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Raccolta di testi in prosa di Francesco Rossi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Mai più


Gli amici discutono sulla meta del trekking; Giovanni suggerisce il cammino Porta d'Oriente, nelle Marche, partendo da Ancona, dividendo il percorso in due tappe per raggiungere il santuario della Madonna di Loreto. Incontro il 3 luglio 1976, vicino alla gelateria Stagnaro. Inizio del trekking di 5 giorni, carichiamo gli zaini sull'auto di Massimo. Siamo in quattro. Lo scrittore, Massimo, Giovanni, Marco. Raggiungiamo Parma strafatti, alla ricerca di un alloggio economico. Massimo guida; dopo aver parcheggiato, partiamo con gli zaini in spalla. Marco chiede a un abitante del posto.
Chiedete di Colomba, è una donna conosciuta che può fornire alloggi economici vicino all'ospedale.
Camminiamo per una buona mezzora prima di arrivare nelle vicinanze dell’ospedale. E’ Marco a chiede ancora una volta della signora Colomba.
In quel palazzo alla vostra destra, dove c'è il cartellone arancione, suonate al tre.
Ci apre una bella signora.
Sono Colomba, in cosa posso essere utile?
Ha camere disponibili?
Ragazzi: per una da quattro compresa la colazione, sono quindicimila lire anticipate.
Siamo d'accordo; ci conduce lungo un corridoio con 12 porte fino a una stanza con 4 letti, un lavandino, un armadio e delle sedie. Quadri esotici adornano le pareti. I servizi in comune vanno bene. Organizziamo la serata, scegliendo una trattoria tradizionale per la cena o la discoteca. Non sono dell'umore giusto per godermi una serata fino a tarda notte. Mi invento una scusa valida.
Ragazzi, vado a riposare. Ne approfitto per tutto il tempo che restate fuori, perché poi, come al solito, devo sorbirmi le vostre scoregge e i vostri rutti. Risate di cuore. E’ andata. Nessuno si è offeso. Mi spoglio, mi sciacquo in quel lavabo d’un tempo, indosso una maglietta, mi sdraio e mi addormento nell’atmosfera di quell’epoca passata. Un colpo alla porta della camera mi sveglia, guardo l’orologio e vedo che sono passate due ore da quando mi sono messo a letto. Possibile che fossero già tornati? Non è da loro. Sono abituati a bighellonare in giro. Mentre mi infilo i pantaloni e sto per aprire la porta la signora Colomba, con la sua parlata tipica dell'Emilia:
ragazzo, vieni che mi aiuti a mettere tavola che ceniamo insieme; non stare li impalato che ho premura.
La seguo in cucina e insieme apparecchiamo.
Stappa il Lambrusco e versa il vino nel bicchiere. Iniziamo una conversazione e tra un sorso e l'altro mi dice che ha 51 anni. Ha la stessa età di mia madre, ma è molto sexy. La conversazione continua, la cena è più tardi e io non ho neppure molta fame. Mi racconta della sua vita.
Sono nata e vissuta nell’insediamento di Faenza. I miei genitori erano contadini. Non era una brutta vita ma a me quella vita mi era stretta. Un bel giorno mia madre mi disse! Se vai in città, i tuoi desideri potrebbero realizzarsi. A sedici anni mi sono trasferita a Parma dalla sorella di mia madre. Germana. Gemma il nomignolo. Gestiva un’attività importante. Un bordello! L’intero edificio era di sua proprietà! Ed è proprio questo! Sì! Sei nella Casa del Piacere, Sora Gemma.
Sono inebriato e per di più ho una erezione che non riesco a nascondere.
Mi alzo per aiutarla a portare il cibo in tavola ma non riesco a nascondere il rigonfiamento dei miei pantaloni. Lei mi scosta.
Siediti! Forza, mangia. Non dimenticherò mai il pasto successivo.
Quando alle tre torno nella mia stanza, i miei amici non erano ancora tornati. Mi butto sul letto sentendomi leggero, sazio e molto bene. Davvero una bella sensazione. Non so a che ora mi sono addormento ma so esattamente a che ora sono stato svegliato. Da un rumore di passi pesanti e risate. Erano arrivati. Dopo un po' sento che ognuno di loro russa alternativamente, il che mi irrita al punto da non riuscire a dormire. Mi rigiro nelle lenzuola e mi ricordo di quel che ho fatto con Colomba qualche ora prima. Una parte del lenzuolo sembra una vela. Rimango li a osservare i tre perdi notti fino a che la voce di Colomba si fa sentire.
Ragazzi la colazione è pronta, sbrigatevi o si raffredda.
Caffè, latte e torta di mele sul tavolo
Vi siete divertiti ieri era?
E tu dormiglione che dici?
Mi limito ad acconsentire. Finisco la colazione e vado in camera. Metto in ordine come meglio posso. Zaino in spalla, saluto Colomba e insieme ai miei amici mi dirigo verso la macchina. Ora occorre percorrere 320 Km in auto. Massimo è alla guida, copre il percorso senza nessuna sosta. Una volta arrivato in città posteggia l’auto.
Accendo la prima sigaretta della giornata e li invito a prendere un caffè.
Marco e Giovanni:
No grazie! Andate pure voi. Noi vi aspettiamo.
Per loro è questione di braccia corte. Ci avviamo verso il bar. Ordino due caffè. Chiedo alcune informazioni al barista. Mi risponde in modo incomprensibile.
La lingua Italiana è troppo complicata per quel signore dietro il bancone.
Massimo: è un peccato che non si capisca quello che dice.
Quando raggiungiamo gli altri due, noto che qualcosa è cambiato nel loro umore.
Abbiamo le informazioni che ci servono, dicono in modo superiore. Nelle vie trasversali troviamo la pensioncina che gli hanno indicato. Prendiamo accordi sul prezzo.
Siete dei pellegrini? Da dove venite?
Veniamo da Sestri Levante, ma non siamo pellegrini. Siamo solo camminatori.
Chiede di essere pagato anticipatamente. Poi, ognuno nella propria camera. Sveglia alle cinque. Mezzora dopo siamo al tavolo, imbandito per la colazione. Poi, zaino in spalla in direzione del Duomo.
