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Raccolta di testi in prosa di Alessandro Carnier
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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IL fiume madre

 

 

Andare sul fiume, questo fiume, è fare… era un impulso innato che Beppe aveva avuto fin da bambino, poiché molto da giovane e da adulto, ma anche da vecchio, si rendeva conto che il fare in fin dei conti era un modo reattivo per fronteggiare i problemi che il vivere ti impone. È la volontà che conta, tutto il resto svanisce come la foschia del mattino che con il primo sole evapora.

Era ormai pomeriggio inoltrato e si era alzato dopo essersi addormentato sul vecchio divano, ma non per andare alla stalla, a quello ci pensava Maria, sua figlia, o sui campi dove c'era suo figlio Dino, si sentiva ancora il rumore del trattore. Aveva preso la sua canna da pesca per andare sul fiume a vedere se c'era ancora qualche trota. Erano anni che non si recava sul fiume a pescare, aveva sempre lavorato molto sui campi e alcuni periodi della sua vita rinchiuso nei capannoni delle fabbriche, sapeva che il fiume per via dell'inquinamento è dell'incuria non era più lo stesso, i suoi amici spesso si erano lamentati dell'impoverimento della fauna ittica, in ogni caso voleva accertarsi di persona delle sue condizioni. Non aveva detto niente a Maria, perché avrebbe certamente tentato di dissuaderlo. Da quando aveva festeggiato i settant'anni, i figli lo trattavano come un bambino, si preoccupavano per ogni cosa che lo riguardava, lui li lasciava fare.

Percorse così la strada sterrata col suo motorino Piaggio ciao, vecchio quasi tanto lui, attraversò i campi e poi i pioppeti e la sterpaglie a ridosso del greto ghiaioso. Si fermò nel solito punto, prese in mano la canna e la borsa con qualche verme e altre poche cose e s'incamminò lungo l'ampia sponda. Anche quest'anno, ad ascoltare i notiziari in TV, pareva che la fine del mondo fosse vicina: la siccità, appena non pioveva per qualche giorno, le bombe d'acqua, quando si avvicinava un forte temporale. Il paese era sempre in emergenza, ma lui non se ne curava. Durante la sua esistenza aveva visto che normalmente la natura aveva alternato annate più calde e più fredde, raccolti abbondanti e magri e non sopportava più quella nutrita fauna di esperti in ogni campo che infestavano trasmissioni televisive e quotidiani, motivo per cui il televisore era quasi sempre spento, se non nelle rare occasioni in cui di notte guardava qualche vecchio film in bianco e nero.

Beppe si avvicinò all'acqua nel punto dove la corrente si placava rallentando in un'ampia e profonda e larga ansa che formava un gomito, e dove spesso le trote si riposavano attendendo gli insetti che cadevano esausti dopo aver volato tutta la giornata. Notò casualmente una cavalletta di colore verde, ferma, immobile, vicino alla borsa appoggiata accanto al suo piede sull'erba, la bloccò istintivamente come aveva fatto tante volte da ragazzino, quando d'estate in quel posto ci veniva a piedi scalzi durante quelle lunghe giornate infuocati nel mese di luglio, quando l’aria vibra sotto la vampa del sole e i refoli di vento resi roventi dalla ghiaia dell'alveo del Tagliamento portano a tratti il rumore delle trebbiatrici al lavoro nei campi.

Beppe la utilizzò come esca al posto dei vermi, poi lanciò più volte a monte, in modo che lentamente la corrente la portasse sotto l'ombra di un gruppo di acacie prolungata sull'ansa del fiume. Inaspettatamente quando ormai stava per abbandonare la sponda il galleggiante affondò bruscamente, seguito da uno strattone deciso della lenza che fece piegare la canna con la punta che penetrava in acqua tutte le volte che il pesce per sfuggire cambiava repentinamente direzione. Beppe sapeva bene che doveva trascinarlo sulla sponda bassa e ghiaiosa, evitando le ramaglie trascinate sul fondo nella parte più interna del gomito del fiume, dove era immobile, col rischio che il terminale si strappasse. Fu quando dopo parecchi minuti, quando ebbe la sensazione che quella che doveva essere una grossa trota si fosse stancata e opponesse meno resistenza, quando lentamente trascinandola verso la sponda dove l'acqua era più bassa, che avvertì una presenza inquietante. Infatti, a una ventina di metri alle sue spalle, controluce, si stagliava la sagoma di quello che Beppe pensò fosse dapprima un grosso cane randagio.

Disturbato da questa presenza allento la presa sulla canna, per essere un cane, assomigliava troppo a un lupo. Il torace massiccio, le orecchie tese di forma triangolare e la base molto larga, le zampe sottili, i peli lunghi e setolosi. Il colore grigio del mantello con sfumature più scure, dal marrone al rossiccio. Somigliava troppo a quelle immagini viste più volte in TV e sui social Internet. Si ricordò di un articolo letto sul giornale locale degli avvistamenti di lupi e degli innumerevoli attacchi a pecore e vacche nelle vicine montagne, ma non poteva credere che si fossero spinti così a valle.

Beppe lentamente portò il pesce a riva, e fulmineamente la bestia entrò in acqua e afferrò la preda strappando il terminale, poi si dileguò tra i cespugli con la trota serrata fra i denti. Beppe raccolse la borsa è s'incamminò verso il punto in cui aveva lasciato il motorino, tirando un sospiro di sollievo. Rientrando a casa non si stupì più per l'accadimento, poiché trovava possibile che qualche lupo potesse essersi spinto così a valle, la montagna era già da molti anni che subiva un forte e continuo abbandono, ad esclusione delle località turistiche più rinomate, i boschi erano per lo più incolti, e perciò si ripromise di prestare più attenzione la prossima volta che si fosse recato sul fiume.

Quella sera rientrò a casa senza accennare nulla ai figli dell'accaduto, anche perché non era ormai certo che fosse un lupo e con molta probabilità l'avrebbero certamente deriso, era la prima volta che forse ne aveva visto uno. Passarono dei giorni nella più assoluta consuetudine. Una sera ricevette una telefonata.

Pronto, chi parla?”

Ciao Beppe, disturbo, non stai mica cenando?”

No, tranquillo Attilio, sto sorseggiando il solito dito di grappa.”

Bene, anzi no, non mi va bene. Questa mattina ho trovato una vacca morta, l'avevo lasciata fuori nel recinto insieme ad altre cinque. Mi ha svegliato il cane, abbaiava e ringhiava, così sono uscito a vedere... il tempo per arrivare al recinto e l'ho trovata con la gola squarciata e con altre ferite, come se fosse stata morsa a morte. Anche il cane era ridotto male.”

Ho paura che si tratti di lupi, ne ho incontrato uno giorni fa.” Bepi riferì ad Attilio dettagliatamente l'accaduto.

La voce dell'avvistamento si sparse in paese, e le autorità, sollecitate dai notiziari e dai giornali locali si occuparono del problema. In un primo momento si parlò di cacciare e sopprimere il lupo, ma poi sull'onda delle proteste animaliste e di interviste fatte a esperti, nulla venne fatto a causa delle solite lungaggini burocratiche con lo scaricabarile delle responsabilità e di chi in sostanza avrebbe dovuto intervenire, finché la questione venne assopita da nuovi accadimenti.

Beppe il mattino seguente salì in auto e raggiunse Attilio. Giunse nel cortile di casa mentre stava armeggiando con un fucile da caccia.

Che stai facendo Attilio?”

Sto pulendo il fucile, non lo vedi! Se quei lupi si fanno vivi, non mi troveranno impreparato Beppe.”

Lascia perdere, avrai solo guai. Non credo che si possano sopprimere i lupi, sono una specie protetta. Se lo fai, ti ritroverai alle costole la forestale, e magari anche una denuncia sul groppone.”

Se non faccio qualcosa, rischio di perdere altre vacche. Ai tempi di mio padre queste cose le avrebbero affrontate diversamente. In montagna se abbattevi un orso ti davano la taglia.”

Attilio i tempi sono cambiati, e non in meglio come speravamo, quando eravamo giovani e il futuro ci appariva radioso e pieno di promesse, le stanghette dell'orologio sono andate all'indietro, perdendosi per strada i diritti acquisiti e pezzi di libertà. Vedi anche tu, che nessuno decide niente, e anche se ci scappasse un morto, troverebbero una scusa per giustificarlo. Siamo nell'epoca delle grandi bugie, delle incrollabili certezze e della fede religiosa nelle scienze e nei modelli matematici. Quei pochi che si pongono dei dubbi non vengono ascoltati, ma sono derisi e screditati.”

Mi pare un mondo che gira al contrario, dove tutto è sottosopra Beppe. Gli animali vanno rispettati, ma se uno di essi diviene pericoloso per gli allevamenti è l'uomo andrebbe abbattuto, non ti pare?”

Così avrebbero agito i nostri vecchi, ma ora come ora le cose si sono invertite, l'uomo è sacrificabile perché in soprannumero, soprattutto gli anziani, mentre molte specie animali sono in estinzione, quindi più preziose per i paladini dell'ecosistema. A qualcuno sarà forse venuto in mente di diminuire la popolazione della terra, partendo magari dai vecchi che non sono più produttivi. Viviamo nella società fondata sul libero mercato, è chi non è utile va smaltito come un rifiuto qualsiasi. Ora ti devo salutare, si è fatto tardi.”

Beppe rientrò a casa sconsolato non sapendo che fare per aiutare il suo amico.

Nelle settimane che seguirono vi fu qualche altro sporadico attacco al bestiame, poi un periodo di calma. Beppe decise un mattino di recarsi nuovamente sul fiume a pesca, non tanto per ferrare qualche pesce, ma semplicemente per rilassarsi all'aria aperta lontano dai rumori della civiltà: trattori al lavoro, motoseghe gracchianti e auto e camion in transito sulla statale.

Si posizionò all'ombra di un vecchio leccio e lanciò la lenza in acqua puntando con lo sguardo il punto da cui fuoriusciva il filo dalla corrente. Fu solo dopo qualche istante che si accorse della presenza del lupo. Era lì come se si fossero dati appuntamento. Beppe prese due fette di salame dal panino che si era portato per colazione e gliele lanciò, il lupo le prese al volo e poi si accovaccio, come se fosse in attesa che Beppe ferrasse una trota. A questo seguirono altri incontri, Beppe e il lupo si tenevano a distanza guardinghi ma rispettosi, quando Beppe ferrava un cavedano o una trota era ben felice di lasciarla al lupo, poi dopo qualche tempo il lupo non si fece più vedere e cessarono anche le incursioni al bestiame. Beppe continuò a frequentare il fiume nelle speranza di rivedere il suo amico a quattro zampe, ma ciò non accadde. Frequentare il fiume e semplicemente contemplarlo lo quietava, al contrario di quando era costretto a recarsi in città per qualche incombenza, dove i vivi pedinano i morti e di umano è rimasto ben poco.

 

*

La visita

 
La visita
 
Era una splendida giornata di sole, e decisi di accettare l'invito di un mio amico pittore che viveva isolato in campagna.
Una volta parcheggiata l'auto nel cortile della casa di Glauco, una ex fattoria parzialmente ristrutturata, sentii la sua voce roca, era un accanito fumatore di sigari toscani.
Come al solito mi accolse con un forte abbraccio.
“Vieni dentro, c'è del caffè caldo... un po' bruciato, ma basta mescolarlo con dello zucchero di canapa è sarà buonissimo.”
“Sono sicuro che in questo luogo idilliaco staremo beatamente tranquilli.” Finita la frase con un tono ironico, cercai un posto a sedere su un lembo del divano libero da scartoffie.
“Scherza quanto vuoi, ma a me è accaduta un'esperienza che ha dell'incredibile.”
“Che vuoi dire Glauco?”
“Parecchi giorni fa, la mia amica poetessa Gina Versi portandosi dietro una medium è venuta a trovarmi, e appena entrata in casa la medium ha avuto una sensazione angosciante.”
“Sì. Che intendi dire? Casa tua è sempre stata un'oasi serena.”
“Ascolta, appena varcata la porta, si è arrestata di scatto, e si è guardata in giro con un'aria seria, poi mi ha detto che in questa casa era morto qualcuno, di morte violenta. Così… di colpo, sono rimasto senza parole, perplesso, e poi le ho risposto: qui, che io ricordi, è morta mia nonna... Maria, aveva cresciuto già tutti i suoi figli, che poi si erano sparsi per il mondo. Ma si era trattato di una morte serena, naturale. Si era spenta addormentandosi sulla sua poltrona preferita. La medium è rimasta in silenzio, e poi ha aggiunto: allora dev'esserci stato qualcos'altro... parecchio tempo fa.. perché qua... si tratta di una morte violenta. Io invece mi sono sempre trovato benissimo qua, anche da solo, con le finestre aperte, cioè: era casa mia. E vabbè... Nò, qui ho una sensazione di morte violenta, ripete, poi mi ha chiesto una candela, è salita le scale che portano di sopra. Qui è stata uccisa una ragazza di 16 anni, che era incinta, dal padrone di casa.”
“Addirittura un omicidio.” Il racconto di Glauco si faceva interessante.
“Dev'essere stato angosciante immaginare che nella propria abitazione sia avvenuto un fatto di sangue.”
“Infatti restai pietrificato... non sapevo neanche che domande fare.”
“Ma gli hai chiesto come faceva a sentire?”
“No Mauro. Poi ha disceso le scale, è uscita in cortile e si è fermata laggiù, su quel lato della casa, e dice: è stata sepolta qui, e mi ha detto anche il suo nome, Emma.”
“Diavolo!” Esclamai.
Poi Glauco continuò: “Emma... è una ragazza giovane, perché ha le sottane corte... si.”
“Quindi lei la vedeva?”
“Sì, poi la medium ha indicato un punto per terra. E qui, io vedo una cosa bassa... colpi di martello... La casa è sempre stata così, e allora sai ho cominciato a dubitare. E poi se ne sono andate, dovevano rientrare.”
“Però, si riferiva ad un'epoca precisa?” 
“Di certo non a questi ultimi cinquant'anni. Perché poi ricordai che qui all'inizio del secolo c'era un'osteria. Cento anni fa, forse l'unica del paese. Allora poi ho riflettuto. Lei vedeva una cosa bassa, perchè… indicò anche il punto esatto, da quella parte. Di là, vicino alla tettoia c'era il vecchio porcile. Sai, era una costruzione bassa, di legno e mattoni. Allora per una questione di rispetto, io non è che abbia voluto andare lì, dove mi aveva indicato la medium, per scavare e magari verificare se c'erano delle ossa. Però pensando intensamente a questa triste vicenda. Io ho detto: Guarda, se tu vuoi essere sepolta con le tue ossa dove riposa mia madre, senz'altro lei ti riceve. Perché, o credi o non credi, ma nel dubbio tu devi tenere aperta questa ipotesi, no? E allora ho aggiunto, come per parlare con questa povera giovane sventurata, guarda: se tu vuoi restare qui a casa mia… qui dove sei… io ne sono felice, è come se tu fossi mia figlia. Se vuoi invece avere una sepoltura cristiana, fammi un segno, in qualche modo che io capisca, che invece, devo togliere le ossa da qua, e portarle in cimitero.”
“Ma questa ragazza era stata uccisa, secondo lei dal padrone?”
“Sì, uccisa dal padrone dell'osteria, che voleva nascondere la gravidanza. La medium mi disse che così gli aveva detto la giovane in una visione. Probabilmente l'oste, sposato e con famiglia, voleva evitare lo scandalo in paese. La medium mi disse che in un'altra visione, aveva visto l'oste colpire la ragazza con una specie di martello al capo.”
“Si, è una storia che sta in piedi. L'oste ha approfittato di lei, e ha sedotto Emma, poi quando ha saputo che era rimasta incinta, si è liberato di lei in quel modo, magari con la complicità di qualcuno. Emma forse era un'orfana, e nessuno si è curato della sua scomparsa.”
“Già, Mauro. Potrebbe essere andata anche così... la medium non ha più voluto venire qui. La mia amica Gina, mi ha detto che era rimasta molto provata da questa esperienza.”
Si era fatto tardi, e dopo aver pranzato, io salì le scale al piano sopraelevato e sistemate le mie cose, mi stesi sul letto e cercai di dormire.
 
