinito da una decadenza trascinata da anni, anche in seguito all’uso di droghe. Si spegnerà tra le braccia di quella madre, il cui rapporto contrastato e pieno di conflitti, troverà la pace nell’ultimo abbraccio.

     Ma chi è Baudelaire? E’ l’esteta, il cacciatore di emozioni sublimi, che il poeta cerca di salvare dalla corruzione del sistema, operata dal potere politico. Siamo ‘sull’orlo del precipizio delle certezze’ che troverà l’apoteosi con l’esistenzialismo di Sartre, avvallato da Heiddeger. Nel mondo dove l’essere è sospeso sul nulla, il tentativo di cercare una metafisica basata sull’estetica e sganciata da ideali religiosi, intrapresa da Baudelaire, si innesterà nella nascita della psicologia analitica di Jung. Per questa disciplina il simbolo di Baudelaire diverrà l’archetipo, cioè il ponte tra visibile e invisibile, conscio e inconscio.

      La critica di Baudelaire alla società borghese è feroce: essa è l’origine stessa della decadenza, dell’abbrutimento e del tentativo di soffocare la giovinezza e vitalità del mondo in un pragmatismo sterile.

Leggendo Baudelaire viene da pensare all’ideale di ‘bellezza’ dominante ai nostri giorni. Si tratta, ancora oggi e sicuramente anche in toni più marcati rispetto all’’800, di una bellezza che non proviene ‘dagli dei’, cioè dalle grandi idee della natura, rappresentate dal mito, ma una bellezza artificiale, costruita su modelli preimpostati, funzionali alla società del potere e del consumo.

     Ci si accorge, leggendo le poesie di Baudelaire, che il respiro è bloccato. Le ali recise imbrattano e insteriliscono il mondo. L’uomo medio o medio-cre è lontano dall’estasi e si aggira in un mondo oscuro, caratterizzato dalla tenebra dell’ideale. Lontano da esso è lo spirito o la trascendenza ‘singhiozzo ardente che sorre di evo in evo’. Corpi flaccidi, segno della più grave ‘flaccidità’ dello spirito si muovono sulla scena, scorrendo nel vuoto carnevale della modernità.

     La poesia di Baudelaire è, inoltre, autobiografica. Il poeta, nella sua malattia (le mal) che è lacerazione dello spirito, diventa però ‘fiore’ di consapevolezza, ancorato all’esistenza. Quell’ancoraggio che è lontano dal borghese addomesticato e omologato, privo di spessore e di individualità e appeso al cappio del dio dell’utile. Quello stesso dio che è tappa verso il fango del nichilismo. Il ‘male’ del poeta diviene così fermento poetico e profetico. Rifugio ma anche riscatto. C’è la fierezza dell’albatro, nel poeta, che gode le primizie dello spirito da uno stato di estasi. Il poeta viene rappresentato come il don Giovanni fiero, perennemente innamorato, ma troppo distratto per concedersi all’amore. Un uomo confuso dal piacere, senza che esso possa trovare appiglio nella sostanza stessa dell’amore. Eppure fiero. Dannato e fiero.

     Nel triste spettacolo dell’esistenza la bellezza, simile a un gigante di pietra con le sue forme eterne e mute, continua a chiamare il poeta. Ed è la purezza, la ‘clarté éternelle’ che permette al poeta di discernere quel richiamo.

     La Bellezza a cui tende il poeta è ambivalente. Angelo o sirena ammaliante, la donna è vagheggiata quale archetipo per eccellenza della bellezza. Sognata, idealizzata, ma anche respinta. Come se il poeta null’altro desiderasse se non la fusione erotica, temendola nello stesso tempo. La ‘gigantessa’ all’ombra dei cui seni il poeta desidera riposare può, in ogni momento, rivelare la sua natura maligna e fagogitante. Angelo o mostro, la figura femminile oscilla su questa ambivalenza che è, in estrema sintesi, l’ambivalenza della bellezza stessa, chiara o oscura, dolce e feroce. Ma il contrasto non impedisce al poeta di innalzare la donna a idolo, di cui egli stesso riconosce tutto il mistero e la struggente bellezza. Donna idolo, donna medium; in lei la bellezza si incarna, morde, trasporta il poeta verso l’estasi, l’ideale che non ha né bene né male, ma narra e incarna il desiderio di infinito e di totalità. Fiore di quel male, che è l’aspirazione stessa all’eternità.  