Il percorso è tutto in ripida salita. Raggiungiamo monte Acuto a passo sostenuto. Il sentiero finisce e la strada diventa asfalto. Arrivati a Varano c’è l’indicazione parco del Conero. Dopo una pausa di 10 minuti si sale ancora fino a Poggio. Si tratta di un bel borgo antico e caratteristico, con una splendida vista sul mare Adriatico. Lungo la strada, troviamo un ristorante simile a un’osteria.
Entro, chiedo se possiamo riempire le borracce d’acqua. La persona dietro il banco si è messa a ridere.
Siete venuti fin qui per l’acqua? Andate avanti! Aspettate, bevete questo bicchierino di vino! Offre la casa. Il vino è sacro.
Ci sediamo e beviamo felicemente il vino che ci è stato offerto. Solo allora mi rendo conto di quante ore abbiamo camminato: nove. Oggi, con l’aiuto della tecnologia, la maggior parte delle persone calcola il numero dei chilometri percorsi.
Allora contavamo il tempo: a che ora eravamo partiti , a che ora eravamo arrivati. Abbiamo deciso di passare la notte in quel locale. E’ stata una scelta eccellente, con cibo e vino locale in abbondanza.
Il giorno dopo, abbiamo avuto la fortuna di riprendere il cammino verso valle. Niente più salite. Siamo nella pianeggiante campagna del Conero, la foresta più antica delle Marche.
Si deve attraversare il guado del fiume Musone. Non si può dimenticare il nome perché da lì in avanti, musoni, ne abbiamo incontrato molti. La strada termina nei pressi della stazione di Loreto. Ho guardato i miei amici increduli nel vedere un folto gruppo di pellegrini inginocchiarsi e salire i 333 gradini. Loro la chiamano scala sacra. Io la chiamerei la scala dei record.
Non avevo mai assistito a uno spettacolo simile. Cantavano a squarciagola e canticchiavano inni sacri nel loro dialetto. Molti di loro baciavano il suolo mentre salivano i gradini. Non restava che mettersi in fila in un posto sicuro. Saliamo facilmente le scale e in cima una rara vista su tutta la riviera.
Aspettiamo che il Santuario si svuoti. In quel momento, l’entusiasmo dei pellegrini raggiunge l’apice. Ci allontaniamo in fretta e coloro che hanno seguito le nostre orme si chiedono in che posto siamo finiti. Una fede, che interpretata in quel modo è un insulto ai credenti e a Dio; tutti e quattro siamo sbalorditi. Non ci sono parole per descrivere lo spettacolo fanatico a cui abbiamo assistito. Dal vestibolo si vede un gruppo di pellegrini guidati da una donna. Salendo l’ultimo gradino della scala la donna ha incominciato a gridare a squarciagola: Miracolo! Giorgio è guarito! Indica il miracolato. A me è sembrato molto in forma.
Dopo tutto ha salito i 333 gradini. Ci è passata la fame, entriamo in un piccolo bar dove c’era una miriade di statue sacre. Volevo uscire ma, il sole a lume di candela faceva salire la temperatura così cedo e ordino un drink.
A differenza dei miei amici ho bevuto velocemente e sono uscito. Avevo voglia di libertà e calore. Non passa tanto che mi raggiungono pure loro. In una stradina ho visto un cartello con scritto: Piazza della Madonna.
Lo raggiungiamo, l’aspetto monumentale è di grande valore, ci addentriamo, evoca la storia di altre epoche. La sua ricchezza artistica è in contrasto con l’ambiente circostante, disseminato di banchi con esposte immagini sacre, santini, crocefissi e quant'altro di quel genere. Un vero mercimonio. Noi acquistiamo solo i biglietti dell’autobus per la partenza per Ancona.
Il mattino seguente direzione Parma. Ci fermiamo nella pensione di Colomba e lì passiamo la notte. Questa volta ognuno ha la sua camera.
La mia stanza ha un letto da una piazza e mezza, ma Colomba si è infilata sotto le lenzuola, così mi sono ritrovato con un letto da una piazza. Prima dell’inizio delle danze ho saluto Loreto dicendo: mai più. Colomba mi guarda confusa.
Il giorno dopo torniamo nel nostro paese. Cosa mi ha dato questa vacanza? Al ritorno mi pongo sempre questa domanda e la scrivo. Questa volta mi ha regalato immagini espresse dalla natura, opere architettoniche e monumentali, i miei splendidi compagni di viaggio e quel benedetto diavolo di donna, Colomba.
Ciò che mi ha colpito, in senso negativo, come credente ma non di nessuna denominazione, è che a Loreto tutto è guidato dal lato emotivo, il che è fonte di irritazione. Ma per la chiesa cattolica è un problema ancor più grave aver permesso che manifestazioni di fede così isteriche si radicassero al suo interno.
Io continuo a viaggiare, a inerpicarmi per i monti. La fatica per la meta è il mio dono al contesto meraviglioso della natura.

*

Che razza di ladro.

Il mio nome è molto più interessante del mio aspetto. Il mio viso è piuttosto anonimo, il che nella mia professione è un vantaggio. Pietro, il mio mentore era già anziano, faceva rutti alla cipolla, scoreggiava,e fumava la pipa, inoltre passava le giornate a brontolare e a scherzare.
Abitava vicino a casa mia. Io lo guardavo mentre attraversava faticosamente la strada, avvolto in una nuvola di fumo, con le sue grucce. Aveva perso la gamba in guerra.
Avevo tredici anni quando Pietro cominciò a interessarsi a me. L’artrite lo faceva soffrire, impedendogli di lavorare, ma era un buon maestro, certamente migliore di quello che io avevo alle elementari; molto preciso ed esigente.
Nel paese lo chiamavano mano lesta. Quando ci incontravamo per strada, ci scambiavamo sempre un giovale saluto. Eravamo bene educati.