Di Alessandro Carnier
 
 

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Una leggenda carnica - La leggenda di Celtine

 

Questa storia mi è stata tramandata da mio padre, e a mio padre da mio nonno, e così ancora, a ritroso nel tempo.

È la storia di come ebbe origine la nobile stirpe che popolò la mia terra, la Carnia.

 

C'era un villaggio ai confini più a nord, vicino alle terre di ghiaccio, nelle isole bretoni, e in quel villaggio lontano, viveva Celtine, figlia del capo dei Kemris.

Non c'era in tutto il villaggio una ragazza così bella, dalla straordinaria forza vitale e intelligenza come Celtine, la figlia del re. Era alta e bionda, con occhi celesti e un corpo agile e sinuoso, e aveva un portamento superbo ed elegante.

Era infatti ammirata e desiderata dai giovani nobili cavalieri della sua tribù, ed essi si struggevano al solo suo incedere, nella speranza di carpirle un unico sguardo.

 

Tutti la amavano: le donne, gli uomini, i bimbi, e anche coloro che svolgevano i lavori più umili, come gli schiavi. Con tutti, Celtine, era ben disposta, e pronta ad aiutare chiunque si trovasse in difficoltà.

Il padre vedovo né era orgoglioso, e l'amava oltre che per il fatto che fosse la sua unica figlia, anche per le sue indubbie qualità, e perché gli ricordava l'amata moglie, perita giovane durante il parto. Celtine era una temibile guerriera, e si allenava con i giovani guerrieri, e da essi era trattata con grande rispetto. Molti nobili della sua tribù e di altre tribù lontane l'avevano inutilmente corteggiata, ma lei aveva sempre rifiutato ogni proposta di un qualsiasi legame, tant'è che per questo suo comportamento, era stata soprannominata Celtine cuore di pietra.

Celtine era anche molto affezionata al saggio druido del villaggio, e né seguiva i preziosi insegnamenti, non mancando mai di onorare i propri dei. Celtine viveva in grande armonia con la natura rigogliosa della sua terra magica, e il suo popolo. Aveva un carattere schietto, tenace e solare. Gioiva felice del sorgere del sole, del risveglio della natura in primavera, del tepore estivo in estate, della neve e del gelido ghiaccio invernale che tutto copriva e proteggeva.

Amava bagnarsi con le altre donne del villaggio, sotto la cascata del ruscello che scorreva nella selva vicino alle prime capanne del villaggio, e fare lunghe cavalcate con il suo cavallo bianco, lungo gli strapiombi sul mare della sua amata isola, per poi stendersi sul muschio verde e soffice a fantasticare sul suo futuro, guardando le onde del mare rifrangersi fragorosamente contro le rocce alte e perigliose della scogliera, e a nulla servivano i rimproveri del padre, che se ne stava avvilito e preoccupato, quando dopo queste lunghe cavalcate lei tardava ad arrivare accanto al fuoco della sua capanna.

 

Ma il vecchio re, in cuor suo, era orgoglioso di avere una figlia dal carattere indomito e ribelle, che di nulla aveva paura. Un giorno, pensava, avrebbe preso il suo posto come regina del suo popolo. Lei era bella, forte e irruenta, e dal fascino irresistibile. Celtine sentiva quella spinta interiore, potente, che ogni giovane fanciulla avverte, quella inspiegabile forza che  preconizza orizzonti splendenti.

 

Un giorno Celtine era intenta a suonare l'arpa per suo padre accanto al fuoco che ardeva sempre nella fossa della capanna. Si udirono delle urla, dei richiami.

Il vecchio re e la giovane figlia uscirono all'aperto sotto una fitta pioggia battente. Un guerriero li avvisò che era stato rinvenuto un giovane esanime sulla spiaggia, dopo la tempesta, che aveva flagellato il mare e l'isola durante la notte.



Il naufrago seppur provato, era ancora vivo. Il saggio druido del villaggio lo fece portare in una capanna e adagiare su un giaciglio accanto al fuoco.

Celtine rimase molto impressionata dalla bellezza del giovane, e non mancava giorno che lei non andasse a prestare le cure con i medicamenti che il vecchio druido aveva preparato appositamente per lui con le erbe mediche. Il vecchio druido vedendo che Celtine si stava invaghendo del bel giovane, le disse bonariamente, ma con un espressione del volto preoccupata: “Celtine non appassionarti troppo a questo bel giovane, quando si sarà rimesso in salute, vorrà tornare dalla sua gente, nella sua terra.” “Non preoccuparti venerabile druido, il mio desiderio e solo quello di prestargli le cure necessarie perché si rimetta presto in salute.”

Le parole di Celtine, preoccuparono ulteriormente il saggio druido, che in precedenza a questo avvenimento aveva avuto una visione che accompagnava la venuta di questo giovane, un presagio di sventura... e sapeva anche che i giovani raramente ascoltano le parole degli anziani, poiché sono spinti nelle loro azioni più dal cuore che dalla ragione.

La sera stessa, dopo che Celtine se n'era andata, il saggio druido si accostò al fuoco sacro che ardeva nella notte su un promontorio e compi un rito magico, atto a proteggere la giovane principessa dai presagi di sventura che avevano tormentato il suo sonno. Gettò sul fuoco una mistura di erbe ed essenze insieme a vischio e agrifoglio pronunciando delle parole magiche, per ringraziarsi il favore del dio dell'amore Angus. Al contatto con il fuoco le misture sacre provocarono un'alta fiammata, e la luce di un lampo e il successivo crepitio rischiararono la notte. Il druido comprese che quella saetta non era un segno benevolo, e che un destino malevolo avrebbe funestato la gioiosa vita della comunità. Ridiscese stanco e avvilito lungo il sentiero, mentre iniziò a cadere una fitta pioggia che spense il sacro fuoco. Anche questo successivo avvenimento lo preoccupò. Il sacro fuoco doveva ardere sempre, non doveva mai spegnersi. Ciò era un segno di sicura sventura...

Dopo qualche mese il misterioso giovane riprese vigore, e Celtine non mancava di passare molto tempo con lui. Il padre di Celtine e il druido preoccupati non osavano contrastare l'attaccamento di Celtine per lo sconosciuto. Il padre fece condurre il giovane straniero al suo cospetto, e gli chiese chi fosse e da dove venisse, ma lui rispose di non ricordare il suo nome e neanche da dove fosse venuto.

 

Rammentava solamente la tempesta, che aveva fatto naufragare la sua nave, e il volto dei sui compagni prima che fossero risucchiati da un grande vortice nelle profondità marine.

Il vecchio druido consigliò al re di avere pazienza, il giovane aveva un bell'aspetto, e i suoi modi, e la collana che portava al collo e l'anello, denotavano una provenienza sicuramente nobile. Col tempo egli avrebbe certamente ricordato... Il re seguì il consiglio del druido, e diede ordine di procurargli abiti e armi degni di un nobile, e di costruire per lui una solida capanna.

Il giovane si accomiatò inchinandosi al suo cospetto e lo ringraziò promettendogli obbedienza.

Fu all'inizio della primavera, quando si sciolgono le ultime nevi e sbocciano i primi fiori, che il cuore di Celtine, che fino all'ora era stato granitico, si sciolse come neve al sole, e una misteriosa forte attrazione colse i due giovani.

Celtine sembrò scordarsi di tutte le sue passate passioni, oziava tutto il tempo con il suo amante, non si allenava più con i giovani nobili del villaggio all'arte della guerra, non suonava più l'arpa per l'amato padre, non scendeva a bagnarsi con le sue amiche nel ruscello. Tutti riconobbero nel villaggio che Celtine era cambiata. Celtine non aveva occhi che per il suo amante, e tutto e tutti trascurava...

 

Il giovane Morvan, così era stato soprannominato dal vecchio druido, che significava (venuto dal mare) confidò a Celtine la volontà di costruire una nave, per poter riprendere il mare, e cercare una nuova terra dove stabilirsi insieme a lei. Celtine chiese al padre di aiutare Morvan ad esaudire il suo desiderio, nascondendo il proposito di seguire il proprio amato. Il padre dopo molte insistenze e vista la caparbietà di sua figlia, le rispose che avrebbe chiesto consiglio al vecchio druido e ai vecchi nobili guerrieri del villaggio. Il consiglio dei nobili riunitosi durante una notte di plenilunio, diede l'assenso alla costruzione della nave.

I maestri d'ascia del villaggio e tutti gli uomini disponibili iniziarono la costruzione dello scafo in legno di quercia, e le donne cucirono le pelli per realizzare robuste vele. Anche Celtine contribuì con il sua lavoro al cantiere. Il vecchio padre credette così di aver placato la passione di Celtine per Morvan, nella speranza che con il favore dello scorrere del tempo e la partenza di Morvan ella l'avrebbe poi dimenticato, l'ardore dei giovani brucia veloce con una rapida vampata, lasciando presto ceneri fredde. Contrastarlo sarebbe stato controproducente.

La costruzione della nave proseguì fino alla primavera successiva.

 

Un giorno, all'alba il vecchio re fu svegliato dal druido del villaggio che dovette così dagli la cattiva notizia: “Mio re devo darti una notizia che ti rattristerà...”

Il re lo interruppe. “Celtine?”

“Si mio re. Celtine è fuggita con Morvan. Sono salpati questa notte con il favore del vento. Di loro non vi è più traccia al di fuori di questo messaggio.”

Il vecchio druido porse al re una pergamena di pelle, sulla quale Celtine lo pregava di perdonarla, ma che la forza insopprimibile del suo amore per Morvan, l'aveva spinta a seguirlo. Il vecchio re dal quel giorno non si dette pace, la sua bambina tanto amata non c'era più, e dopo qualche mese sconvolto dal dolore morì. Tutti nel villaggio: vecchi, giovani, donne e bimbi, maledirono straziati dal dolore la venuta di Morvan e la perdita di Celtine e del loro amato re...

 

Morvan e Celtine navigarono superando tempeste impetuose, che solo una nave robusta come la loro poteva affrontare, e in una notte di bonaccia giunsero su una costa alta e frastagliata. Li costruirono un robusto carro leggero, utilizzando il legname della nave, e acquistarono due cavalli e viveri dagli abitanti del luogo. Dopo una lunga sosta per rifocillarsi dalla estenuante traversata in mare, continuarono il viaggio in terra, traversando montagne e valli, molte nazioni, e altrettanti popoli stranieri, e finalmente giunsero, dopo molte lune, su un alto passo montano, il passo della Maura. Celtine e Morvan si accamparono accanto a un ruscello e riposarono all'ombra degli alti abeti. Il giorno successivo proseguirono il viaggio seguendo il tracciato di quell'acqua limpida che mano a mano che essi avanzavano s'ingrossava fino a divenire l'acqua madre del Friuli, che lo divide quasi nel mezzo, il fiume che oggi conosciamo con il nome di Tagliamento. Essi rimasero estasiati dalla bellezza di quella nuova terra, con alte e imperiose montagne, boschi verdi e lussureggianti, valli dolci e piacevoli e con una gran abbondanza d'acqua. Celtine abbracciò Morvan e sentenziò: “Questa è la terra dove voglio vivere, e crescere i miei figli.”

Scelsero una valle verde e rigogliosa, la più bella, quella che noi conosciamo col nome di val di Lanza. Morvan con il legno ricavato dal taglio degli alti abeti, e le pietre ricavate dalla generosa montagna insieme a Celtine costruì la capanna dove avrebbero vissuto. Coltivarono la terra e insieme cacciarono nei boschi e nelle valli.

 

Dopo un anno all'inizio della primavera, nacque Edern, un figlio maschio. Edern era il bimbo più bello che si fosse mai visto in quella lontana terra, dagli alti picchi delle montagne, fino alla dolce pianura lambita dal mare.

Il padre con il corno, e la madre con l'arpa, suonarono tutta la notte in onore del primo figlio maschio per ringraziarsi il favore del dio Belenus, Dio della luce, del potere e della bellezza. Tutti gli animali richiamati da quella musica melodiosa, vennero attorno a Celtine e al bimbo. Lo stambecco, il daino, il camoscio, il capriolo, la marmotta, la volpe, il tasso, l'orso e tante altre specie si raccolsero in cerchio, attorno alla famiglia fortunata. Gli uccelli più belli: il merlo, l'usignolo, l'aquila e tutte le altre specie cantarono insieme, e questo melodioso canto si propagò per le valli e la pianura fino al mare, e ancora oltre l'orizzonte.

E vissero tutti felici in comunione per giorni e giorni, ed Edern crebbe forte e tenace...

Un giorno d'inverno, quando la neve tutto ricopriva, e il silenzio era rotto solo dal crepitio della legna sul fuoco, Morvan all'alba quando ancora splendeva la luna, uscì a caccia nel bosco, con il potente arco, e non fece più ritorno. Celtine attese invano il suo Morvan, per giorni e giorni.

Una sera Celtine piangendo per la prematura scomparsa dell'amato Morvan, senti graffiare e battere ripetutamente il pesante portone di legno della capanna. Impaurita aprì lentamente l'uscio, e non appena alzò lo sguardo vide un grosso lupo dal pelo lungo e grigio, doveva essere un capobranco.

 

Il lupo la tranquilizzo dicendo: “Non piangere, donna... sono venuto ad avvisarti, perché ho pietà di te. Quando ero a caccia nel bosco ho visto il tuo uomo disteso su un ruscello, congelato, adagiato nell'acqua come se dormisse profondamente.”

Così parlò la bestia.

Celtine sopraffatta dal dolore, non rispose, svegliò Edern che dormiva profondamente accanto al fuoco sotto una spessa coperta di pelle d'orso, e disse: “Edern, ora sarai tu il re di tutta questa terra, dai monti al mare. Ormai sei un uomo, vai, e porta con te anche i tuoi compagni, lasciami sola con il mio dolore. Torna solo quando avrai conquistato tutta la pianura, quando tutto sarà tuo. Fallo per i nostri avi, per tuo padre e per me. Prima di andare accendi un fuoco sacro in onore di tuo padre. Poi una volta salutato il figlio Celtine si rivolse al fiero lupo: “Lupo, d'ora in avanti tu sarai sempre rispettato dal mio popolo, perché tu hai avuto compassione di me...” Il lupo prostò il capo e ringraziò Celtine, poi lo sollevò ed emise un lungo ululato, che riecheggiò in tutta la valle. Celtine si alzò e uscì dalla capanna e accompagnata dal lupo si incamminò attraversando boschi e strapiombi verso il sole che nasce. Nel cielo come per magia le stelle brillarono, la neve si sciolse e le gemme sbocciarono sugli alberi. La natura intera si risvegliò.

 

Celtine la madre dei celtici carnici, è lassù tra i monti in quei luoghi, scomparsa sulla vetta del monte Bivera. Di lei più nulla si è saputo.

Il luogo dove essa è vissuta felice e dove è morta, oggi si chiama Sauris.

Ancora oggi nelle malghe e nella vallata di Sauris dove scorre il torrente Lumiei che da vita all'incantevole lago, contornata da monti imponenti come il Tinis, il Clapsavon, il Bibera, e Vinadia, fino a Pieltinis e nel Col Gentile, i malgari, durante qualche notte sentono il tintinnare dei campanacci, come se le vacche si allontanassero dal pascolo.