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Il salto quantico: dall’homo materialis all’homo immaginalis

L'homo materialis vive per la materia. Cioè è convito che l'Universo sia oggettivo, materiale. Anela alla ricchezza, ma non la raggiunge mai. La ricchezza, infatti, non è qualcosa a cui anelare, ma da ricevere. Qualcosa che ci appartiene in quanto la natura (compresa la natura umana) è ricchezza e prosperità. Essere ricchi è saper attingere idee, tesori, dal regno di Ade, padrone delle ricchezze e sovrano del regno invisibile. Ma l'homo materialis ignora cosa sia il mondo invisibile. Così come ignora la missione dell'anima. Vive nell'illusione dell'oggettività delle cose, per cui è vittima del mondo. E' vittima della morale, strumento del potere costituito. E' necessario, per fare il 'salto quantico' dall'homo materialis all'homo imaginalis (o uomo nuovo) aprire i veli che separano il visibile dall'invisibile, tenendo insieme la vita e la morte. Lo strumento è la meditazione, che non significa solo starsene immobili a gambe incrociate. Meditazione è consapevolezza del corpo. E' osservare il movimento fluttuante della mente e delle emozioni. E' diventare il testimone, con una consapevolezza via via più sottile.La meditazione è ciò che consente il passaggio dall'homo materialis all'homo imaginalis. La via verso la ricchezza vera.
Annalisa Scialpi

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Sul nostro tempo

Penso che il nostro tempo sia più ingenuo, disorientato e stolto, rispetto alla prima società industriale. In questa prevaleva, infatti, l'ottimismo dell'illuminismo e del positivismo (quel periodo storico in cui si credeva che la scienza, unita all'idea di progresso, avrebbe finalmente potuto prevedere o 'sistemare' i molti problemi e disagi della civiltà). Questa illusione, come il canto delle sirene di Ulisse, è stata ampiamente sconfermata non solo dalle catastrofi naturali prodotte dal progresso, ma dalla constatazione che 'la scienza' non ha risolto disagi e alienazione dell'uomo, nonostante oggi ci sia un esperto per tutto e si creda che la dittatura farmacologia sia l'unica via per uscire da una pandemia: roba che fa ridere i polli e tornare, appunto, alla dittatura.). L'essere umano non è più felice, ma disorientato, impaurito, arrabbiato...E soprattutto alienato dalla sua stessa essenza e perciò incapace di stabilire vere relazioni di solidarietà. Questo mito del progresso è un grande giocattolo che sta cadendo a pezzi, ma tanti sono i rematori che cercano, disperatamente, di tenerlo ancora a galla... Io penso che la risposta a tutto questo accanimento verso le illusioni possa essere trovata in una parola: povertà. Niente a che vedere con la scarsità, ma uno stile di vita semplice, che predilige l'essenziale, il rapporto con noi stessi e con le piccole cose. Il rapporto con la natura. Uno stile che porta al rovesciamento dei falsi valori sociali. Un sano egoismo che significa riprendersi i propri spazi di meditazione, di riflessione. ritrovare le proprie radici. Ritrovare la memoria. Ritrovare le parole giuste per dire l'amore. Questa, per me, è rivoluzione.
Annalisa Scialpi
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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A proposito di vite precedenti....

Quando si fa riferimento alle vite precedenti

si apre la ‘contesa’ tra coloro che vi credono

e coloro che, per svariate ragioni, spesso per

dogmatismo o ‘paura’, si dimostrano

scettici o addirittura ostili (come se l’ipotesi

andasse a ledere i propri ‘contenuti di fede’).

In realtà è probabile che sia la formula ‘vite

precedenti’ a trarre in inganno, perché inganne-

vole è la dimensione della temporalità, valutata

secondo una logica lineare che inizia con la

‘nascita’ e finisce con la ‘morte’.

Ciò che è ‘precedente’ continuamente vive

nell’unico punto che è il momento presente

e se potessimo riunire le impressioni generate

dalla ‘messa in quadro’ del passato (o vita pre-

cedente) ci rendemmo conto del processo

‘a ripetizione’ di alcuni eventi.

Allora perché negare che questo processo o ciclo

del divenire sia limitato ad una sola esistenza?

Perché ‘mettere in riga’ la dimensione percettiva

In una dimensione omologante e riduttiva del

tempo lineare?

La prospettiva della reincarnazione apre alla

dimensione della speranza e ad una diversa

concezione della temporalità, che diventa non

‘limite’ ma ‘occasione’ di sfruttare appieno i nostri

talenti in considerazione delle possibilità evolutive

della nostra anima, che non finiscono con la ‘morte’.

Tali possibilità evolutive dipendono dal nostro impegno

e dalla nostra certezza, più che fede, nell’evoluzione dell’anima

e ci spingono a non darci mai per vinti, anche a 150 anni, perché

non ci sono limiti temporali al compito dell’anima che siamo

venuti a ‘ricordare’ e compiere.

Annalisa Scialpi

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La storia, antidoto alla disumanizzazione

Nella realtà attuale i poteri economici, politici

e religiosi riescono a esercitare il loro controllo

attraverso lo ‘spezzettamento’ della trama delle

storie individuali e della storia collettiva che racchiude

non tanto la saggezza di un popolo, quanto la

saggezza universale.