Pietro mi faceva pratica nel suo appartamento. Sempre e soltanto nel pomeriggio dopo aver frequentato la scuola. Imparavo i trucchi del mestiere su un fantoccio che aveva costruito riempiendolo di stracci. Per farmi fare pratica indossava una vecchia giacca. Così incominciai a fare pratica su di lui. Era molto critico. “Devi imparare a concentrarti!” mi rimproverava.
Dopo alcuni mesi Pietro cominciò a farmi esercitarsi in pubblico. Insistette perché gli rubassi il portafoglio sull'autobus di linea Riva Trigoso – Chiavari, al mercato, agli angoli delle vie. Alla fine di tutte le lezioni superai gli esami a pieni voti. Era l’ora di mettere alla prova le mie abilità. Pietro me lo permise.
Tolsi il portafoglio a un uomo massiccio e muscoloso durante l’ora di punta. Il teatro della mia prima era Riva Trigoso nei pressi della fabbrica “Cantiere Navale” nel momento in cui le maestranze uscivano correndo, quasi a fare a gara per recarsi alla mensa per consumare il pasto. L’operaio stava correndo, Pietro gli si piazzò davanti proprio nel mezzo del piazzale della chiesa parrocchiale di San Pietro.
Non era un caso la scelta del posto, la scena esigeva questo copione. L’operaio inciampò e cadde bestemmiando. Prontamente, come avevamo stabilito, lo aiutai a rialzarsi ma lui mi spinse via con rabbia. Il gioco era fatto. Gli avevo sfilato il portafoglio.
Andai nella toilette del bar Lungomare, situato nei pressi del cantiere navale assicurandomi di aver dato due giri di chiave alla porta, aprii il portafoglio, trovai ottantamila lire (moneta in uso in quei anni) i documenti, una foto di una donna giovane, una rubrica telefonica. Tenni tutto, tranne il portafoglio e la foto della donna. Questo successe molto tempo fa.
Con il denaro sono sempre stato oculato, sicuramente più di tanti altri che conducono una vita così detta normale. La mia vita è assai monotona, sono sposato, ho due figli e sono molto egoista. Faccio vacanza in montagna, amo viaggiare, a proposito, quando sono in ferie non esercito mai. Mangio leggero, e per tenermi in forma vado a fare delle belle camminate. Mi piacciono il buon vino e la bella musica, tutto sommato conduco una vita tranquilla. Non mi aspetto molto dagli altri, così non corro il rischio di rimanere deluso. La mia è una vita ordinaria da tutti i punti di vista. La mia professione è interessante.
Il modo in cui provvedo al mantenimento della mia famiglia incuriosisce la gente del paese, vorrebbero conoscere i dettagli; io sto attento a non scoprire la mia vera natura.
Tempo fa, in un portafoglio che ho preso ai giardini pubblici di Chiavari, nei pressi della stazione ferroviaria, ho trovato una bustina di eroina, finita insieme al portafoglio nel bidone delle immondizie, a Genova presso il museo della navigazione sono rimasto di stucco quando mi sono accorto di aver rubato la tessera di identificazione di un agente di polizia. Ho lasciato immediatamente il museo, un’altra volta alla Conad sempre a Genova mentre salivo con la scala mobile ai piani superiori, ho allungato una mano in una tasca e ho trovato una pistola. Pure in quella occasione mi sono ritirato prontamente, so calcolare i rischi.
Contrario alla violenza. Tranne i soldi, tutto finisce nel bidone della spazzatura.
La lezione l’ho imparata quel primo giorno a Riva Trigoso, quando ho tenuto la rubrica telefonica. Credi che ti verranno a fare visita in prigione? Mi redarguì Pietro. Abbi un po’di buon senso! Da quel giorno, i bidoni della spazzatura ricevettero tutto, ovviamente tranne i soldi.
Era un comportamento che non mi piaceva.
Le persone che perdono il portafoglio subiscono un grave danno, non tanto per i soldi, quanto dover rimpiazzare i documenti. E’ una seccatura che fa perdere un sacco di tempo. Però, farsi prendere dalla compassione ed evitare di farli sparire significa il fallimento dell’impresa.
Sestri levante, cinema teatro Ariston:
entrai nella sala cinematografica quando lo spettacolo era già iniziato. Mi guardai confusamente intorno, vidi una figura di un uomo abbastanza giovane, mi sedetti a due file di distanza continuando a fissare i suoi movimenti. Sembrava agitato, quasi che il film non lo interessasse. Nell'intervallo, quando le luci illuminarono la sala cinematografica mi alzai per andare a svuotare la vescica; quando ripresi il mio posto nella fila, notai che il giovane uomo doveva essersi alzato, perché ora si trovava inspiegabilmente vicino alla mia poltroncina. Avvertii subito quel piacere pruriginoso, il gusto, il godimento di quella piacevole sensazione che si prova quando si scarica l’adrenalina dal nostro corpo. Infilare le mani nella giacca dello sconosciuto era proprio quella bellissima sensazione.
Con la mia consueta abilità riuscii a tirare fuori dalla giacca del malcapitato una busta dal contenuto pesante, continuai come se niente fosse a guardare lo spettacolo che ora cominciava a piacermi. Attesi la fine del film con molta pazienza. Non uscii dalla sala cinematografica, come lo sventurato appena derubato che si avviava con passo indeciso verso l’uscita. Rimasi in attesa del secondo spettacolo. Dopo una buona mezzora, la mia curiosità di vedere il contenuto della busta superava quella, di veder finire la trama del film.
Mi alzai e mi diressi nuovamente nella toilette ma questa volta solo per appagare la mia curiosità. Estrassi dalla tasca dei pantaloni la busta che avevo prelevato dalla giacca dello sconosciuto per esaminarne il contenuto. Non stavo più nella pelle. Come sempre avrei tenuto i soldi e buttato il resto. Per mia sfortuna non fu così.
Quando vidi il contenuto, ci rimasi male. Duemila lire soltanto, fogli stropicciati di medicinali, indirizzi di medici specialistici in oncologia, il libretto della mutua, la carta d’identità e una lettera. Rimasi deluso del bottino. La vista di quegli appunti aveva scosso la mia curiosità. Così, quasi meccanicamente aprii la busta.