Ma in realtà sono i nostri avi pagani, che vengono dal regno dei morti. Sono i lamenti di Celtine che ancora chiama suo marito, e prega gli dei che proteggano i nostri cari, le nostre case, le nostre stalle, le dispense  e le bestie, e dia coraggio e pace alle anime in pena. Dormite beati bimbi carnici perché Celtine vigila su voi e sugli uomini della nostra amata terra madre, la Carnia.

 

Di Alessandro Carnier

Pordenone 6 aprile 2013

*

L’ultimo viaggio felice

Sono seduto al volante sulla mia nuova auto sportiva rossa decappottabile accanto a mia madre.

È una splendida mattinata di sole primaverile e sto percorrendo la via centrale del paese dove vivevo.

Sono felice, è parecchio che non ho l'occasione di passare del tempo con lei. Ho dovuto migrare all'estero da quando è iniziata la crisi, più precisamente nel mare del Nord a 200 miglia dalla costa scozzese, su una piattaforma d'estrazione di petrolio. Questo accadde dopo che fui messo in mobilità da un importante cantiere navale della mia regione.

La vita nelle piattaforme e dura, ma si guadagna bene, e riesco anche a mettere da parte del denaro, forse tra una decina d'anni potrò rientrare stabilmente in Italia e aprire un ristorante, sempre che la situazione economica migliori. Mia madre ha superato i settant'anni, voglio portarla ad acquistare delle piante, perché è la sua grande passione.

Possiede una piccola serra nel giardino di casa, dove coltiva piante rare, e una fornitissima biblioteca di libri sull'argomento.

“Roberto non correre!”

“Non ti preoccupare, questa macchina è una delle più stabili del suo genere.” Le rispondo spavaldo.

Improvvisamente un gatto fuoriesce da un cancello, sterzo per evitarlo e perdo il controllo dell’auto, che sbandando sta per fuoriuscire dalla carreggiata stradale.

Non riesco a riprenderla, i miei movimenti sono rallentati, mentre l’auto ruota su se stessa e scivola lateralmente puntando verso un imponente portone di legno, sulla mia destra. È un portone di grandi dimensioni, ai suoi lati un alto muro di cinta di pietre. Il tempo si dilata, e ho la sensazione sgradevole di perdere l’udito. I suoni che riesco a percepire sono ovattati, e lentamente affievoliscono.

Quel portone mi ha da sempre incuriosito. Ho vissuto anni in questo paese, ci sono cresciuto, ma non ho mai voluto frequentare questa zona, me nè sono sempre tenuto distante. Quando vi passavo davanti in auto, acceleravo sempre, come se percepissi uno strano presentimento contrastante, d’attrazione e repulsione. Non riuscivo a decifrare quel particolare stato d’animo, e agivo perciò d'istinto.

Il comune dove risiedo, assieme ad altri circonda un importante città, ricca d'industrie, ormai per la maggior parte chiuse, e provincia della regione, in un’ampia pianura che dalla pedemontana giunge fino al mare Adriatico.

L’auto sta per sbattere violentemente contro il portone, che inaspettatamente si schiude, come se mi attendesse al varco. Lo oltrepassa derapando in discesa, lungo un viale dalle alte mura anch’esse di grosse pietre. Finalmente la lunga discesa dell’auto termina frenata da un cumulo di fieno, a ridosso di un vecchio fienile.

Sono intontito, ma nonostante tutto contento. La carrozzeria pare intatta.

A fatica esco dall’abitacolo, scavalcando la portiera, e mi libero dalle pagliuzze di fieno, spazzolandomi e battendomi la maglietta e i pantaloni con le mani.

Solo ora mi accorgo che mia madre non c’è, sarà andata a chiedere aiuto… cerco il cellulare nelle tasche, ma non lo trovo. Guardo nell'auto, sotto i sedili, niente... sarà volato in strada da qualche parte mentre sbandavo e impattavo sul cumulo di fieno.

 

Mi incammino lungo la stradina sterrata nell’istante in cui un refolo di vento crea un vortice di polvere che penetrandomi negli occhi, mi offusca la vista. Me li strofino con un fazzoletto di carta nel tentativo di pulirli. La strada conduce in salita, verso un gruppo di figurine che ho intravisto in prossimità del bosco. Vedo mia madre che cammina in lontananza verso delle costruzioni di legno. Avrà avuto anche lei la mia stessa idea, chiedere aiuto per rimuovere l’auto parzialmente coperta dal fieno.

Giungo finalmente all’altezza dei primi alberi, e mi accorgo che si tratta di ragazzi che stanno allestendo una specie di parco divertimento. Intorno, tutta una serie di costruzioni di legno, tipiche dei campi scout.

Mi avvicino a uno di loro: “Salve, ho avuto un incidente, sono finito con la mia auto addosso a quel fienile, laggiù in fondo…” E indico il lontano fienile.

“Vorrei poter telefonare, ma non trovo il mio cellulare, per chiamare un carro attrezzi, e far rimorchiare la vettura, nella più vicina officina.”

“Si è fatto male?” Risponde cordialmente il ragazzo.

“No, non mi sono fatto niente, grazie a Dio. Avete visto mia madre? È una donna sulla settantina. Ha i capelli biondi.”

“Sì. È passata di qua qualche istante fa, e ha proseguito in quella direzione, verso la grande serra... li potrà trovare aiuto.”

“Grazie.”

Li saluto, sono un gruppo numeroso di giovani dalle diverse etnie e nazionalità, di bell’aspetto. Il posto a l’aria di essere un campo internazionale estivo, di studio, dove si praticano varie discipline sportive.

Sono giunto di fronte all’ingresso di quella che sembra un imponente serra, ricorda la forma di una cattedrale gotica, in vetro. Prendo fiato, prima di entrare, e mi accosto all'ingresso.

Sul cielo vedo dei lampi di luce in mezzo a nuvole plumbee. Il tempo è mutato, sta per scoppiare un temporale, si sentono già i primi tuoni rombare.

Mi affretto ed entro nella costruzione. Mi avvicino al bancone di legno con dei vasi pieni di fiori sgargianti, dietro c’è un giovane che mi saluta.

“Buongiorno.”

“Salve! Sto cercando mia madre?” Rispondo. Il suo volto è regolare, gli occhi celesti e i capelli biondi, lunghi e a boccoli, lo fanno assomigliare esteriormente a un modello o ad un attore, di quelli che si vedono solo nei film.

“Sua madre è laggiù, tra quelle piante.”

“Grazie!” Rispondo, tutto ciò che stava accadendo sembra strano, ma decido di raggiungere mia madre, senza fare altre domande. Lui è un tipo veramente simpatico, ed è investito da una particolare aurea di positività che invade l’ambiente, e mi estranea da tutto quello che mi era accaduto precedentemente, dimenticandomi del motivo per cui ero entrato. Guardo verso l'alto, la serra si innalzava solenne verso il cielo con una miriade di pinnacoli.

Raggiungo a fatica mia madre.

“Mamma perché non mi hai atteso, ero preoccupato.”

“Non ti agitare, questo luogo è tranquillo, guarda!” E indica una pianta dal fusto goffo e rigonfio e dalle foglie ovali, con dei fiori cremisi.

“Non mi pare un gran che...”

“È una Rosa del deserto, oleandro del Madagascar - Adenium obesum, è una pianta rara.” Il ragazzo della serra compare all'improvviso.

“Bravissima, lei è una vera esperta.”

“Le piante mi appassionano, sembrano posseggano anche loro un'anima, in qualche modo comunicano con noi.”

“Qui in questa serra abbiamo tutte le specie del mondo, nessuna esclusa.”

“Anche le stelle alpine, leontopodium alpinum? Di piante e fiori non nè capivo niente. Ma sulla stella alpina che avevo visto in montagna da ragazzo, avevo fatto una ricerca scolastica durante le scuole medie. Il nome latino mi era rimasto scolpito nella mente, poiché avevo preso un otto. Voto raro, per uno come me che all'epoca aveva i libri di testo intatti, in quanto raramente li sfogliavo.

“Si l'abbiamo.”

“Ma non è una specie protetta?”

“Qua tutte le specie sono protette!”

“Capisco.”

“Roberto... ci sono anche le rose Pierre de Ronsard!” Esclama mia madre sorpresa. “Voglio prenderne un vaso, quanto costano scusi?”

“Sono gratuite.”

“Ho capito state facendo una promozione?” Dissi io.

“No, qui tutto e gratuito, glielo porto io in auto.”

“Veramente la mia auto è piuttosto lontana da qui, ho avuto un piccolo incidente.”

“Lo so, ma non deve preoccuparsi.”

Tutta questa gentilezza a me pareva sconcertante, in paese questo non accadeva mai, i commercianti difficilmente accettavano sconti sulle merci, al contrario a mia madre sembrava tutto naturale, come se in questo luogo ci fosse già stata...

Uscendo dalla serra do un'occhiata al cielo, il temporale è cessato, e il cielo si è rasserenato, ora è di un colore blu cobalto. Sembra il paradiso terrestre.

Il ragazzo ci accompagna a fondo valle, verso il vecchio fienile dove ho lasciato l’auto. Tutti lo salutano, tutti lo conoscono e lo abbracciano calorosamente.

Ritrovo la mia auto intatta, pronta a partire, come se nulla fosse accaduto. Apro la portiera e mi siedo, sul porta oggetti accanto alla leva del cambio, c'è il mio cellulare. Il ragazzo appoggia una mano sulla mia spalla e mi saluta: “Ciao, vai tranquillo, va tutto bene, a presto signora…”

“Non mi hai ancora detto il tuo nome?” Gli rispondo.

“Angelo. Per gli amici Angel.” Io ingrano la prima, poi la seconda, e mi avvio, procedendo lentamente in salita lungo il viale. Il portone è rimasto spalancato. Esco in strada e prendo la via di casa. Dallo specchietto retrovisore vedo il portone richiudersi magicamente, e alle sue spalle non vedo né prati, né boschi. Ma il solito profilo piatto della pianura, pieno di case, campi, e capannoni industriali… Dopo qualche mese, mia madre morì di un male incurabile, fortunatamente senza soffrire troppo. La mia speranza è che ogni tanto vaghi tra le piante di quella meravigliosa serra.

 

Di Alessandro Carnier

20.01.2014

*

Spiaggia libera

 
 
Saranno stati i primi anni ottanta, Roberto aveva superato gli esami di maturità. Durante l'ultimo anno di liceo aveva anche frequentato un corso di fotografia, e ne era nata una grande passione.
Quando usciva per scattare foto, si portava a tracolla una borsa con dentro una macchina fotografica reflex semplice ed economica, con svariati obiettivi, e qualche filtro. Passava intere giornate a sviluppare rullini fotografici e stampare foto in bianco e nero in una piccola e soffocante camera oscura, e spesso s'alzava all'alba per sfruttare particolari condizioni di luce. Fu Paolo, un suo ex compagno di classe, a invitarlo in una spiaggia libera e poco conosciuta.
Ora lui frequentava una scuola di taglio a Treviso, mentre Roberto si era inscritto all'Accademia Di Belle Arti Di Venezia. Paolo era un bel ragazzo, moro con gli occhi verdi. Suonava la chitarra e cantava. Aveva anche provato a incidere con un suo gruppo qualche disco a Milano. Ma poi tutto si era esaurito li. Possedeva uno spiccato gusto per l'abbigliamento, e voleva entrare nel mondo della moda.
 