    Il pensiero logico-funzionale, strumentale,

portato avanti dalla tecno-scienza imperante

e a servizio di quello che Fusaro definisce

‘monoteismo del mercato’

ha sfaldato e frammentato lo stesso tessuto

psichico che, per sua natura, si organizza attorno

a una storia. Memoria semantica (dei significati) e

memoria episodica (legata alla storia personale)

sono, infatti, intrecciate.  Quando questo ‘tessuto’

di memorie si riunifica, si ritrova soggettività, coscienza

e consapevolezza. Ci si libera dai condizionamenti sociali,

da una società che ci vuole pedine consumatrici, oggetti

inanimati sottoposti alla stessa usura degli oggetti,

competitivi ma senza meta, efficienti ma senza significati.

In poche parole, privati della nostra

natura spirituale, soli e diffidenti. Malati.

Quando troviamo la verità della nostra storia e la

intrecciamo alle verità delle storie che ‘capitano’

sul nostro percorso, possiamo rompere questo

incantesimo. Fuggire da questa follia disumanizzante.

Ritornare a casa.

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La famiglia d’anime.

Siamo troppo attaccati alla consapevolezza delle distorsioni educative subite nella famiglia d'origine. Carichiamo i nostri genitori biologici di troppe responsabilità e colpe. Li investiamo di una carica spropositata, come se fossero idoli. In realtà, stiamo solo proiettando su di loro gli archetipi che la civiltà ha costruito sul ruolo di padre e madre. Rimaniamo perciò legati ai nostri genitori da vincoli di avvicinamento/allontanamento, amore/odio e, con queste catene, restiamo eterni bambini. Dovremo vederla diversamente: i nostri genitori biologici sono soltanto 'medium' attraverso i quali facciamo ingresso nel mondo. Abbiamo, invece, una famiglia d'anime alla quale siamo legati da vincoli, appunto, d'anima. Ci sembra strano agire credendo di essere ispirati da 'altro' o da 'altri' che non siano i nostri condizionamenti ma, se diventiamo testimoni distaccati, osservatori dei nostri stessi pensieri, ci accorgeremo che è così. Siamo costantemente ispirati da 'voci' sconosciute. Nella nostra vita ci capita poi di fare quell'incontro che, per una ragione sconosciuta, ci ispira o ci appaga. Si tratta di persone con le quali, senza sapere perchè, ci sentiamo a casa. Noi stessi fino in fondo. Queste persone appartengono alla nostra famiglia d'anima. Il compito di queste persone che incontriamo e che, a volte, (momentaneamente) perdiamo di vista, è quello di ricordarci la nostra missione su questa Terra, nel luogo in cui ci troviamo o in cui abbiamo deciso di stare. Ci spronano ad agire senza legarci troppo a luoghi o persone, perchè la nostra casa è altrove: loro sono la nostra casa! Il senso di nostalgia e di esilio che taluni di noi sentono non è altro che il desiderio di tornare a casa.

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Non servono grandi uomini e grandi ideali

La società dei ‘modelli’ degli ‘esempi’ dei ‘grandi uomini/ grandi ideali’

è, per fortuna, crollata da un pezzo.

I grandi uomini sono spesso i grandi assassini celebrati nella grande storia.

I grandi ideali sono quelli che hanno condotto ai peggiori crimini dell’umanità:

nazismo, fascismo, comunismo.

Credo che stiamo entrando in una nuova fase della storia,

quella fondata sul ‘recupero del femminile’ che significa:

buon senso, curiosità, compassione, amore, pietà.

Questi non sono ideali; sono leggi della natura. Universali.

Questo richiede il coinvolgimento di persone che hanno il

coraggio di saper incontrare se stesse e di partecipare

a questo cambiamento che implica il prendere coscienza

delle tradizioni e pratiche che appartengono a popoli

schiacciati dalla ‘religione’ e dalla ‘civiltà’.

Ce la possiamo fare!

Non servono grandi uomini

e grandi ideali: serviamo noi.

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L’unica alchimia

Quando Amore appare, vediamo le sue grandi ali.

Ne avvertiamo il tepore.

Un'energia irradia da esso e si traspone, come fuoco,

nelle nostre midolla.

Vogliamo quell'amore, perchè sentiamo di esserne presi.

E tuttavia, non possiamo prenderlo: è un Dio, Amore e noi,

mortali.

Possiamo allora crogiolarci nella dolce ossessione.

Fingere di allontanarlo con la lama di lucidi pensieri,

ma solo per soccombere, nudi, derisi, ai piedi del suo altare.

E' qui che Amore svela il suo volto terribile:

il fuoco diviene ghiaccio che spacca le ossa,

la calda corazza che ci ha avvolti nell'illusione del tepore.

Nudi, umiliati, respinti,

non ci resta che il cammino inverso

sul selciato di ciottoli taglienti della nostra storia:

un Calvario rovesciato dove, forse, moriremo

o rinasceremo,

mentre l'immobile sfinge del nostro amore

ci guarda, senza vederci,

con occhi di vetro.

E il sangue che perdiamo è tanto

che acceca la vista

e, se ndiamo vomitando parole amare contro Amore,

è per quel sangue che perdiamo.

La Mecca della Speranza è la meta,

il Santo Graal del sangue nuovo, la via

dove, forse, risorgeremo.

Perchè l'Amore è l'unica alchimia.

Annalisa Scialpi