Lo scritto era una raccomandazione della moglie, malata di cancro perché il marito affrontasse in modo dignitoso quel triste momento della vita. Nel momento in cui finii di leggere fui preso dal rimorso.
Le mie mani incominciarono a sudare e a tremare, mi sedetti sulla tazza e fissai la firma. La lettera andava consegnata al proprietario. La ripiegai con cura e me la misi in tasca. Quello che avrebbe dovuto essere semplicissimo divenne improvvisamente maledettamente complicato.
L’uomo non viveva più all'indirizzo che era scritto sul documento d’identità, Lavagna via Devoto. Mi feci passare per un suo amico e un vicino mi diede il suo nuovo indirizzo. Mi recai in quel quartiere popolare di Lavagna “Corea”; purtroppo si era nuovamente trasferito. Alla fine ottenni un altro indirizzo.
Era stata una donna anziana a darmelo, diceva di conoscere bene quella sfortunata della moglie. Si era trovato una sistemazione economica, un monolocale in affitto nella periferia di Lavagna.
Quando mi aprì, senza lasciargli il tempo di proferire parola gli dissi di aver trovato la lettera. Sembrava importante e molto personale, vedendo l’intestazione dell’ospedale gli spiegai che mi ero dannato l’anima per rintracciarlo. Quando prese la lettera dalle mie mani, scoppiò in un pianto. Si strinse al petto la lettera e gridò: grazie! Grazie.
Io ero fermo sulla porta, imbarazzato. Mentre la lettera della moglie mi aveva commosso, il suo dolore, come tutti i dolori che non sono affrontati con dignità, mi sembrava patetico. Sua moglie, gli aveva chiesto di essere coraggioso.
Invece eccolo lì, un uomo a pezzi. Senza aggiungere una parola, girai sui tacchi e me ne andai. Avevo bisogno di aria fresca. Mi resi conto che la mia abitudine di buttare tutto nella pattumiera dopo un borseggio era da coltivare. Quello che si conserva diventa sempre fonte di preoccupazione.
Anno 1983 a Genova è stato attivato il collegamento sotterraneo funzionale all’incremento del traffico metropolitano, è realizzata la nuova fermata sotterranea chiamata “Genova Principe sotterranea” dotata di due soli binari di corsa. L’accesso alla fermata sotterranea è possibile sia attraverso delle scale mobili, poste nell'edificio della stazione ferroviaria, sia dall'esterno, in una zona posta di fronte alla stazione marittima, fra piazza del Principe, via Fanti d’Italia e via Bersaglieri d’Italia, dove avviene lo scambio fra treno, autobus e metropolitana. Non è un posto allegro, ma era il mio nuovo territorio di lavoro.
All'epoca avevo appena compiuto trentasei anni. La vita sotterranea non ha niente in comune con quella che si stende in superficie. Pendolari che entrano ed escono correndo per recarsi al lavoro, studenti vociferanti vestiti con abiti sportivi. Una postazione dove si può osservare con attenzione che chi passa il tempo lì sotto assomiglia quasi a un topo. Anziani, barboni, giovani senza dimora che si precipitano da un vagone all’altro per raccattare poche briciole. I passeggeri passano veloci cercando di evitarli.
A volte però quasi per magia quel posto si trasforma.
Musica allegra e chiassosa che echeggia nei corridoi. Fisarmoniche, chitarre, sassofoni, trombe, suonano insieme. I nordafricani vendono ogni genere di mercanzia; mendicanti senza gambe che agitano i piattini per le elemosine; gente improvvisata a vendere castagne e noccioline nella stagione invernale, poi fiori e bigiotteria. Lì sotto non c’è violenza. Quando comincio a provare fastidio, quando gli occhi mi si offuscano, esco in cerca di luce. Vado a lavorare nelle vie dove si trovano le banche e dove passeggiano i turisti. A proposito, ho già scritto dei musicisti che si trovano nei sottopassi, il che mi spingere a scrivere di un altro episodio.
Come i venditori ambulanti, questi musicisti sono dappertutto: nelle stazioni, nei corridoi, sulle strade. Alcuni sono straordinari. Un vecchio signore elegante suona il violino nella stazione di principe, una giovane donna con un vestito di seta rosso sta fissa e immobile sotto i portici del teatro Carlo Felice.
Altri sono terribili, penso a un uomo che suona la fisarmonica nelle vicinanze del supermercato coop di Sestri Levante che tormenta i passanti con stonature allucinanti, la gente si avvia velocemente all'ingresso del supermercato.
I musicisti di cui scrivo sono un gruppo di cui scrivo sono un gruppo d’indiani. Suonano quella bellissima musica andina che sembra portata dal vento. Due flauti, una chitarra, un mandolino e due tamburi. Si esibiscono nelle ore di punta del tardo pomeriggio quando i soldi affluiscono con più facilità.
La prima volta che gli ho ascoltati, ero con mia moglie e i miei due figli a una fiera che si svolgeva e tuttora continua la sua tradizione a Chiavari. La musica era dolce, triste e gioiosa allo stesso tempo. Ne ero attratto. I miei famigliari volevano girare tra i banchi della fiera, insensibili a quella dolce melodia. Con malavoglia li segui nella ressa della fiera.
La seconda volta che ebbi l’occasione di ascoltarli ero solo a Genova, sul lavoro. Mi misi ad ascoltarli per più di un’ora. Verso la fine mi scostai per accostarmi alle prime file. Notai che davanti ai piedi dei musicisti giaceva la custodia di una chitarra zeppa di monete e di banconote, in cui misi io stesso una banconota. Uno del gruppo, un uomo con i capelli lunghi legati in una coda di cavallo, si diresse in mezzo alla folla per raccogliere le offerte.
Mi accorsi che teneva un rotolo di banconote nella tasca della giacca. Si fermò accanto a me. D’istinto gli parlai dicendogli quanto fosse bella la loro musica. Lui annuì con una naturalezza che mi mise a mio agio. Qualcuno gli tocco il braccio e lui andò oltre. In quel frangente con la mia consueta abilità gli avevo sfilato il malloppo. Era stato un gioco da ragazzi. Mi dileguai tra la folla e me ne andai.