Roberto e Paolo partirono con una Renault 4, in compagnia della compagna di Paolo, e di Bruno che si era aggregato all'ultimo momento. La spiaggia libera di cui parlava Paolo era posta fra due note località turistiche, Caorle e Bibione. Paolo era molto corteggiato da belle ragazze, che subivano il suo innegabile fascino, e Roberto non aveva mai capito come mai le trattasse sempre male. Federica la sua ragazza, stava con lui da poco più di un mese e spesso piangeva per causa sua, che a lei preferiva la compagnia di Bruno.
Parcheggiata l'auto su indicazione di Paolo all'ombra di un alto pino marittimo, assieme attraversarono su un sentiero una fitta pineta, in fine un'ampia zona di dune e arbusti, per poi stendere gli asciugamani su una specie di recinto fatto di avanzi di legni rinsecchiti portati a riva dalle mareggiate. Abilmente Paolo e Bruno piantarono dei pali sui quattro lati del recinto e vi fissarono un ampio telo che faceva loro ombra. La sabbia ammucchiata sui quattro lati del recinto riparava dal vento i corpi stesi. Roberto avrebbe preferito stendersi sull'arenile in faccia al mare, capii poi la scelta del recinto, posto più a monte a ridosso della sterpaglia.
Mentre stendeva l'asciugamano su un angolo del recinto all'ombra del telo, vide che i suoi compagni oltre a spogliarsi di jeans e maglietta, si tolsero con naturalezza il costume da bagno.
"Non ti levi il costume Roby?" Disse Paolo rivolto a Roberto, mentre Federica e Bruno già avevano inforcato gli occhiali da sole e si spalmavano la crema protettiva.
"No, senza costume non mi sento protetto, preferisco tenerlo."
"Fa come vuoi… non sai che senso di libertà da lo stare nudi al sole, senza niente addosso."
"Sarà… ma io vado a fare il bagno, e non vorrei che a un pesce venisse in mente di mordermi nelle parti basse…" Paolo rise, e poi si sistemò accanto a Federica."
Roberto si rese conto che la sua era una scusa, si trovava semplicemente in imbarazzo, soprattutto perché il corpo di Federica visto nella sua completa nudità lo aveva inquietato. Era da un po' che non vedeva una ragazza nuda. Era rientrato da poco dall'Inghilterra dove aveva ultimato uno di quei corsi di lingua ed era parecchio che non usciva con una ragazza. Si avviò verso il bagnasciuga di corsa e si tuffò in acqua, per darsi una rinfrescata e rischiarare la mente.
Non aveva niente contro il nudismo, ma portare il costume al mare a lui non dava fastidio, anzi gli infondeva un senso di sicurezza.
Quando rientrò, Federica era rimasta sola.
"Paolo e Bruno dove sono, non li ho visti in acqua?" Federica sollevò lievemente gli occhiali scuri guardandolo… "Sono andati a cercare rami, sassi… sai è la loro nuova mania."
"Cioè?" Lui rispose sedendole accanto e bevendo un sorso d'acqua minerale dalla bottiglia.
"Cercano legni e sassi lavorati dal mare e dal tempo. Sai quelle radici tutte contorte, e quei sassi molto levigati."
"E per farne che?"
"Delle sculture. E comunque questa idea del nudismo… a me non importa poi molto. In costume o senza per me fa lo stesso. Lo faccio solo per compiacere Paolo. È un'altra delle sue trovate, l'estate scorsa è stato in Grecia su una barca a vela del padre di un suo caro amico, su un'isola in un campo nudista. La tutti giravano nudi, e adesso vuole farlo anche qui.
"Io non ho nulla in contrario." Rispose Roberto. "Ma se non sbaglio in Italia è ancora proibito girare nudi in spiaggia." Mentre diceva questo vide due anziani che camminavano vicino alla riva dove l'acqua non superava i dieci centimetri, c'era la bassa marea. "Si lo so Roberto, è per questo che stiamo distesi dentro questi recinti di sabbia e legni. Quando stai disteso non vedono che sei nudo." Federica gli indicò altre postazioni come queste. Roberto si alzò e montò il teleobiettivo sulla macchina fotografica, poi guardò tra le dune e gli arbusti. Infatti, vide teli simili al loro e ombrelloni seminascosti tra la sabbia e il verde.
Verso le dieci spuntarono le famigliole con tavoli e sedie, ma piantavano l'ombrellone nell'ampio tratto di spiaggia vicino all'entrata principale. Roberto, Federica e gli altri nudisti erano molto più a est, dove la spiaggia era più corta, e più selvatica.
Federica si spalmò nel frattempo un po' di crema, massaggiandosi prima i seni, poi le cosce e infine i glutei. Roberto si rese conto di provare una intensa attrazione per Federica, e ciò lo turbò, poiché lei era la ragazza del suo migliore amico. Si sentiva in colpa, si girò dando la schiena a Federica e disse: "Sai che faccio, vado a vedere se posso fare qualche scatto interessante."
"Vedi se trovi quei due, sono stufa di stare sola!" Gli rispose Federica girandosi per esporre la schiena al sole. Roberto prese la macchina e la borsetta con la restante apparecchiatura fotografica e s'incamminò verso la pineta.
Dopo una quindicina di minuti che camminava fermandosi ogni tanto per scattare qualche foto, senza convinzione, vide due figure all'ombra di un cespuglio. Puntò lo zoom 70-80 mm nella loro direzione, e mise a fuoco. Era Paolo che baciava avidamente Bruno come non aveva mai visto farlo con Federica. Aveva sempre sospettato che Paolo avesse delle tendenze omosessuali, ma con lui non ci aveva mai provato, forse non era il suo tipo. Non voleva che lo scoprissero, e così rifeci a ritroso il cammino calpestando le sue stesse impronte.
Quando arrivò davanti alla postazione in spiaggia, trovò Federica che aveva indossato il costume.
"Come mai ti sei messa il costume?"
"Vieni con me, voglio prendermi un gelato, è arrivato il carrettino, laggiù." Federica indicò la zona frequentata dalle famigliole, dove non si praticava il nudismo.
"Li hai visti?"
"Chi?"
"Paolo e Bruno! Li hai incontrati?"
"No. Devono essere andati fino alla foce del fiume, dove ci sono i casoni."
"Sono stufa. Per un motivo ho per l'altro io e Paolo non usciamo quasi mai soli. E poi è sempre sgarbato con me. Alle volte mi chiedo perché stiamo insieme."
"Mi spiace, se lo avessi saputo avrei fatto a meno di venire con voi."
"Ma no, tu non centri. Penso solo che una coppia dovrebbe stare più tempo insieme. Da soli, intendo." In quel momento un elicottero dei carabinieri sorvolò la zona.
"È la seconda o terza volta che passa. Staranno cercando qualcuno?" Rispose Roberto. Federica e Roberto tornarono leccando i gelati che avevano acquistato. Lei un cono con due palline al gusto di vaniglia e limone, e lui la solita pallina di cioccolato fondente.
Quando giunsero in prossimità della postazione prendisole, trovarono Paolo e Bruno con due uomini stranamente vestiti di tutto punto.
"Be, che sta succedendo Paolo?" Chiese Federica.
"Niente, niente, non ti preoccupare." Paolo e Bruno frugavano negli zainetti in cerca di qualcosa…
"Ha ecco agente: carta d'identità e patente."
"Basta la carta d'identità!" Disse quello che pareva superiore in grado. Portavano ambedue un binocolo al collo. Dobbiamo redigere il verbale e fare la denuncia.
"Perché la denuncia, Paolo cos'hai combinato?"
"Ma niente… è perché eravamo nudi."
"Signorina è vietato dalla legge, sono atti contrari alla pubblica decenza, articolo 746… mi spiace, ma è nostro dovere…" Il carabiniere sembrava sinceramente dispiaciuto. Paolo era visibilmente preoccupato, suo padre era un noto politico della DC, e questo fatto non gli avrebbe certo procurato piacere, infatti era un devoto frequentatore della parrocchia della sua città, nonché intimo amico del vescovo. "Se lo viene a sapere mia madre, mi muore, agente. È una donna molto anziana e bigotta, non potreste fare un'eccezione questa volta? Se scopre la denuncia nella cassetta delle lettere sviene." Disse Bruno.
"Voglio venirle incontro, lei, dai documenti vedo che è maggiorenne, la avviseremo e le faremo consegnare la denuncia personalmente. Va bene?"
"Grazie. Sa, io sono l'unico figlio, e mio padre e morto da poco. Mia madre ne morirebbe dal dispiacere. Compilati e firmati i verbali, i due carabinieri si allontanarono.
Paolo e tutti i presenti si vestirono e si avviarono in direzione dell' auto.
Mentre riponevano gli zainetti nel portabagagli, Paolo esclamò: "Che sfiga, che sfiga nera. Ma proprio noi dovevano beccare. Mio padre mi ammazza di legnate, se lo viene a sapere.
 
In realtà il padre di Paolo riuscì attraverso le sue amicizie a non far finire sui quotidiani locali l'accaduto, mitigandone le conseguenze. I carabinieri consegnarono in mano a Bruno la denuncia, e sua madre morì qualche anno dopo senza venire a sapere nulla di questa vicenda. 
Nel 1995 una sentenza del Tribunale di una cittadina del sud Italia assolveva "perché il fatto non costituisce reato", dalla contravvenzione un cittadino in un analogo caso. Successivamente nel 2000 una sentenza della Corte Di Cassazione sanciva definitivamente che il naturalismo non è reato nei luoghi in cui è consuetudine.
Roberto venne a sapere dopo una ventina d'anni, che Paolo era deceduto per infarto nel suo ufficio di direttore artistico di una nota casa di moda a Milano. Bruno aveva tentato di fare il modello sempre nel settore dell'abbigliamento, poi aveva partecipato e vinto un concorso nazionale di bellezza, infine si era iscritto all'università ed era divenuto un bravo psicoterapeuta. Federica dopo pochi mesi da quel fatto abbandonò Paolo, si laureò in giurisprudenza, sposò un notaio facoltoso di Pavia, da cui dopo cinque anni divorziò. Ora gestisce un ristorante a Stoccolma.
 
Pordenone 9.01.2014
Di Alessandro Carnier

 

 

*

Pedalando sulle grave

 

Luca aveva raggiunto i quarantacinque anni d’età e, come da diverso tempo non faceva più, era sceso in garage indossando la tenuta sportiva da mountain bike. La sera prima aveva pulito meticolosamente, oliato ed ingrassato la sua mtb.

Erano le cinque del mattino, l’ora in cui di solito partiva in auto per iniziare il suo turno in fabbrica. Ma quel giorno Luca, per gli amici “Pornostar”, non sarebbe andato a lavorare. Era domenica e lunedì sarebbe stato il primo giorno di cassa integrazione.

L’appellativo di “Pornostar” lo aveva acquisito durante la sporadica partecipazione a qualche film hard di scarso successo, dopo di che aveva deciso di ritornare in fabbrica. Luca ricordava perfettamente i momenti del suo primo giorno di lavoro in fabbrica, quando i suoi colleghi gli chiesero se veramente era proprio lui, l’attore porno?

A quella domanda non sapeva mai cosa rispondere, ma col tempo finiva per ammetterlo. Dovette così sopportare, per un lungo periodo, il curiosare delle operaie che durante le pause di lavoro, venivano a spiarlo in reparto.

Col tempo la situazione era venuta a cambiare e si era fatto apprezzare. Dopo qualche anno gli fu proposto di fare il delegato sindacale, e lui aveva accettato. Successivamente era entrato nel direttivo sindacale, al contrario di altri delegati, continuava a svolgere le sue mansioni lavorative senza aver chiesto di essere assegnato a un turno meno gravoso. Godeva di rispetto poiché il suo nome non risultava scritto sui muri dei bagni accompagnato da scritte ingiuriose.

Luca aveva deciso di inaugurare l'ultima domenica prima della cassa integrazione con un bel giro in bicicletta. Afferrò la bici per il manubrio, la portò in strada, inforcò gli occhiali da sole ed iniziò a pedalare scioltamente dirigendosi verso le montagne. Un tempo avrebbe caricato la bici in auto per evitare il traffico del tratto di strada asfaltata in pianura, ma quel giorno decise di fare diversamente, di percorrere cioè in direzione nord tutta la pianura per poi scendere sul greto del fiume ed accedere all’alveo ghiaioso, rovente se sotto il sole del solleone, che si dilatava in entrambi i lati in vaste aree pianeggianti, ricoperte dalla caratteristica vegetazione delle steppe. In quel luogo isolato il fiume, che scendeva dalle montagne ad ovest, scorreva sotterraneo per riemergere una decina di chilometri più a valle poco prima della città.

Percorrendo le strade asfaltate fuori dalla cintura cittadina respirò a pieni polmoni l’aria buona e rinfrescata mattutina della pianura rigogliosa, non ancora inquinata dal traffico degli automezzi, e si ritenne fortunato di avere svenduto la sua potente moto, pagata a rate con grandi sacrifici. Ora non era più nelle condizioni di potersi permettere l’auto decappottabile ed anche la moto. Ma pedalando considerò positivamente quella privazione. Aveva ripreso un movimento sano. La fatica avrebbe contribuito a smaltire le delusioni delle numerose e inconcludenti riunioni in fabbrica che non erano servite a migliorare le condizioni lavorative ed a salvare dei posti di lavoro. Molti suoi colleghi erano stati licenziati ed i superstiti si ritrovavano, come lui, in cassa integrazione.

La lieve pendenza della strada costrinse Luca a innestare un rapporto di marcia più corto, non voleva strafare, erano diversi anni che non montava in bicicletta. Luca aveva dovuto superare diverse rotonde che, in precedenza, non c’erano. Il tracciato stradale più o meno rettilineo con le ampie curve che un tempo solcava i campi e i prati, aveva subito una trasformazione. Ai lati della strada piste ciclabili vuote e perciò inutili e una miriade di cartelli stradali avevano finito per assorbire gli spazi delle aree verdi e da qualche tempo, attraverso la stampa, emergevano le speculazioni che ne avevano motivato la realizzazione, smascherate da indagini dei magistrati sulla base di denunce. I nomi di politici ed imprenditori, posti sotto accusa, risultavano bene evidenziati sui titoli dei quotidiani.

Luca, lungo il tragitto, si rese conto dell’esistenza di tre enormi ipermercati con estesi parcheggi. Anni fa, ai bordi di quella strada, dove ora sorgevano quei complessi commerciali, amava sostare per una breve pausa, all’ombra di piante, e ora quelle macchie verdi erano scomparse. Stante la crisi economica, che costringeva negozi e stabilimenti industriali a chiudere, si chiedeva come avrebbero fatto a sopravvivere quegli ipermercati la cui realizzazione aveva comportato costi elevati difficilmente ammortizzabili attraverso le regole di bilancio, per cui tali massicci investimenti finanziari sollevavano degli interrogativi a cui non si trovava risposta. Si trattava dell’impiego di grossi movimenti di denaro il cui fine era forse motivato da scopi diversi dall’effettivo esercizio commerciale…

Luca era giunto finalmente all’altezza della lunga discesa che immetteva all’imboccatura di un vecchio ponte. Arrestò i pedali e la percorse dolcemente levando le mani dalle manopole e rizzando la schiena, stirando i muscoli provati dalla fissa posizione reclinata in avanti.

Oltrepassata una cava d’estrazione di ghiaia sulla destra, Luca ripresa a pedalare per superare il ponte, poi giunto all’altezza di un segnale di località mediante tabella, tutta arrugginita, premette la leva dei freni poco prima di imboccare una stradina sterrata. Era giunto finalmente nel suo elemento, le grave. Aggirò delle vaste pozze d’acqua piovana che in questa prima parte della strada sterrata s’incontravano dopo le piogge.

Su quella strada era difficile incontrare qualcuno ed era proprio questa la condizione di solitudine e di silenzio che Luca amava: una specie di grande deserto di sassi, muschio, licheni, con alternanze nelle aree laterali di vasti aridi prati, su un’estensione di chilometri e chilometri quadrati.

Dopo una ventina di minuti si arrestò alla vista di ampi teli verdi che sembravano stesi a coprire qualcosa da occultare e, accanto agli stessi, un cartello rosso con stampata, al centro, la lettera A. Si trattava di un deposito di amianto. Luca provò un sentimento di disapprovazione e di disgusto seguito da una smorfia. Pensava a come, oggi, poteva coesistere una discarica di amianto, a norma di legge, pericolosissima per la salute pubblica, collocata vicino ad una riserva naturalistica segnalata con tanto di cartelli esplicativi sulle specie faunistiche e vegetali rare, presenti in quell’area. Gli era noto che le associazioni naturalistiche si erano opposte in più modi alla realizzazione di questi depositi di materiale inquinanti. Sapeva anche che l’area delle grave era stata indicata da una speciale commissione ministeriale per costruire una centrale nucleare ma che di tale progetto non se n’era saputo più niente, dopo l’incidente d Fukushima in Giappone. Gli esponenti politici del progetto avevano pensato bene di seppellirlo stante la circostanza di imminenti elezioni.

Luca pensò che l’immagine dei teli verdi, che coprivano materiali inquinanti, non sarebbe stata facilmente rimossa, per cui avrebbe finito per diventare una componente del paesaggio.

La luce del pomeriggio inoltrato riverberata dal biancore della ghiaia era ancora accecante, in cielo volteggiava un falco e Luca guardandolo avrebbe voluto essere al suo posto e librarsi in quel cielo blu, senza alcuna preoccupazione. Il mondo della produzione e del consumo in cui si trovava immerso, si stava disgregando ad una velocità impensabile. Certo, la casa e l’auto erano utili per una vita comoda. Ma con la bicicletta… anche una semplice bicicletta, di quelle vecchie e arrugginite con una pompa e una camera d’aria di scorta e qualche piccolo attrezzo, potevi andare dove volevi, macinare chilometri ed attraversare anche continenti. Questo era ciò che Luca pensava guardando la linea sottile che all’orizzonte divideva il cielo dalla terra in quel luogo di silenzio dall’antico profumo di steppa.

 

di Alessandro Carnier

27 giugno 2013

 

 

*

Preludio di guerra

 Franz scendeva sicuro sugli sci dietro alla sua allieva. Stavano sciando fuori pista in un tratto facile della discesa prima dell'ultima curva, mancava poco per giungere a valle. Aveva malvolentieri aderito alle supplichevoli richieste della turista americana, proveniente da New York. Ovviamente era giovane, ricca e sposata. Già immaginava dove avrebbero cenato, e come si sarebbe conclusa la serata. Il marito l'avrebbe raggiunta tra qualche giorno, per proseguire il tipico viaggio turistico fra le località rinomate dell'Europa: Berlino, Londra, Venezia, Roma, Napoli, Atene... Lauren si fermò proprio accanto a una panchina a fine pista, si sganciò gli sci e appoggiò le racchette con un sospiro di soddisfazione.
“Franz che discesa magnifica, pare d'essere in paradiso.”
“Per me è lo stesso accanto a te.”
Era dicembre, Lauren e Franz dopo essere entrati nella stanza dell'hotel, e aver fatto sesso, stapparono una bottiglia di champagne e brindarono al loro incontro.
“Tra tre giorni devo partire. Viene mio marito, non potremo più vederci Franz!”
“Andiamo a mangiare qualcosa Lauren... ti va?”
“Sì, la discesa mi a messo appetito.” Insieme si vestirono e scesero le scale di legno d'abete fino al piano terra, poi entrarono nel bar adiacente alla sala da pranzo. Dei turisti nel frattempo seduti attorno a una lunga tavolata, cantavano una canzone nazionalista nazista, accompagnati da un musicista che suonava un'armonica. Lauren infastidita cercò un posto che fosse lontano da quella gaudente e chiassosa comitiva, ed entrambi si sedettero in un tavolo all'interno di una saletta privata. 
“Che fastidio...”
“Ma Hitler vuole la guerra, ti pare una cosa sensata Franz?”
“La Germania è stata umiliata pesantemente dopo aver perso la guerra. I tedeschi vogliono soltanto tornare a essere fieri di sé. In fondo non credo che pochi uomini esaltati possano portarci di nuovo in guerra. Io voglio solo una vita migliore, un lavoro migliore. Voglio fare l'ingegnere.”
“Franz sono innamorata di te. Perché non vieni negli Stati Uniti, li potrai avere molte opportunità. Mio marito è un uomo ricco e influente, potrà aiutarti.”
“Lauren cerca di capire... io amo il mio paese. Voglio costruire qui il mio futuro.”
 
Quella sera Franz e Lauren cenarono cercando di non lasciarsi pervadere da pensieri malinconici. Franz promise a Lauren di andarla a trovare non appena si fosse sistemato, poi andarono in camera, non fecero sesso, ma dormirono abbracciati.
 
Come sappiamo i fatti non andarono affatto come si auspicava Franz. Hitler nel 1939 invase la Polonia, e in seguito le sue truppe dilagarono in Europa. Franz come molti tedeschi si arruolò nella Wehrmacht, divenne un ufficiale pluridecorato, e partecipò a tutte le campagne di guerra più importanti. Rimase vivo a fine guerra, senza riportare nemmeno una piccola ferita, e difese perfino Berlino attaccata dalle forze alleate, quando ormai la guerra era per la Germania irrimediabilmente persa. Riuscì con una rocambolesca fuga a raggiungere la neutrale Svizzera, dove si nascose da un suo parente in un paesino tra le montagne. Avendo collaborato con Abwehr (Amt Ausland Nachrichten und Abwehr - ufficio informazioni e difesa per l’estero) servizi segreti militari tedeschi, e a fine guerra, essendo stato assoldato dall'Office of Strategic Services (OSS) - servizio segreto statunitense, per Franz non fu difficile crearsi una nuova identità.
 
Nel 1956 si trovava a Cortina invitato da un suo vecchio amico dei tempi di guerra. Si trattava di un ex ufficiale dell'OSS. Lo aveva invitato poiché ambedue amavano la pesca a mosca nei torrenti e nei laghi di montagna.
Noah Smith accolse Franz nel suo chalet fuori Cortina, posizionato in un ampio pendio erboso con alle spalle un bosco di abeti che si inerpicava fino alla base di rocce granitiche. L'abitazione era di grandi dimensioni, costruita con i materiali tipici del luogo. Perlopiù legno e pietre. Franz pensò che probabilmente Noah amava avere è ricevere ospiti. Il taxi lasciò Franz sul cancello di legno posto all'inizio di un viottolo che salìva verso la costruzione, accanto alla quale era posteggiata una Jeep Willis, color sabbia. Noah gli venne incontro.
“Sono felice che tu abbia accettato il mio invito Franz.”
“Non potevo non accettare un invito in questo posto così incantevole, mi ricorda il periodo della mia giovinezza in Germania.”
“Vieni, così sistemi i bagagli, le canne, e poi pranziamo. Domani ci aspetta una levataccia, andiamo su un torrente, il Boite, un posto ricco di trote. L'ho scoperto quando sono venuto in questa zona la prima volta. Mi ci ha portato un guardia pesca. Domani verrà anche una mia amica di New York.”
“Una donna che pesca?”
“No. Viene solo a farci compagnia.”
La mattina seguente i due amici si svegliarono alle 04:00. Era aprile e l'aria era frizzante. Caricata l'attrezzatura da pesca, un sacco contenente panini, acqua e birre nella jeep, partirono.
“E la tua amica, non viene?”
“Le ho lasciato un messaggio in cucina, così sa dove andiamo. Ci raggiungerà più tardi.” Noah arrestò la jeep su un tratto di ghiaia in parte alla strada, poi con Franz, dopo aver preso l'attrezzatura s'incamminarono lungo uno stretto sentiero che scendeva a ridosso di alti abeti. Franz seguiva Noah badando bene a dove mettere i piedi, le suole degli stivali scivolavano con facilità sulle pietre bagnate dall'umidità a quell'ora del mattino, faceva ancora buio, ma già si sentiva il tipico scrosciare dell'acqua del torrente tra i massi e i sassi in lontananza, come fosse un eco melodioso. Quando furono giunti sulla sponda del torrente, Noah si voltò verso Franz.
“Che te né pare?”
“Eccezionale, sembra una cartolina.”
“Vedrai oltre che bello, è anche ricco di pesci. Tieni, queste sono mosche secche, speciali. Sono realizzate da un professionista della pesca a mosca della zona. Imitano gli insetti che ci sono in questo periodo della stagione.” Noah diede una scatola a Franz, dopo averla aperta. Vi erano agganciate molte mosche secche e ninfe. Dei veri gioielli.
“Grazie Noah, con questa sarò sicuro di ferrare qualche trota.”
“Divertiti... vai a monte del torrente, ci sono diverse buone buche, e dei grossi sassi. Ho sempre preso bene in quei posti. Io provo a valle.”
Noah iniziò a scendere lungo la riva del torrente, mentre Franz lo osservava provare qualche lancio per scaldarsi. Era davvero uno spettacolo per Franz osservare la scioltezza e l'eleganza con cui Noah lanciava la coda di topo, lasciando poggiare delicatamente la mosca nel punto stabilito. A monte di un masso o sotto delle frasche che ombreggiavano l'acqua, dove probabilmente presupponesse si annidasse una trota.
Franz legò al finale della coda di topo una mosca secca. La sua canna gli era stata regalata da un ex ufficiale giapponese. L'aveva conosciuto in tempo di guerra, e poi si erano frequentati in Svizzera, dove l'ex ufficiale, ora diplomatico, passava un periodo di ferie in un famoso albergo a Ginevra.
La canna in bambù era finemente decorata, e doveva essere costata parecchio. Franz iniziò a risalire la corrente in un tratto poco profondo, finché raggiunse un punto dove l'acqua sormontava dei grossi massi formando una piccola cascata e creando un vorticoso ritorno di corrente. Il colore verde cupo, indicava che in quel punto il torrente raggiungeva una profondità di qualche metro. Il sole già scaldava le pietre, e Franz con un fazzoletto si asciugò la fronte. La camminata guadando il torrente lo aveva evidentemente affaticato. Trovandosi in acqua in senso longitudinale allo scorrere della corrente, senza alcun ostacolo alle spalle per molti metri, iniziò a lanciare a monte. Man mano che la coda di topo volteggiava sopra il suo cappello di paglia, avanzava di qualche metro. Cercò di rimanere fermo senza oscillare avanti e indietro. Era da un po' di tempo che non andava a pesca. Dopo i primi tentativi di lancio, troppo corti, riuscì a posizionare la mosca sotto una cascatella, dove la corrente subiva una frenata, a causa di un sasso che né deviava la vorticosa corsa. Poteva vedere la mosca che roteava su se stessa lentamente portata dalla corrente. Franz pensò che li sotto doveva pur esserci del pesce. La mosca continuò invece la sua lenta discesa. Franz stava per ritrarre la coda di topo, traendola con la mano sinistra, quando si accorse di un leggero movimento d'acqua al passaggio della mosca in prossimità di un grosso sasso sporgente dal pelo dell'acqua, levigato come fosse di alabastro. Rilasciò la presa, e attese. Passarono pochi secondi, che parvero interminabili. Finalmente un abboccata decisa, il pesce afferrò la mosca e s'immerse simultaneamente, Franz diede uno strattone veloce alla canna, per essere certo che il piccolo amo fosse penetrato nella carne. In questi casi si teme sempre che il pesce riesca a slamarsi. Il pesce doveva avere una discreta dimensione poiché faceva una tenace resistenza e cercava di dirigersi verso un mucchio di rami portati dalle recenti piene, dove Franz sapeva che avrebbe potuto perderlo. Con calma riuscì a deviarlo spostandosi sulla parte opposta del torrente, che in quel punto era poco profondo. Poi con calma lo trasse verso di sé e preso il guadino lo fece scivolare al suo interno. Si trattava di un bellissimo esemplare di trota fario. La guardò boccheggiare, inconfondibile con la linea dal dorso verde cupo che poi sfumava in tonalità dal colore arancio e giallo, fino a schiarire al bianco verso il ventre molle, cosparsa di punti colore rosso arancione con la tipica bordatura bianca. Franz stette a guardare quello spettacolo della natura e avrebbe voluto rilasciarla, ma gli sembrava indelicato non contribuire alla cena che Noah gli aveva prospettato a base di pesce, polenta, formaggio, e qualche buona fetta di salame. Prodotti tipici del posto, per non parlare del vino. Così per non farla soffrire, le diede un colpo col suo annoccatore, e la mise delicatamente nel cestino in vimini porta pesce che aveva a tracolla. Decise dopo questa gradita emozione di sedersi su una pietra all'ombra. Sfilò dalla tasca del giubbotto una fiaschetta di wiscki, e ne bevve un lungo sorso. Era un abitudine che aveva preso collaborando con un uomo dei servizi segreti americani. Lo faceva spesso anche prima di un azione, per darsi coraggio, poi guardò lo splendido paesaggio circostante, con il torrente che scorreva lungo la gola delle montagne, coperte da boschi verde scuro, e poi le rocce, con in cima qualche traccia di neve non ancora sciolta dal sole. Ripose poi la fiaschetta, e sostituì l'esca con una mosca sommersa, perché gli venne voglia di provare a pescare in profondità, avendo adocchiato un'ansa del torrente con l'acqua calma, quasi piatta e profonda, dato il colore scuro, sormontata da frasche con foglie che la ombreggiavano. Pensò che a quell'ora con il sole che salendo aveva riscaldato l'aria, ci potesse essere del pesce a godersi la frescura, in agguato, pronto a ingoiare qualche insetto o larva portati dalla corrente. Franz sapeva che con le mosche che imitano le ninfe, le probabilità di una possibile abboccata aumentavano. Camminò lungo la sponda opposta coperta di ghiaia, l'acqua era bassa e fece i primi lanci, poi quando indovinò il punto preciso dove far cadere l'esca, attese che passando in prossimità dell'ansa la ninfa affondasse. Questa operazione la dovette ripetere più volte. Aveva avvertito una debole abboccata, e decise d'insistere. Dopo svariati tentativi, Franz diede uno strattone alla canna, che flettendosi, la punta toccò per un attimo il pelo dell'acqua. Il pesce cercava di opporre la massima resistenza. Franz non si fece prendere dalla fretta, e non voleva forzare la presa, cercò di assecondare il pesce per non rompere il finale. La sorpresa quando dopo aver tirato a riva sulla spiaggetta di ghiaia e sabbia un grosso temono dalla inconfondibile pinna dorsale molto sviluppata, fu tale, che lo annusò e senti quella parvenza tipica di profumo di timo. Franz mise il pesce insieme alla trota, e quando alzò lo sguardo in lontananza vide un puntino scuro che si muoveva, era Noah, fermo con la canna in mano. Poi vide un'altra figura, che gli si avvicinava. Franz incuriosito, trasse dalla tasca, un piccolo binocolo, e lo puntò inquadrando la scena. Era una donna in giacca e pantaloni, un cappello le nascondeva il volto. Probabilmente la donna che lui aspettava. La donna diede un bacio a Noah, e appoggiò un cestino per terra, che probabilmente conteneva la colazione. I due lo avevano visto, e gli fecero dei gesti con le mani. Volevano evidentemente che lui li raggiungesse. Franz si alzò e fece segno che aveva capito, ma avrebbe preferito continuare a pescare, si accese una sigaretta e prima di scendere e raggiungerli, diede una profonda aspirata.
 
Quando li raggiunse, la donna era di spalle intenta a preparare dei panini, Noah guardò Franz visibilmente soddisfatto.
“Franz questa è la mia fidanzata.” La donna si alzò e si voltò, rimanendo con un espressione stupita. Anche Franz rimase per un attimo senza parole, poi salutò la donna.
“Ciao Lauren.” 
“Vi conoscete?” Chiese Noah? Lauren intelligentemente precedette Franz. 
“Si. È stato il mio miglior maestro di sci. Molto paziente è competente in Germania, prima della guerra.”
“Non esagerare, eri già una brava sciatrice.”
“Bisogna brindare a questo inatteso e fortuito incontro. Dopo la guerra è davvero una strana coincidenza che vi siate incontrati per merito mio.” Franz fece fatica a proferire una parola, tale era l'emozione di rivedere Lauren, che seppur non più  giovane, ma una donna matura, era ancora più bella e attraente per lui.
“Già, è davvero un caso su mille, di questi tempi.” Fu la risposta scontata, che diede Franz. Noah riempì i bicchieri di vino, e assieme brindarono alla fortunata e stravagante circostanza, in questa parte del mondo sperduta fra i monti. Franz al contrario fatico a mascherare la sua forte emozione. Lauren nella sua vita, che per alcuni poteva risultare avventurosa, era stata l'unica donna che aveva intensamente amato e desiderato. Lui ora era un uomo solo, con pochi amici e più che altro conoscenti. Lauren dopo aver divorziato dal primo marito, era passata attraverso varie frequentazioni, ma era Noah che le infondeva quel senso di tranquillità e sicurezza che ogni donna cerca dopo la spensierata giovinezza. Noah le garantiva una posizione sociale prestigiosa e solida, cosa a cui una donna non è indifferente. Ambedue non aggiunsero altro, mentre dopo aver fatto colazione e brindato, rientrarono allo chalet. Noah aveva percepito che tra Franz e Lauren non c'era stata solo una semplice amicizia, ma era un accadimento di molti anni fa, lui era un uomo colto e data la sua esperienza, un fatto accaduto diversi anni addietro, non poteva necessariamente creare un problema. Naturalmente se tra Franz e Lauren la passione non fosse decaduta, ma si fosse riaccesa, dato l'imprevedibile incontro, le cose avrebbero ovviamente creato un significativo cambiamento. Noah fece di tutto per dissimulare tali pensieri agli ospiti, e insieme a Lauren preparò la cena in tono allegro e disincantato, facendo delle domande a Lauren e Franz, come era abituato a fare, per percepire i sentimenti che coinvolgevano i suoi due ospiti. Ma sia Franz che Lauren limitavano le risposte alle sue domande riducendo il loro incontro a una questione puramente professionale, un rapporto tra allieva e maestro di sci. Questo naturalmente rese Noah più sospettoso. Il suo indottrinamento e addestramento a livello psicologico, lo aveva pervicacemente persuaso che tra i due amici ci fosse stata una cocente passione, interrotta dalla guerra. Ma Noah cercò di dissimulare in ogni modo il suo pensiero. Franz e Lauren fecero lo stesso, ciò creò dei momenti di mutismo e tensione, durante la conversazione.
 