M’incamminai lungo via Andrea Doria mentre le note della musica mi risuonavano in testa. Quando mi fermai a mangiare un panino in uno dei bar lungo la via, entrai nella toilette per contare i soldi. Era stato un buon colpo. Mi chiesi se quel giovane musicista avesse perso il suo contegno. Sperai che non fosse così. D'altronde era stato così incauto e la mia tentazione troppo forte. Avrebbe dovuto essere stato un po’ più accorto.
Mi ricordo un giorno che avevo lavorato tra la folla di turisti che si recavano a visitare l’acquario, sempre a Genova. Nella maggior parte dei casi, i turisti sono bersagli facili. Il giorno di cui parlo era stato particolarmente positivo. La stagione turistica era nel pieno. I marciapiedi lungo via Gramsci erano gremiti. I portafogli sembravano balzare fuori dalle tasche per conto loro. I miei diti non mi erano mai sembrati così agili, passavo da un bersaglio all'altro, era come raccogliere le more.
A una certa ora tornai alla mia postazione provvisoria, che avevo scelto con cura, per svuotarmi le tasche e nascondere il malloppo. Avevo bisogno di staccare. Dopo circa una mezzora andai di nuovo in strada. A metà pomeriggio le cose stavano andando bene, ma io ero nervoso e avevo bisogno di calmarmi un po’. Quando mi rimisi al lavoro, scoprii con piacere che non era cambiato niente, ero al massimo della forma, come se i miei polpastrelli avessero gli occhi.
All'inizio tra piazza Acqua Verde e via Andrea Doria vidi un ragazzo che stava tentando goffamente di rubare un portafoglio. Il bersaglio era un turista grande e grosso. Questi scostò con uno strattone la mano del ragazzo. Era il tipico incidente che capita ai principianti. Mai fare affidamento sulla prevedibilità di un borseggio. L’uomo fece un balzo all'indietro e strillò. Il ragazzo era scomparso velocemente. Lo seguii per il marciapiede per parecchi isolati. Girò a destra in vico Chiabrella, si appoggiò al muro e si accese una sigaretta.
Gli tremavano le mani. In questo dimostrò di avere giudizio, i suoi timori erano giustificati, avrebbe potuto finire in prigione. All'orecchio sinistro portava un orecchino. Ero attratto dalla sua insolenza. Venne fuori che era di Catania arrivato da poco in città ed era assolutamente deciso a non finire in una fabbrica a timbrare il cartellino per tutta una vita. Mi spiegò che aveva intenzione di diventare ricco rapidamente. Era assolutamente serio; voleva vivere su una barca e starsene sdraiato tutto il giorno a bere e a caccia di donne. In questo mestiere una cosa pericolosa è l’avidità. Una persona avida si assume dei rischi assurdi, corre pericoli eccessivi e alla fine si fa prendere. Mi accorsi che il punto debole del ragazzo, era proprio questo. Quando si è troppo ambiziosi, si può anche non raggiungere la maturità. Tenni i miei pensieri per me e gli augurai buona fortuna.
Ci separammo all'altezza di via San Lorenzo. Io prosegui verso la stazione di Genova Brignole per salire sul primo treno che mi avrebbe portato a casa. Mi accorsi di essermi dimenticato di passare dalla mia postazione a ritirare la refurtiva che avevo recuperato quella giornata.
Era la prima volta che avevo quel tipo di dimenticanza. Quindi ritornai indietro a prelevare il mio piccolo tesoro. Ripresi la strada per recarmi in stazione in compagnia dei miei pensieri. Non avevo fretta, era stata proprio una gran giornata. In quanto al ragazzo, non mi ero lasciato trasportare dai sentimenti. Avevo preso una saggia decisione. Fischiettai per tutta la strada che mi separava dalla stazione. Presi il primo treno per Sestri Levante e dopo circa un’ora e mezza arrivai a casa. Era tardi. I miei famigliari erano già a letto. Nonostante l’ora accesi lo stereo, mi misi le cuffie e un cd di musica classica. Aprii una bottiglia di prosecco, accesi una sigaretta e mi coricai sul divano. Appena mi rilassai, mi sentii invadere da una sensazione stranissima. Mi alzai e andai verso la giacca che avevo buttato sullo schienale di una sedia. Infilai una mano nella tasca della giacca, dove avevo messo da parte l’ultima fetta dell’incasso della giornata. La tasca era vuota. Accidenti! Fui così sconvolto che sarebbe bastato niente a farmi crollare. Avevo le vertigini, quasi mi dimenticai di respirare, mossi un passo di lato, barcollai, poi mi ripresi. Cominciai a camminare avanti e indietro come un forsennato. Bestemmiavo. Che oltraggio. Maledizione al ragazzo e poi me stesso. Presi a calci la porta, il divano, le sedie; arrivai persino a mordermi le mani dalla rabbia che avevo in corpo. Era proprio un bel spettacolo, anche mia moglie e i miei figli si gustavano la scena senza capire. Volevano spiegazioni. Alla fine mi calmai. Per un attimo restai alla finestra scuotendo la testa per il disappunto, guardavo la strada desolatamente vuota. A quel punto cominciai a ridere. Era meraviglioso! Mi aveva davvero fatto fesso il ragazzo. Con una prestazione davvero magistrale. Fu allora che invitai mia moglie e i figli a andare a letto e tornai a sdraiarmi sul divano. Finii il mio vino e mi misi ad ascoltare la musica. Avevo perso una buona parte delle entrate di quella giornata. Che cosa ci potevo fare? Il mondo è pieno di ladri.

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Il mio secondo amore


Riguardo a quella che è stata la mia adolescenza, il senso dell'amore è stato un sentimento frammentato; non poteva essere diversamente. Questo impulso, per quanto indeciso, in alcuni fra cui il sottoscritto si è manifestato precocemente.
Era un dolce tepore che non ardeva, ma sano amore.
Con il passare degli anni l'esperienza che accompagna la vita, ci fa ricordare i momenti passati che emergono dalle profondità, dove erano arenate.
Chi ha fortuna di riuscire a mettere in sintonia la mente con il cuore, comprende che la storia degli affetti comincia da quel punto di partenza che non è altro che l'adolescenza.