La cena a base di pesce polenta e altro, ebbe inizio con una battuta scontata di Lauren, dal momento che l'aveva proferita una donna di origini borghesi, per non dire agiate.
“Trovo la pesca un'attività così noiosa, non riesco a capire come molti uomini vi siano talmente affezionati? Anche mio marito quando aveva del tempo libero andava a pesca. Io, quando lo accompagnavo in mare a Cuba sul suo yacht, la trovavo così brutale. Quei poveri marlin, si dibattevano con tutte le loro forze, un vero strazio.”
Noah guardo Franz con un sorriso che poi si trasformò in una lieve smorfia. 
“Lauren, ovviamente una donna non può essere interessata né alla caccia, né alla pesca. Sono attività prettamente maschili.”
“Conosco qualche donna che va a caccia, addirittura in Africa. Per esempio... una baronessa austriaca. Quando sono stato a visitarla la prima volta nel suo castello, mi ha fatto vedere tutti i suoi trofei di caccia. Sparava molto bene, e conosceva le armi, ne aveva una gran collezione.” Disse Franz, e poi bevve un sorso di vino. 
“Sul fatto di non uccidere gli animali, qualsiasi animale, sono d'accordo con te Lauren. A caccia non ci vado, anche perché ho adoperato troppo le armi, e ho dovuto uccidere uomini come me, troppi. I ricordi di guerra sono quasi sempre spiacevoli, come per la maggior parte degli ex militari. Ma la pesca non la trovo affatto noiosa, anzi, è la sua imprevedibilità che la rende attraente. Con la mia esperienza di vita, posso affermare che sono le persone a essere spesso noiose e prevedibili. Quando vai a pesca non sai mai come andrà. Scegli il tipo di canna, l'esca, l'ora. Se andare all'alba, o verso sera. Con la luna piena o la luna calante. Se vai al mare, con il massimo di alta marea o al contrario il minimo di bassa marea. Mare mosso o calmo... ci sono infinite variabili. Ogni giornata di pesca è diversa dall'altra. È la sua mutevolezza, che rende la pesca un emozione unica.” Lauren sorrise e si versò da bere.
“Davvero una bella arringa in difesa della pesca. Non credevo fosse così importante la pesca per te Franz.”
“Si, andare a pesca è una delle attività che mi rilassa di più. E poi si va sempre in posti meravigliosi, da soli e in pace con se stessi.”
“Sono d'accordo Franz. Oggi abbiamo passato una bella mattinata. Merito anche della tua colazione Lauren. Si è fatto tardi, anche domani dobbiamo alzarci presto, io vado a letto.”
“Vengo con te Noah, ma non vorrei lasciare Franz da solo.”
“Non preoccupatevi, mi bevo un goccio di questa grappa al ginepro, e poi vado anch'io a dormire.” Franz bevve un bicchierino di grappa. L'emozione di aver rivisto Lauren, era stata forte, dopo tutti quegli anni. Si sentiva stordito, e fece fatica più tardi a prendere sonno. Lauren gli era parsa fredda nei suoi confronti. Ma forse anche per lei, l'averlo rivisto, dopo tanti anni, poteva averle creato un forte turbamento. Con questi pensieri prese sonno.
Lauren si era coricata con Noah, che subito si era appisolato. Al contrario l'incontro imprevedibile con Franz aveva riacceso in lei quella passione provata in gioventù. Si trovava nella stessa condizione di all'ora. Voleva un gran bene a Noah, ma non lo amava, come non aveva amato il suo precedente marito. Per dormire prese un sonnifero, convinta che ciò sarebbe servito in qualche modo a spegnere la passione rinnovata per Franz, che seppur con qualche ruga e capello bianco aveva mantenuto il suo fascino, anzi in un certo senso lo aveva aumentato. Noah dormiva profondamente, non si era creato problemi. Non aveva percepito quella tensione che era intercorsa tra Franz, il suo vecchio amico, e Lauren, la donna con cui si sarebbe presto unito in matrimonio. La sua sicurezza economica e sociale gli impediva di cogliere certe sottigliezze e sfumature psicologiche.
Il giorno seguente Franz e Noah andarono di nuovo a pesca, ma Noah fu interrotto da un agente dei carabinieri arrivato sul posto per avvisarlo di un impegno impellente, Noah dovette mollare Franz poiché era richiesta la sua presenza a Venezia per questioni di carattere diplomatico. Franz fu comunque contento di continuare la pesca da solo. Un'auto con autista venne a prelevare Noah, che diede le chiavi della jeep a Franz, e dopo aver fatto avvisare Lauren lasciò la vallata.
Franz questa volta si divertì veramente, e prese più di una trota, e anche un altro bellissimo temono, poi, soddisfatto rincasò. Lauren non era in casa, e dopo essersi acceso un buon sigaro decise di scendere a Cortina e fare una passeggiata in centro. Dopo aver parcheggiato decise di andare a bere qualcosa al bar dell’Hotel de la Poste, vi era stato già qualche altra volta. Entrò, e si diresse al bancone, poi ordinò del buon whisky di una marca americana, molto buono e rinomato. Bevve il bicchiere tutto d'un colpo, diede qualche colpo di tosse e poi né ordinò dell'altro. Senti chiamare il suo nome, e quando si girò vide seduta Lauren. Si avvicinò al suo tavolo col bicchiere in mano.
“Ciao Lauren."
“Siediti Franz. Non abbiamo avuto modo di parlare molto noi due.”
“Già. Non immaginavo di trovarti in Italia. Credevo vivessi a New York, con tuo marito e una schiera di bambini.”
“Io ti credevo morto. Non mi hai più scritto da allora.”
“La guerra ha stravolto tutto. Ricordi... volevo fare l'ingegnere, costruire abitazioni. Cose utili per la mia gente. Invece ho passato anni a combattere, senza costruire niente.”
“Ma ora che fai?”
“Lavoro per i sevizi segreti alleati. Ora il nostro nemico è la Russia, vado spesso a Berlino, è così che ho conosciuto Noah.”
“Perché non usciamo Franz. In questo posto c'è troppo fumo.”
 
 
Insieme uscirono e si diressero fuori dal centro, troppo pieno di turisti chiassosi. Lungo la strada videro una panchina di legno isolata, in un prato, all'ombra di un alto abete.
Si sedettero, e per un momento stettero a guardare quel panorama unico, di boschi e alte vette, meta di esperti arrampicatori. Poi inaspettatamente Lauren  appoggiò delicatamente la mano su quella di Franz.
“Non ti ho mai dimenticato, rivederti mi ha fatto soffrire.” Franz rimase interdetto. Quella frase gli fece come un lampo tornare alla memoria emozioni sepolte. In fondo anche lui non aveva dimenticato, e con le donne che aveva conosciuto da allora, non aveva mai avuto rapporti prolungati nel tempo. C'era sempre stato un motivo per cui, o era stato abbandonato, o lui aveva interrotto la relazione. Dopo un attimo di smarrimento, strinse la mano di Lauren.
“Anch'io non ti ho mai dimenticata.” Lauren lo abbracciò e appoggio la guancia sulla spalla di Franz, dopo averlo baciato sulla guancia.
“Noah mi ha telefonato, tornerà fra due giorni. Perché non prendiamo una stanza, e passiamo insieme quel che resta del giorno. Ho voglia di stare con te Franz.”
“Mi piacerebbe. Ho sempre desiderato rifare l'amore con te, in tutti questi anni, credimi... ma non sarebbe una buona idea.”
“Perché? Io voglio molto bene a Noah, ma ora che ti ho ritrovato, sei te che desidero. Sento di amarti come all'ora.”
“Lauren... Noah è un uno dei pochi veri amici che mi sono rimasti. È stato grazie a lui che a fine guerra non sono finito nelle mani dei russi. Ero ricercato per crimini di guerra.”
“Non posso credere a una cosa del genere.”
“Voglio essere onesto con te Lauren. Grazie alla mia collaborazione con le SS, molti partigiani ed ebrei sono finiti fucilati o nelle camere a gas. Allora non ebbi il coraggio di disobbedire agli ordini. Fu Noah, che mi offrì di lavorare per i servizi segreti alleati, in cambio della mia immunità. Se sono ancora vivo lo devo unicamente a lui. Capisci... gli devo tutto. Non potrei tradirlo.”
“Quindi dopo aver sacrificato la tua coscienza, sei pronto a sacrificare anche il nostro amore.”
“Lauren, non saresti comunque felice con me. In fondo sono un fuggiasco e un alcolizzato. Perdipiu faccio un lavoro sporco, dove mentire è la regola. Noah è ora uno stimato diplomatico, benestante, e con un ottima reputazione. Con lui sarai senz'altro felice. Lasciamo le cose come stanno.”
“Mi chiedi molto. Mi chiedi di diventare una moglie devota e infelice. Io sono ricca, potremmo condurre una vita felice in un altro paese.”
“Ne ho girati molti di paesi, e poi chi si può dire veramente felice oggi. La nostra generazione è stata travolta dalla guerra, forse i giovani avranno un futuro migliore in cui sperare...”
Franz e Lauren tornarono in Hotel, bevvero qualcosa insieme e promisero di scriversi, poi Franz prenotò una stanza, l'indomani sarebbe partito in treno. Lauren lo salutò, con quello che immaginava sarebbe stato l'ultimo abbraccio.
 
Di Alessandro Carnier 
24 novembre 2018
 

*

La cavallina stella

La cavallina Stella

 

Storia breve di una cavalla speciale

 

 

Elisa portami in veranda...” Elisa spinse sua madre, seduta sulla sedia a rotelle, lungo il corridoio centrale del primo piano della grande casa, dove avevano vissuto le generazioni della sua famiglia.

Va bene qui, mamma.” Rispose Elisa, sistemando Emma, la madre novantenne, in modo che potesse contemplare i prati con l'erba alta incolti che degradavano verso il torrente, al di là del quale si intravedeva un fitto bosco.

Emma soffermò lo sguardo sul gruppo di acacie e salici, poi volse gli occhi verso quella che un tempo era stata una stalla. La proprietà ora era notevolmente ridotta rispetto a quando lei era una bimba di otto anni. Solo Elisa e Paolo le facevano visita, Paolo si occupava di far coltivare l'unico esteso campo rimasto, Elisa teneva in ordine la casa, del resto se ne occupava una badante rumena. Guardando la vecchia stalla Emma richiamò alla mente ricordi sepolti nella memoria, rivide Stella, la cavalla che suo padre portava alle corse dei concorsi ippici a Udine.

Stella era una cavalla veloce, dal mantello color cammello chiaro, e portava una macchia bianca che sembrava una stella sulla fronte, da qui il suo nome.

Emma era stata una bambina fortunata, era nata dopo la prima grande guerra in una famiglia numerosa. Il padre Enore, era carabiniere e aveva superato due guerre mondiali. Era un contadino, ma un contadino speciale. Aveva studiato grazie al nonno in Austria, conosceva la lingua tedesca ed era ben voluto dal conte, grande proprietario terriero, e rispettato dai suoi paesani.

Era a lui che tutti si rivolgevano quando c'erano delle controversie. Enore amava quella cavalla. Quando Enore la domenica ritardava in osteria, sua moglie Carla chiamava Stella e le diceva: “Stella vai a chiamare Enore, è tardi!”

Stella usciva dal cancello della proprietà e andava in paese, poi entrava in osteria, e nitriva, attirando l'attenzione degli uomini intenti a giocare a carte e di Enore.

Stella, ho fatto tardi. Va bene, saluta i miei amici e c'è ne andiamo.” Stella annuiva con il muso, ed Enore usciva in compagnia della cavallina, dandole come premio una carota e delle carrube.

Enore aveva un'estesa proprietà terriera, acquisita nel tempo dalla sua stirpe con grandi sacrifici. Emma raccontava spesso a sua figlia di quando i partigiani durante il secondo conflitto mondiale avevano requisito diverse vacche e maiali. Enore aveva provato a opporsi.

Ho 15 bocche da sfamare.” Ma il capo aveva risposto incurante.

Non mi interessa.” Emma aveva raccontato a Elisa anche del pericolo che avevano corso quando avevano nascosto un ufficiale dell'aviazione americana che si era paracadutato tra i boschi della proprietà, dopo che la contraerea tedesca aveva colpito il suo aereo. I militari tedeschi avevano poi perquisito ogni casa del paese, e anche la loro, minacciando Enore di deportarlo in Germania, se avessero scovato il militare americano. Ma Enore era certo che non avrebbero mai cercato nella fossa del letame, dove durante la perquisizione si era seppellito l'ufficiale.

Questi ricordi frammentari uscivano dalla bocca di Emma in quei pochi momenti in cui riprendeva la lucidità. Emma, infatti soffriva di Alzheimer. Enore non c'era più da parecchi anni. I parenti rimasti erano emigrati per mezzo mondo, come molti friulani, chi in Australia, chi in Francia, Stati Uniti, Germania. Ormai la grande famiglia non si riuniva più come un tempo, a Natale o Pasqua.

Guarda Elisa.” Disse Emma, puntando il dito all'orizzonte.

Dove, mamma, dove?”

Laggiù oltre il fiume. E li che mio padre aveva spianato un campo e tracciato una pista dove andava ad allenare Stella. La pista la teneva con la stessa cura che adoperava per i campi, il terreno doveva essere compatto ed allo stesso tempo elastico. Mi ripeteva sempre, ne troppo molle ne troppo secco.”

Ma io non vedo niente...”

Già, ora la pista non c'è più... ma quando la allenava, la faceva correre. Dovevi vedere quanta invidia aveva il conte. La sua domestica, la Rosina, me lo ripeteva spesso, quando la incontravo al mercato. Nine... ìl conte Alvise è invidioso, dice sempre, quando vede la cavallina di tuo padre: che bella cavalla, e pensare che è di un contadino.” Ed aveva motivo di essere geloso. Il papà, la domenica partiva presto all'alba per andare in città a Udine in groppa alla cavalla, non potendo permettersi di trasportarla con un'auto ed il necessario rimorchio, come il conte. E dopo tutta quella strada, pensa, vinceva le corse. Allora c'era una sola pista, dove si correvano i concorsi ippici. Non c'è n'era una più veloce. Sai Elisa, ero io che la governavo due volte al giorno quando il nonno era nei campi. Usavo la brusca.”

Che cosa?”

Prima la striglia per separare i peli incollati dal sudore, e poi la brusca, era una spazzola, grande, di crini o di setole di cinghiale, per pulire il mantello del cavallo. Sai a Stella piaceva, era come un massaggio. Poi usavo il nettapiedi per pulire lo sporco tra la suola e il ferro. E a fine allenamento per togliere il sudore la stecca. Cosi Stella si asciugava più in fretta. Ed infine le spugne per lavare: gli occhi, il naso ed il resto. Era come coccolare un neonato. Ci voleva la stessa cura e la stessa dolcezza. Il nonno voleva che lo facessi solo io. Solo il nonno ed io potevamo montare Stella.”

Che vuoi dire mamma?”

Gianni e Franco e tutti gli altri fratelli ci hanno provato, ma lei li disarcionava. Non ne voleva sapere. Era per questo che il nonno pretendeva, che me ne occupassi solo io.”

Ma poi che fine fece la cavallina mamma?”

Purtroppo scivolo sul ghiaccio, era febbraio e sbatté la testa su un palo. Non ci fu niente da fare, il veterinario dovette sopprimerla. Da quel giorno il nonno non ne volle più sapere di corse di cavalli, e non acquistò un'altra cavalla. Ripeteva spesso, che una cavalla come Stella non l'avrebbe mai più trovata. Stella era davvero speciale.

 

Pordenone 7 marzo 2014

 

Alessandro Carnier

 

*

Breve storia veneziana

 

 

Léna era seduta sui gradini del Redentore. La facciata di marmo bianca riverberava la luce del sole primaverile e ne amplificava il calore sulle gambe e braccia nude. Si era tolta il giubbino di pelle e lo aveva poggiato con delicatezza sopra la borsa per non macchiarlo. L'inverno era finalmente passato con le sue noiose giornate caliginose e quell'umidità tipica di Venezia, fatta da infinitesimali goccioline di pioggia sospese nell'aria che ti penetrano fin nelle ossa. Era uscita da scuola e voleva godersi quel bel sole, che con lo scorrere delle ore avanzava lungo tutta la Giudecca: sui tetti delle case, sugli stretti canali, sui campi e sulle reti dei pescatori. Di fronte a sé, a sinistra la Punta Della Dogana, e un po' più a destra il campanile di San Marco e la cattedrale. Poi il suo sguardo andava lontano lungo la Riva Degli Schiavoni e i giardini della Biennale. Léna mentre osservava, parandosi gli occhi con il palmo della mano si accorse che una figura al suo fianco le faceva ombra.

"Dèle spostati mi fai ombra!" Dèle era la sua compagna di banco.

"Lo so perché sei qua. Non è ancora passato?"

"Chi? Di chi parli?" 

"Di Dòlfo!"

"Ma cosa dici. Si sta così bene al sole." 

Léna fece finta di niente...

"Ha eccolo! Guarda laggiù." Lungo il canale avanzava una caorlina con sei rematori.

"Guarda... Dòlfo è il penultimo. Si vede, è l'unico coi capelli lunghi e biondi."

"Ha sì..."

"Ma Léna lo sanno tutti che ti piace!"

"Lo sanno tutti, meno io." Il biondo vogatore sfilò la bandana dai capelli e gridò: "Ciao Léna, ciao. Guarda che bel sole che splende nel cielo: oci celeste fà inamorare. 1"

Dèle sorrise: "Oci mori rubacuori.2 Ma guarda... non mi sembra il modo di fare di un estraneo." 

"Scherza pure, ma io non so cosa fare. Non mi fido, corre dietro a tutte le sottane. A me pare di: no ‘vere gnente da spartire." Nel frattempo Dòlfo fece un segno ai suoi compagni e la caorlina accostò lentamente.

"Léna cosa né dici se domani ti vengo a prendere e andiamo a fare un bagno al Lido?"

"Domani è domenica, dovrei studiare..."

"Mi devo mettere in ginocchio e pregarti, guarda che sole." D'olfo appoggiò il remo e congiunse le mani come sé stesse pregando.

"Va bene, ma non facciamo tardi perché mio padre el me cópà.4" 

"Dòlfo hai finito. Abbiamo fretta!" Gridarono in coro i cinque vogatori spazientiti.

"Va bene, va bene. Maledetta regata, andiamo avanti. Léna domani alle 9:0, ricordati!" Dòlfo si stava allenando con i suoi amici per la regata storica di settembre.

"D'accordo." La caorlina si allontanò e Léna si alzò dai gradini, indossando il giubbino e mettendo a tracolla la borsa. Dèle le si avvicinò, e insieme s'incamminarono lungo le Fondamenta S. Giacomo.

"Ma quanti problemi che ti fai... D'olfo è un bel ragazzo, anche se è drìto.5 "

"Parché xe drìto ? Fa il pescatore, cosa intendi dire?" 

"Il vongolaro, ma di quelli furbi."

"Ti ripeto Dèle, cosa intendi?" 

"Dicono che va a prendere le vongole dove non si dovrebbe..."

"Dicono tante cose, perché è bello ed è un bravo vongolaro. Sono solo invidiosi. Non lo sarai anche tu." Ribatté Léna seccata.

"Per me. Contenta te! Contenti tutti." 

“Non voglio litigare Dèle. Vieni alla festa domani da Checo?" 

"Vengo, vengo. Ciao Léna." Si era fatto tardi e Léna si avviò verso casa dove doveva fare i compiti e studiare italiano. Lunedì sarebbe stata interrogata.



Domenica mattina

 

Léna era passata per il giardino comunale della Giudecca e dei bimbi giocavano allegramente sullo scivolo posto al centro del parco con le mamme accanto, ma lei camminava veloce per arrivare fino alla piccola darsena dove aveva appuntamento con D'olfo, poiché era in ritardo. D'olfo l'attendeva sulla punta del molo in un barchino con motore fuoribordo Yamaha 700 da 25 cv., modificato e portato a 65-70 cv., con la radio a pieno volume. Léna lo sentì imprecare: "S-ciopà!7Mancavano pochi passi da lui e Léna vide l'imbarcazione ondeggiare vistosamente e sbattere sulla banchina.

"Imprechi di prima mattina D'olfo. Non mi pare un bel modo per iniziare la giornata."

"Hai ragione Léna, ma è quel desgrazià 8, che mi è passato d'avanti correndo dove non si può." D'olfo indicò un grosso motoscafo che si allontanava a gran velocità, dopo aver creato una serie di grosse onde che avevano fatto beccheggiare vistosamente il barchino.

"Ti sei fatto male? Fammi vedere la mano!" 

"No. Ho preso solo una botta, ma non è niente." Léna salì a bordo, mentre D'olfo accelerando prese la direzione per il Lido passando davanti alla Riviera S. Nicolò, poi lasciando sulla destra l'isola di Sant'Erasmo, proseguì costeggiando il molo col piccolo faro e in fine virò verso est oltrepassando il vecchio faro dismesso di Punta Sabbioni.

"Non andiamo al Lido?"

"No Léna, ho pensato che sulla spiaggia di Punta Sabbioni c'è meno gente la domenica in questo periodo. Conosco un posto dove si sta più tranquilli. Ti dispiace?" 

"No. Basta stare al sole e fare un bel bagno. Puoi abbassare il volume della radio?"

"Si scusa. Quando sono solo mi fa compagnia, è per questo che la tengo sempre accesa. Ma adesso ci sei tu..."

"Grazie." Lena si stupì della radio, e tra se pensò che fosse strano che D'olfo non usasse uno smartphone con cuffiette per ascoltare musica, come facevano ormai quasi tutti. La radio ad alto volume gli pareva fosse un'abitudine antica, sorpassata. D'olfo nel frattempo decelero la velocità del motore, e la prua del barichino si abbassò lievemente avvicinandosi all'arenile, poi gettò l'ancora dove il mare non superava il mezzo metro. In costume da bagno scese per primo e poi aiutò Léna a entrare in acqua senza bagnare i due zainetti contenenti gli asciugamani e il resto. Insieme raggiunsero la spiaggia semi deserta. Era primavera e gli ombrelloni si potevano contare sulle dita delle mani.

"Mamma mia che brividi..."

"Poi ci fai l'abitudine. Ti pare più calda, il corpo si abitua. Io mi bagno spesso, sono un pescatore." 

"Io no. Comunque l’aria no xe pì freda, al sòl se sta al caldo. 9 " Sistemarono gli asciugamani colorati e si stesero al sole per una mezz'ora. Parlarono di tante cose, Léna era all'ultimo anno del liceo e non sapeva se iscriversi all'università o andare a lavorare. D'olfo del suo lavoro: di quanto fosse stufo di faticare e alzarsi presto la mattina, sognava di prendersi una lancia, il tipico taxi acqueo veneziano di legno verniciato con diverse mani di gommalacca, non quelli in plastica o vetroresina. Lo descriveva nei dettagli: lo voleva con la prora coperta molto lunga, e con la tipica cabina a poppa. Fecero poi un veloce bagno, l'acqua era ancora fredda.



"Che frédo. 10 Io esco dall'acqua, non ci resisto." Léna uscì e si avvolse l'asciugamano sulle spalle, D'olfo la raggiunse poco dopo.

"Dai Léna andiamo a metterci fra le dune, più in là, così ci ripariamo dal borìn 11." Presero le proprie cose e si spostarono tra le dune più a monte della spiaggia, sulla cui sommità cresceva la tipica Ammophila littoralis, pianta erbosa che rallenta la velocità del vento. Non fu difficile per D'olfo approfittare dell'occasione, aveva una vasta esperienza di donne, soprattutto di turiste straniere in cerca di avventura, che adescava a Rialto o alle Zattere, o sedute al famoso caffè Florian, in piazza San Marco. Con la scusa di tenerle caldo abbraccio teneramente Léna, che lasciò fare. Forse non attendeva che questo... poi un bacio tirò l'altro, e come spesso avviene finirono semplicemente per fare l'amore, nascosti in una depressione interdunale. Solo un gabbiano che volava alto sopra loro, poteva vederli. A sera D'olfo accompagnò Léna a casa e credette di essersi innamorato di quella bella e giovane liceale, ma questa breve storia che avrebbe potuto continuare lietamente, venne interrotta bruscamente...

 

Era maggio inoltrato quando all'alba una lancia delle fiamme gialle fermò il peschereccio del padre di D'olfo. Vennero arrestati tutti e due insieme ad altri pescatori nell'ambito di una vasta operazione, e sequestrate l'imbarcazione e l'attrezzatura. L'accusa fu di pesca in acque vietate e di distruzione dell'ecosistema lagunare. Infatti furono rinvenute nel natante: gabbie, pompette e vibranti causa del violento sommovimento del fondale durante la cattura dei mitili e delle altre specie con l'inevitabile depauperamento ittico. Léna dopo la condanna cercò di andare a trovare D'olfo in carcere, ma i suoi genitori glielo proibirono. Lei dopo lo stress degli esami di maturità, che superò brillantemente, cadde in depressione e venne seguita da uno psichiatra. Per un lungo periodo fece uso di psicofarmaci. All'inizio della cura quando si avvicinava a un canale sentiva il desiderio di buttarvici dentro. Da bambina le era capitato di rischiare di annegare facendo a gara con i le sue amiche a tuffarsi nella zona più profonda di una piscina, vicino al trampolino, per recuperare una moneta. Mentre cercava non riuscendo più a trattenere il respiro di afferrare la monetina, aprì la bocca, e nell'istante in cui stava soffocando vide scorrere tutta la sua breve vita in un vortice luminescente, con una sensazione di grande tranquillità, che fu interrotta dalle mani del bagnino che presa per le ascelle la riportava in superficie. Quell'esperienza le aveva insegnato che morire non era poi così doloroso. Lei fissava per minuti l'acqua verde tra le rive, come fosse una pellicola al di là della quale sarebbe stata in pace e non avrebbe più sofferto quella angosciante impressione di ansia e angoscia perenne. Poi col tempo recuperò la voglia di vivere, e quel periodo nero scomparve dalla sua mente riposto in un angolo infinitesimale della parte logo temporale del cervello.

 

Dopo qualche anno Léna si sedette in aprile sui gradini della stazione dei treni Santa Lucia, posti di fronte al canale. Era appena arrivata da Padova dove frequentava la facoltà di medicina, e stava leccando un cono di gelato alla vaniglia e guardando svagatamente il via vai di turisti, vaporetti e gondole e la chiesa neoclassica di San Simeone con la sua caratteristica cupola sulla cui sommità si stagliava la piccola lanterna a forma di tempietto. Il gelato sciogliendosi le colava tra le dita, quando senti gridare il suo nome: "Léna... Léna..." 

Léna guardò meglio sulla banchina della riva e vide un tipo che agitava le mani su un taxi.

"Sono D'olfo, vieni!"

Lei si alzò e attraverso il grande spiazzo fino alla passerella dove era attraccato il taxi, quando fu vicino allo scafo, D'olfo le allungo la mano invitandola a salire a bordo.

"Dai sali non ti mangio mica..." Léna salì a bordo.

"Te piase 12 ? L'ho rimesso a nuovo. Adesso sono in regola: patente, licenza... ho cominciato a fare il taxista da poco." 

"E la pesca?"

"Dopo la galera... non ho più avuto voglia di continuare."

"Parché te ga fato, tuto quel che te ga fato? 13

"Pa ciapàr qualcosa! 14 "

"Non potevi pescare onestamente come gli altri..." 

"Per morire di fame. Non si pescava quasi più niente per cui valesse la pena di sprecare il carburante per uscire in barca. Le industrie hanno inquinato la laguna per anni, e nessuno dei responsabili è mai andato in galera, e noi poveri pescatori non si portava a casa niente. Se non facevamo così, non avremmo guadagnato niente..."

"Ma D'olfo... vendevate i capparossoli inquinati... puro veleno?" 

Ma quasi tutto è avvelenato: il mare, e perfino l'aria che respiri. Comunque adesso anche se con il taxi inquino l'acqua, sono pulito... e tu come stai? Basta parlare dei miei guai."

"Tiro avanti, come facciamo tutti..." D'olfo e Léna dentro il taxi si allontanarono e scomparvero sotto il ponte degli Scalzi confusi tra vaporetti ricolmi di turisti e barconi da trasporto. Non sappiamo cosa successe dopo... se tornarono insieme o se le loro vite si separarono definitivamente.

 



1) Oci celeste fà inamorare: occhi celesti fanno innamorare.

2) Oci mori rubacuori: Occhi mori, rubacuori.

3) No ‘vere gnente da spartire: non avere nulla in comune, con lui.

4) El me cópà: mi uccide.

5) Drìto: furbo.

6) Parché xe drìto?: perché è furbo?

7) S-ciopà!: scoppiato.

8) Desgrazià: disgraziato.

9) L’aria no xe pì freda, al sòl se sta al caldo: l'aria non è più fredda, al sole si sta al caldo.

10) Che frédo: che freddo.

11) Borìn: venticello.

12) Te piase?: ti piace?

13) Parché te ga fato, tuto quel che te ga fato?: perché hai fatto, tutto quello che hai fatto?

14) Pa ciapàr qualcosa!: per guadagnare qualcosa!



Di Alessandro Carnier

Pordenone11 marzo 2015

*

Il cuoco stellato

 

 

Il cuoco stellato

 

Era una di quelle mattine di metà agosto, che pur essendo calde e assolate già facevano presagire la fine dell'estate. Avevo posteggiato l'auto davanti al lago e stavo montando il mulinello nella canna da mosca, venivo in questo specchio d'acqua per tre buoni motivi: era un bel posto ed era vicino a casa mia, e volevo allenarmi provando qualche lancio con una coda di topo da poco acquistata.

Il lago lo frequentavo da quand'ero ragazzo, e a quei tempi ci potevi fare anche il bagno. Purtroppo la sua naturale purezza era stata deturpata da scarichi inquinanti, a questo depauperamento del luogo aveva contribuito anche l'aggiunta di vari arredi tipici dei parchi: panchine, tavoli, attrezzature fitness e ricreative e una struttura in legno, che avrebbe dovuto nelle buone intenzioni fungere da ristoro per i frequentatori del lago, ma che dopo varie gestioni negative era rimasta chiusa e abbandonata. Tutti elementi che rendevano più vivibile il posto, ma avevano reso l'ambiente artificioso.

Si era insediata per ultima un'associazione sportiva di canoisti, con relativa baracca in legno, che aveva riempito una buona metà del lago di zatteroni e boe. Il risultato era per me desolante, l'orizzonte del lago che un tempo era uno specchio d'acqua libero e incontaminato ora era disseminato da queste strutture dai colori sgargianti che lo facevano sembrare a un parco giochi acquatico, o a una tinozza piena d'acqua con barche e paperotti di plastica colorata per farci giocare i bimbi. Inoltre, ai primi frequentatori del lago indigeni del luogo si era sovrapposta una folta schiera di extracomunitari di diverse etnie, rumorosa, che rendeva impraticabile il parco nei giorni di festa, oltre che nei periodi in cui vi si praticavano chiassose sagre a base di salsicce e carne di ogni tipo alla griglia, che se avevi la malaugurata idea di parteciparvi dava il voltastomaco solo annusare l'odore di fritto che proveniva dalle cucine e che rendeva l'aria irrespirabile per giorni in tutta l'area del parco. Mi rendevo comunque conto che probabilmente ero l'unico a pensarla così, forse la maggioranza dei frequentatori del lago ne erano entusiasti.

 

Finito di montare la canna, presi il guadino e la borsa a tracolla e mi avvicinai alla sponda del lago, quella deserta, e dopo aver legato una ninfa, iniziai a lanciare la coda di topo in avanti cercando di non perdere il ritmo mentre caricando la canna facevo progredire il finale sempre più in là sullo specchio d'acqua di fronte a me. Dal momento che alle mie spalle non vi erano ostacoli: alberi e cespugli, provai un overhead (lancio sopra la testa), poi in successione il lancio rovescio, e per ultimo il rotolato. Esercitandomi, piano piano mi rincuorai, era da tempo che non pescavo a mosca, ma per fortuna dopo l'imbarazzo iniziale, rimasi soddisfatto dagli ultimi lanci fatti. Passata una mezz'ora vidi un branco di cavedani che si aggiravano all'ombra di un grosso salice a ridosso della riva. Sostituì la ninfa con una più piccola adatta a questa specie di pesci molto sospettosa. Feci dei lanci mirati, e a uno di questi segui lo strattone deciso di un pesce, che però non si concluse con una ferrata.