I primi amori o i primi affetti provati non si dimenticano mai.
Una foto in bianco e nero è stata uno dei miei primi amori.
Per niente strano questo ricordo, anche se qualche benpensante orienterebbe il pensiero verso altre cose. Più concrete. Spesso mi ritrovo a pensare a riflettere sulle sensazioni che provo quando raggiungo una vetta sui monti. Cammino sul sentiero in salita lentamente e gioisco nell'osservare il panorama.
Varco il punto centrale della scena che per fortuna è immortalato nella fotografia. Quando mi fermo volgo lo sguardo indietro e spesso mi sembra che tutto sia cambiato perché varia la veduta a secondo l'ora e il punto di osservazione.
Pensando a quella foto in bianco e nero, ricordo che ne ero innamorato. Solo con l'avanzare degli anni l'ho compreso; in quel periodo adolescenziale non lo intendevo.
Frequentavo la parrocchia di San Bartolomeo della Ginestra, ero grassoccio, balbuziente, mangiavo con appetito formidabile, giocavo, ridevo come un matto, studiavo poco, anzi, credo che non lavorassi per niente, il mio cervello funzionava solo in funzione dei miei impulsi.
Non ero un ragazzino sveglio come tanti altri che eccellevano nelle competizioni, ero amico degli svaghi, ma vivevo solo fisicamente, ignoravo il resto e non m’importava essere nella parte ultima del gruppo. L’età adolescenziale coincideva con gli anni 1969, 1970; in quel trascorso il clima che si respirava in parrocchia a S Bartolomeo della Ginestra, non era per nulla opprimente, anzi, molti giovani si adoperavano per organizzare il tempo libero all'insegna del gioco e della spensieratezza.
Cambiava tutto nella giornata del sabato pomeriggio.
La partitella a calcio nel campetto parrocchiale, in terra battuta, era interrotta quasi con veemenza dal reverendo che ci invitava, ma chiamarlo invito forse non rende l'idea, a seguirlo nell'oratorio.
Distribuiva caramelle e programmava i turni per il nostro compito di chierichetti nella giornata festiva della domenica. Ricordo che volava pure qualche ceffone a chi protestava per l'interruzione della partitella; desideroso di riprenderla dal punto in cui era stata interrotta.
Poi, una volta che ci erano stati assegnati i compiti da svolgere la domenica non era finita, ci intratteneva con racconti peraltro bellissimi sulla vita di Gesù.
Per mio conto devo ammettere che erano momenti magici non tanto perché mi affascinavano quelle storie che erano imbellettate di misticismo ma, perché coincidevano spesso con le ore che dovevo dedicare allo studio il sabato nell’orario pomeridiano, e, quando nel tardo pomeriggio rientravo a casa, costruivo la scusa per il ritardo.
Ammetto che per alcuni il comportamento spesso sfiorava l'azzardo. E, rischio fu quando un sabato nel bel mezzo dell'incontro nell'oratorio, il prete fu interrotto dalla perpetua, annunciandogli che era richiesta la sua presenza al capezzale di un parrocchiano per ricevere l'estrema unzione.
Ci affidò ai catechisti che avevano raggiunto la maggiore età e indossato il suo copricapo uscì a passo spedito per svolgere la sua funzione.
Trascorsi cinque minuti, tutti fuori.
Alcuni a giocare a calcio altri a biliardino.
Io e altri due scavezzacolli, senza nessuna ragione particolare, solo per il gusto di infrangere il proibito ci intrufolammo con molta attenzione in canonica. Dovevamo stare attenti.
Era permesso entrare solo alla presenza del prete. Mentre i miei due amici curiosavano, tra i mobili il mio sguardo fu catturato da una foto posata su una pila di libri impolverati. Raffigurava una bambina che poteva avere la mia età. La figura mi piaceva un sacco e, quando entravo in canonica, la individuavo all'istante per poterla guardare.
Mi piaceva quel sorriso, e se i miei amici guardavano la foto, provavo un senso di stizza.
Quel brutto sentimento che si avvicinava alla rabbia non era altro che la gelosia. Tante altre volte nel corso degli anni l'ho provato e ho dedotto che già in quella fase adolescenziale della mia vita ero innamorato.
Sarà perché la gelosia arriva dopo l'amore o subentra quando realizzi qualcosa di tuo e, il timore che ti sia portato via prende il sopravento.
Non ero in grado di trovare una spiegazione razionale da dare a quel turbinio di emozioni e, durante la settimana pensavo alla giornata in cui avrei visto la foto. Il mio rendimento scolastico era pari a zero, fantasticavo e progettavo;
sapevo bene che questi piani sarebbero coincisi con la fine delle mie giornate in parrocchia.
Una domenica mattina mi presento in canonica per prepararmi a indossare l'abito da chierichetto per la messa centrale, ma lo sguardo si perdeva su quel mucchio impilato di libri dove in bella mostra, quasi volesse sfidarmi c'era l'oggetto del mio desiderio.
Il cuore mi batteva forte, e senza guardarmi intorno rischiai il tutto per tutto, presi la foto e la infilai in tasca con fatica perché avevo già indossato la cotta da chierico. Rubai.
E sono certo che se il reverendo mi avesse osservato il viso, se ne sarebbe sicuramente accorto.
Ero in uno stato di agitazione totale, tanto che nel servire la messa, rovesciai per terra il contenuto delle ampolle, inciampai nel tappeto posto al centro dell'altare finendo per terra. Ricordo ancora oggi l'espressione contrariata sul viso del prete.
Riuscii a trovare la tranquillità quando tornai a casa.
Mio padre che non era uno sprovveduto si accorse che era cambiato un qualcosa nel mio modo di essere, lo diede a vedere solo marginalmente, ero io che non riuscivo a nascondere l'emozione. Mettevo la mano in tasca e accarezzavo la foto con le dita come si liscia una persona cara.
Non ero un bambino ingegnoso ma riuscii a sistemare in qualche modo la foto in un foglio.
La sera quando era l'orario stabilito per andare a dormire tiravo fuori dal cassetto del comodino la foto e baciavo il volto che era immortalato nella fotografia. Sciocchezze da bambini diranno i più ma è tra queste stupidaggini che sbatte il cuore. Con queste cretinate ho cominciato e proseguito per un buon periodo e mi rammarico di non riuscire più a essere bambino in quella maniera. Quanti baci a quel viso immortalato gli ho dato quando non poteva osservarmi nessuno. Girando per il paese osservavo le mie coetanee per scorgerne le somiglianze ma le fattezze di quel bel viso non avevano riscontri nella realtà.
A scuola non seguivo nessun tipo di spiegazione, vivevo nel mio mondo fatto di fantasie e fantasticherie che quel volto mi suscitava.
A soffrirne non era tanto il mio cervello che aveva le risorse per sopperire alle disattenzioni quanto il desiderio che sfociava in erezioni spontanee.

L'anno scolastico era giunto al termine, i risultati ottenuti a malapena soddisfacenti, ma questo a me bastava e avanzava, non m’ importava eccellere.
Le condizioni economiche della mia famiglia in quegli anni erano tali da non poter permettersi una vacanza.
Fortunatamente, oltre alla parrocchia c'era il comune che metteva a disposizione delle famiglie che lo richiedevano per i loro figli un soggiorno di due settimane in una colonia estiva situata in val d'Ayas una delle più belle e colorite valli alpine della val d'Aosta. Ero felice di trascorrere il mio primo periodo di vacanza assieme a tanti miei coetanei. Lontano dalle protezioni famigliari, ma questo senso di liberta, non durò a lungo.
Ricordo che mia madre che in modo preciso, scrupoloso leggeva la distinta che le era stata consegnata per quanto riguardava l'abbigliamento che doveva essere portato.
Io avevo solo due pensieri: la voglia di partire e trovare un nascondiglio per quella foto che a tutti i costi doveva seguirmi in quella mia prima uscita adolescenziale fuori dalle sottane e protezioni domestiche.
Non fu una bella esperienza, quella che doveva essere una vacanza all’ insegna della spensieratezza si era trasformata in un incubo non tanto per un fatto di nostalgia, perché quella sensazione di abbandono mi era venuta due giorni dopo l’arrivo nella colonia estiva. Le nostre accompagnatrici erano donne adulte e, vivevano quel loro ruolo come un lavoro, non gli interessava assolutamente il nostro stato d'animo di bambini, ma il tutto doveva svolgersi come da programma. Non esistevano, fantasia, coinvolgimento, affezione.
Un programma monotono: sveglia alle sette e trenta, doccia e si badi bene che la nostra intimità non era rispettata.
L’addetta ci veniva a controllare mentre facevamo la doccia e se la mano si fermava più del dovuto nelle parti migliori del nostro corpo, sonori rimproveri.
Io che ero uno che si soffermava spesso su quella parte del corpo ero aspramente rimproverato e definito un porcellino, tanto che mi affibbiarono il sopranome di “ Jimmy”, lo ricorderete con certezza uno dei tre porcellini. Non era questo che mi turbava.
Era quel modo di procedere che rasentava in maniera maniacale la metodicità che mi rendeva la permanenza pesante.
Tutto era programmato: sveglia, doccia, colazione e poi tutti in fila come soldatini in attesa che ci fossero indicate le attività mattutine.
Fu proprio nel momento in cui ci trovavamo allineati nel cortile che mi venne alla mente la fotografia.
Nella frenesia del vestirmi, sotto l'occhio vigile della signorina, avevo dimenticato la foto sotto alle lenzuola. Ricordo ancora oggi quella mattina.
Nel cortile l’ aria era pungente, si faceva sentire particolarmente nelle parti scoperte del nostro corpo, le gambe.
Avevo l’angoscia e trattenevo a stento le lacrime.
In cuor mio speravo che il mio fosse stato l’ ultimo letto da sistemare e con quella speranza chiesi il permesso di poter andare in camerata a prendere il fazzoletto; permesso accordato, non senza suscitare
l’ilarità dei miei compagni, alimentata dal sarcasmo della signorina.
Raggiunsi la camerata, entrai, il letto era stato fatto, frugai tra le lenzuola che erano state sistemate di tutto punto. Niente.
La foto era sparita. Era sparito il mio secondo amore. Il primo è quello che mai si potrà dimenticare ed è quello che si prova verso i nostri genitori che ci hanno donato la vita. Non sono mai riuscito nel corso della mia giovinezza a scoprire chi fosse quella ragazzina. Solo dopo molti anni seppi che la foto era il ritratto della nipote del prete che tante volte mi aveva confessato ammonendomi dal non commettere atti impuri. Sapesse il prete quanti di questi atti sono stati suscitati dalla fotografia della sua nipotina.

*

Nel mio libero pensiero.

Chi ha dimestichezza con la montagna, sa quali effetti ottici procura la nebbia.
Si sale lentamente e la vista non va più in là di pochi passi.
Questo vapore umido è palpabile e si muove con estrema lentezza.
Non sono altro che piccole gocce che rifrangono la luce solare, dando al fenomeno atmosferico una colorazione opaca. Una particolarità che desidero rendere evidente è l’alito che diventa visibile come d’inverno; l’erba, le pietraie, i tronchi degli alberi, sono impregnati di una fredda umidità che ci attornia e penetra nelle ossa nonostante l’equipaggiamento
Sempre in tema di percezioni, la mia è quella di un bosco che sembra assonnato, quasi non voglia risvegliarsi e il silenzio rigenerante che si respira e si palpa in quei momenti diventa per chi si trova in quelle condizioni un affinarsi di sensibilità percettiva, olfattiva, sensoriale. Dico questo perché in più di un’ occasione trovandomi in queste particolari condizioni salgo in alto senza che la visuale si apra ai miei occhi.
E’ una piacevolissima sensazione pure in quelle condizioni ostili, per me, una piccola sfida nel mezzo della natura quasi selvaggia, a volte deserta, altre, rude.
Per chi non ha il senso dell’ apprensione e della paura, pure una salita intorno ai mille metri di altitudine, nel bel mezzo di una nube densamente bianca ha il suo fascino.