I lanci che feci dopo non sortirono più alcun effetto. I cavedani seguivano la ninfa per un breve tratto e poi prendevano un'altra direzione, dimostrando un disinteresse totale per il piccolo artificiale. Avevo la sensazione che avessero comunicato fra loro segnalandosi il pericolo di essere catturati. Questa sensazione si avverte spesso, dopo una ferrata con qualsiasi tipo di esca è difficile che né seguano altre, come se i pesci memorizzassero l'accaduto. La spiegazione più ovvia e che addentato l'artificiale la prima volta, e appurato che non è commestibile, il pesce che non è per niente stupido, difficilmente si fa ingannare una seconda volta. Spesso quando ho questa sensazione sostituisco il tipo di esca o la tecnica di pesca. Solo in poche e indimenticabili giornate le ferrate si susseguono, ed è per questo motivo che rimangono esaltanti nei ricordi di pesca. Lanciavo da circa un'ora e con il braccio ormai stanco decisi di smettere, ma non prima di aver provato a sondare una zona d'acqua profonda antistante a una vecchia chiusa che sapevo popolata da grosse carpe, tozze tinche con la livrea verdastra sul dorso e più chiara che sfumava al giallo sul ventre, e grossi cavedani.

Quando mi avvicinai alla diga vidi un signore dal fisico robusto e i capelli grigi e lunghi che subito mi disse: “Niente?”

“No, solo un'abboccata.” Risposi.

“Ho visto, l'osservavo mentre lanciava. Provi qui, è pieno di carpe e cavedani. Io ci vengo ogni giorno.”

Non mi piaceva pescare mentre qualcuno mi guardava. Tuttavia il personaggio dai modi distinti e affabili mi convinse a fare qualche lancio nel totale disinteresse di cavedani e carpe.

L'uomo dopo avermi lasciato fare commentò: “A questi gli piace il pane, da noi usiamo il trecciato che ha la mollica elastica, che è ottima per avvolgerla all'amo, e molto resistente e non si sfalda in acqua, deve vedere come la mangiano.”

“Sì, lo so, ma non ho né il pane né la canna adatta.”

“Sa io sono ligure, e da noi le carpe e i cavedani li peschiamo con il pane. La pasta li attira di più, delle mezze maniche ne vanno ghiotti. La fai bollire e ci aggiungi un po' di vaniglia, è micidiale. Aspetti forse ho ancora un po' di pane, le faccio vedere.”

L'uomo si allontanò, ma non vedendolo ritornare, presi l'attrezzatura e dopo averla caricata nel bagagliaio, me ne andai.

 

Tornai più volte in quei giorni, quando avevo la mattinata libera, portando con me anche qualche lattina di birra. Il signore che portava un cappello a larghe tese, probabilmente per meglio ripararsi dal sole, era sempre presente, seduto al solito tavolo da picnic di legno. Io seguitavo a lanciare sulla solita riva del lago, e lo potevo vedere leggere il giornale con la coda dell'occhio, o conversare animatamente con i guardiani del parco antistante al lago, o con qualche passante. Pensai che dovesse abitare in una di quelle villette a schiera poco distanti dal lago, che avevo sempre criticato, erano state edificate pochi anni addietro, rovinando inesorabilmente il paesaggio che faceva da cornice al lago, spianando un boschetto con diversi vecchi, ma sani alberi d'alto fusto. Un giorno indispettito dal fatto che non ero riuscito a ferrare nemmeno uno di quei grossi e furbi cavedani con la canna da mosca, decisi di provare col pane, come esca, e con una vecchia bolognese, montando un galleggiante da 2 grammi e un finale non troppo sottile da 0,18, poiché i pesci erano da almeno un chilo e mezzo, se poi avessi preso una carpa, e avessi avuto problemi a recuperarla, poco male, avrei tagliato il filo.

 

Stavo innescando con difficoltà il fiocco di pane sull'amo, quando comparve L'uomo.

“Ha deciso di provare?”

“Sì, il pane come esca con i cavedani non l'ho mai utilizzato, sono curioso.” Posai con delicatezza la lenza in acqua, L'uomo osservava con attenzione le carpe che grufolavano fra le alte e folte alghe. Io vidi che il fiocco di pane galleggiava poco distante dal galleggiante, fui costretto a ritrarre il finale per appesantirlo senza esagerare con dei piombini. L'uomo si avvicinò.

“Aspetti, il fiocco di pane deve presentarsi più naturale, non così appallottolato. I cavedani non sono stupidi.” Dopo che mi ebbe sistemato l'esca, posai di nuovo la lenza in acqua lentamente in modo che fosse sospinta sul fondo di un corridoio sgombro di alghe, dove ogni tanto passavano i grossi cavedani con la livrea di squame rese dorate dal riverbero della luce solare. Pur reggendo la canna stando in piedi sopra il camminamento della chiusa in cemento, con la luce di quella tarda mattina vedevo chiaramente il pallido pezzo di pane che si muoveva lentamente a pochi centimetri dal fondo, e potevo così manovrare in modo che non si infilasse fra la boscaglia fitta di alghe che lo avrebbero celato alla vista dei grossi pesci che solcavano ogni tanto il fondo del lago. L'uomo appoggiato come me alla ringhiera di metallo arrugginito, seguiva anche lui l'evolversi della situazione. Non accadde gran che, così io presi dalla borsa da pesca una lattina di birra e né bevvi un sorso, cominciava a far caldo.

“Vedi, si muove...” Disse l'uomo indicando il galleggiante, che in effetti si muoveva a piccoli scatti. Poi più niente, rimase immobile sul pelo dell'acqua. Appoggia la lattina di birra e con calma presi la canna in mano, mi affacciai sulla parte della ringhiera della passerella della diga che dava nel punto in cui stava fermo il galleggiante. Con l'occhio segui il filo che affondava nell'acqua fino a scorgere il pezzetto di pane bianco che contrastava con il verde scuro delle alghe appena in tempo per accorgermi del repentino scatto in avanti di un grosso cavedano che lo inghiottiva. Diedi uno strattone calcolato alla lenza.

“Preso cazzo! L'ho ferrato.”

“Te l'avevo detto.” Aggiunse L'uomo. Il pesce fece curvare la canna, tanto che la vetta toccava il pelo dell'acqua. Allentai la presa, doveva essere bello grosso, e non volevo che si spezzasse il finale. Fortunatamente l'amo era adeguato alla sua mole, non avrebbe dovuto slamarsi facilmente.

Chiesi al compagno inaspettato di pesca se poteva prendere lui il guadino in mano per catturare il pesce, che si dibatteva con forza, tanto che il filo madre si attorcigliò con mio disappunto sulla vetta della lunga canna di sette metri, ciò non mi permise di azionare più il mulinello.

L'ormai amico di pesca prese in mano il guadino e si posizionò su un gradino emergente di una stretta scalinata che scendeva in acqua. A fatica tirai la lenza con il pesce che non voleva arrendersi verso la piccola gradinata, finché dopo interminabili minuti il compagno di pesca posiziono il guadino sotto il pelo dell'acqua, pronto ad accogliere il pesce.

“Attento a non scivolare!” Gli dissi preoccupato, data la sua mole, non indossando l'abbigliamento adeguato.

“Per un pesce non né vale la pena di farsi un bagno.”

“Non ti preoccupare, fallo stare fuori dal pelo dell'acqua, cosi si stanca.”

 

Finalmente inguadinato il pesce lo portò a riva adagiandolo sull'erba.

“Guarda che bella bestia.” Disse soddisfatto, mentre il pesce dai colori vividi boccheggiava.

“Aspetti che gli faccio una foto.”

“Gliene faccio una anch'io.” Rispose lui, traendo dalla tasca della giacca uno smartphone. Scattate le foto, agguantai il pesce con delicatezza dopo essermi bagnato le mani, scesi i gradini che declinavano verso l'acqua, e poi immersi il pesce muovendolo in senso longitudinale avanti e indietro, per facilitarne l'ossigenazione. Ci volle poco perché riprendesse vigore e guizzasse via verso il fondo.

Guardai L'uomo è gli dissi: “È come se lo avessi preso te.”

Fu così che dopo aver preso altre due birre dalla borsa da pesca, ci incamminammo verso il tavolo dove lui stava solitamente seduto. Mi accomodai di fronte a lui. Era ormai mezzodì, vidi che si era preparato il pranzo: del pollo e delle patate su un piatto di carta, il tutto sopra una specie di tovaglietta ricavata dalla pagina di un giornale.

 

 

Gli strinsi la mano: “Massimo, ma puoi chiamarmi Max.”

“Giorgio. Mi trovi qui tutti i giorni, è proprio un bel posto, peccato che l'hanno lasciato andare. Gliel'ho detto al guardiano, se lo dessero in gestione a me, creerei un posto per pescare carpe, con un ristoro e tutto il resto. Con una telefonata potrei fare arrivare delle belle carpe domani mattina. In poco tempo pulirebbero il lago dalle troppe alghe che lo stanno soffocando, qua neanche si preoccupano di portar via quelle che hanno messo su quella chiatta di legno, la vedi la.” In effetti su una zattera in mezzo al lago avevano raccolto un cumulo di alghe che stavano marcendo propagandone nell'aria il tipico olezzo.

“Sì, ti capisco, ma qui a parte a organizzare sagre, se né fregano del lago, non seminano neanche più pesci. Una volta ogni anno immettevano almeno un certo numero di lucci. Ma tu abiti qui vicino?”

“Magari, ci vengo ogni giorno con quella bicicletta.” Rispose sospirando, e indicando una vecchia e arrugginita bicicletta vicino al cancello d'ingresso del parco.

“Ho trovato da dormire in una stanza offerta dalla Caritas in centro città, e poi con 400 euro di quelle specie di pensioni che ti danno adesso, se sei disoccupato, tiro avanti. Sono in causa con la ditta per cui lavoravo. Pensa mi hanno licenziato con la motivazione che ero troppo vecchio, con i soldi che mi davano, secondo loro, potevano assumere quattro dipendenti giovani. Così aspetto di vincere la causa, e con quello che mi dovranno dare ci verso i contributi che mi mancano per andare in pensione.”

“Che lavoro facevi?”

“Il macellaio in un supermercato... ma ho fatto il driver... l'autista di camion negli Stati Uniti. Ho vissuto otto anni in California, ma ho girato tutti gli Stati Uniti.”

“Ma come ci sei finito in America?”

“Sai, noi liguri siamo viaggiatori... io in realtà sono uno chef stellato. Lavoravo per una grossa compagnia di navigazione turistica.”

Giorgio fece il nome di una compagnia di navigazione turistica che spesso si pubblicizzava in TV. Poi dopo aver preso un sorso da una bottiglietta di plastica continuò il racconto: “Ho navigato per tanti anni, prendevo 13.000 euro al mese... poi cosa vuoi, un giorno sono sbarcato a San Francisco e ho deciso di cambiare, e mi sono messo a fare il camionista. Ho cominciato ha girare in lungo e in largo l'America, li se ci sai fare fai quello che vuoi, ti mettono alla prova. Se vai bene, ok. Non scherzano mica li, non è come qua, pensa quando ero li ho deciso di prendere un auto a noleggio, non conviene comprarle, costa meno noleggiarle. La prendo e mi metto in viaggio. Mi ferma la polizia per un normale controllo, io li vedo dallo specchietto retrovisore, accosto diligentemente e mi fermo. Il poliziotto arriva a fianco alla portiera e mi fa segno di abbassare il finestrini. Io obbedisco, allungo la mano per estrarre i documenti dalla giacca... mi arriva una sventola che quasi mi rompe il naso... infatti sanguinava. Cazzo... gli dico: ma cosa ho fatto di male agente? Lui si scusa, mi dice che non aveva capito che ero italiano. Credeva che stessi prendendo un revolver. Insomma, la non è come qua. Quando ti fermano devi prendere il volante con le due mani e tenere bassa la testa, e poi fare tutto quello che ti dicono loro. Non fare movimenti avventati. Poi un giorno mi sono fermato in un albergo a Los Angeles. Entro e vado al ristorante per pranzare, vedo che è un po'... così, così. Parlo col titolare e gli dico: è tutto qui quello che sapete proporre ai clienti. Questo mi guarda torvo, e mi risponde. Tu sai fare di meglio? Io gli rispondo che sono uno chef stellato e che se mi assume gli faccio alzare il fatturato del 25%. Lui mi guarda di nuovo serio, ci pensa su un po', e risponde, va bene, corro il rischio, ti assumo per un anno. Io gli rispondo, ok, però voglio decidere tutto io... chi assumere e licenziare se non mi sta bene, e poi per il resto decido io. Così ho cominciato a lavorare in quel grande albergo, che faceva parte di una catena di hotel. Quando avevano un ristorante da tirare su, mi chiedevano se volevo andarci. Io pattuivo il compenso e una percentuale del 2 o 3%, se raggiungevo l'obbiettivo, e ho lavorato in quell'ambiente per circa dieci anni, ma mi occupavo solo della ristorazione dei clienti dell'albergo. In seguito pretendevano che aprissi il ristorante anche a clienti esterni, e io non ci sono più stato, perché si tratta di un tipo di gestione più complicata. Sai non ci sono più orari, e il personale si lamenta, non va bene.”

La storia della vita di Giorgio era davvero interessante, e subito mi chiesi perché fosse rientrato in Italia, un paese in grande declino, e dove certo non si viveva più bene.

“Come mai sei venuto a vivere qui?” Gli chiesi ovviamente.

“Perché mi sono ammalato, di un tumore molto raro. Per salvarmi la pelle mi sono dovuto operare negli Stati Uniti. Per poterlo fare ho dovuto vendere tutto quello che avevo. L'operazione mi è costata 250.000 euro. Ma come vedi sono ancora vivo.”

“E poi...”

“E poi sono rientrato in Italia, non volevo più fare la vita dell'imbarcato, conoscevo il proprietario di una catena di supermercati, e sono venuto a lavorare qui come macellaio. Prendevo solo 1500.00 euro, ma mi andava bene, facevo una vita tranquilla. E poi come ti ho detto mi hanno licenziato, e sono in causa, con loro. Ma sono sicuro di vincerla la causa. Devo solo avere un po' di pazienza.”

“Ti va un po di birra?” Gli chiesi per spezzare il lungo racconto.

“No grazie io bevo questa, acqua e whisky.” E sollevò un bottiglietta di plastica con all'interno del liquido giallognolo.”

“E già, avendo vissuto negli Stati Uniti... non potevi che bere whisky." Ci fu qualche minuto di silenzio, durante il quale Giorgio bevve dalla sua bottiglietta e io dalla mia lattina.

 

“Sai Max ho anche scritto un libro sulla mia vita. Lo scritto di getto in un quaderno. Lo ha letto un insegnante di italiano, e mi ha detto che secondo lui varrebbe la pena di pubblicarlo, è buono.”

“Credo che sia una buona idea pubblicarlo.”

 

Così quel giorno io e Giorgio parlammo di molte cose. Ritornai qualche altra volta a pescare in quel lago, l'estate era finita, non ferrai nessun altro cavedano, come se da quel giorno si fosse diffusa tra loro l'idea che era meglio lasciar perdere i fiocchi di pane. Non rividi più Giorgio. Il parco del lago senza Giorgio tornò alla sua normale frequentazione. I patiti della corsa che venivano ad abbeverarsi alla fontanella, per poi riprendere il loro percorso. Le coppie giovani e vecchie la mattina con al fianco uno o più cani, che ormai erano diventati un optional irrinunciabile, trattati come figli. Il pomeriggio sul tardi, extracomunitari di varie etnie, perlopiù pachistani, ganesi, e italiani che venivano a spacciare.