Sulla cima, là dove l’ occhio avrebbe il piacere di ammirare una distesa di monti, quel velo di nebbia s’ interpone come un telo bianco tra me e lo scenario. Spesso uso la parola “sensazione” e c’è un motivo:
la mutevolezza che può avvenire in poco tempo e che determina cambiamento di veduta e stato d’ animo.
Un senso di disagio provo sempre di fronte a quel lenzuolo bianco che mi toglie la visuale d’intorno e sottostante, ma se un soffio di vento spazza via la nebbia,
scopro all'improvviso lo splendido spettacolo, perché di questo si tratta, e qui la sensazione esce dal novero dell’ordinario ed entra a pieno titolo in quella del singolare
e del magnifico.
Io che amo la montagna e la natura in tutte le sue molteplici particolarità mi sono trovato spesso in questa situazione particolare, e tutte le volte mi sono fermato a pensare.
Pure in questa mattinata sono stato gratificato dello spettacolo della nebbia che si leva dal basso e si ritrae quasi per magia e per una stranissima associazione d’idee mi sono fermato a pensare alle impressioni che proverebbe san Tommaso d’Aquino se ai suoi occhi scoprisse il nostro mondo. Ve lo immaginate?
Voglio forzare questa immaginazione. Milleduecentoventiquattro.
La città di Aquino in cui Tommaso nacque era al centro di una vasta contea e di cui facevano parte tutti i paesi che oggi la circondano.
A capo di questa contea era il padre di Tommaso; il conte Landolfo.
La famiglia era una delle più importanti dell’ Italia meridionale e il conte era continuamente in guerra, prestando aiuto a Federico II, il grande imperatore di Germania e di Sicilia, che fu per molto tempo in lotta contro il Papa. Un fatto è certo, non furono le sue imprese di guerra, né la sua potenza, tanto meno la sua ricchezza che diede fama a Landolfo. Fu, invece, la santità e la sapienza di uno dei suoi tanti figli a consegnare alla storia e quindi il ricordo ai posteri, il nome suo e quello della sua famiglia.
Fatta questa breve ma doverosa divagazione, tenendo conto dell’epoca e del periodo storico provate a pensare a quale sorpresa si troverebbe sotto gli occhi, il Santo Tommaso.
Siamo puramente nell'immaginario, quindi fate conto che viva e cercate di entrare nella sua testa e di mettere insieme con l’inventiva e la fantasia tutta la sua sorpresa tenendo di conto che si viaggia a ritroso nel tempo di circa otto secoli e di quanta strada cementificata dalle fatiche umane é stata costruita dall'uomo nel corso dei secoli che si sono susseguite.
Penso che la sorpresa del povero Tommaso sarebbe grandissima da farlo morire un'altra volta e, questa per un infarto fulminante.
Nel periodo storico cui faccio riferimento la lingua parlata e scritta era il latino. Un'altra mia considerazione: Tommaso aveva lasciato il mondo con l'aureola sperando che con le sue opere il mondo abbia compreso il disegno divino, in modo particolare la struttura di quello che è immateriale e quello che al contrario è materia inanimata per dare un giusto peso e uguale misura alla sua veduta filosofica sulla creazione e in modo particolare su Dio e lo ritroverebbe per certi versi come ai suoi tempi o, forse peggio.
Se Tommaso fosse resuscitato e catapultato nel mondo contemporaneo io, credo che sarebbe stato proposto da qualche insigne prelato ad assistere a una seduta parlamentare
alla Camera dei Deputati. Pensate a quale sorpresa si troverebbero i suoi occhi; una donna con un’alta carica istituzionale.
Provate a pensare al filosofo tomista in quale confusione cadrebbe.
Se poi lavoriamo con la fantasia, proviamo a immaginarlo come spettatore di una di quelle assemblee parlamentari, dove non si sentono che parole, diventate a pieno titolo vocaboli parlamentari, asino, coglione, porco, ladro, vigliacco.
Il povero Tommaso rimarrebbe inebetito di fronte alla scarsa attitudine all'intelletto dei parlamentari italiani.
Di certo Tommaso il filosofo non comprenderebbe l'uso della tecnologia e rimarrebbe di sasso come un romano vissuto all'epoca di Cesare vedendo un concittadino dell'epoca vittoriana accendersi la pipa con un fiammifero.
Forse il gioco d'azzardo, lo sperpero di risorse per tentare
un’ improbabile fortuna colpirebbe in questo caso la sua fantasia come le missioni nello spazio di cui non intenderebbe la natura e l'utilità.
Se poi riuscisse a comprendere le argomentazioni umanitarie che i governanti del nostro mondo sviluppano nei consessi internazionali per affrontare le problematiche che si riferiscono alla fame nel mondo per dare risposte alle nuove e crescenti povertà.
Si domanderebbe certamente se si parla come Cicerone o si agisce come Verre. Gaio Licino Verre (Gaius Licinus Verres') politico romano del primo secolo, propretore della Sicilia, dove si rese protagonista di concussione e ruberie. Subì un celebre processo nel quale Cicerone pronunciò contro di esso le orazioni denominate Verrine.
Ruberie alle quali non è mai stata data una soluzione positiva nel corso dei secoli. Provate a mettervi nei panni del povero santo e ditemi se egli vivesse ai nostri giorni se riuscirebbe a comprendere questo malaffare che imperversa nella società contemporanea.
Oltretutto un costume consolidato. Basta pensare per essere in sintonia con il contemporaneo di chi ha avuto dall'Unione Europea per esempio, denaro che non poteva ottenere per aprire attività fittizie, chi ancor oggi ha fatto la cresta sui dazi doganali.
Chi ha dato il via libera a richieste che erano fuori dalla legge.
In molti casi scopriamo attraverso i media che sono proprio le autorità degli stati membri dell’ unione a frenare, a trovare cavilli per non far procedere le indagini nonostante la marea d’ informazioni raccolte. Penso che al santo gli verrebbe spontaneo domandarsi: a che cosa è servita la mia sapienza donatami dal divino se nel corso dei secoli nonostante tante cose che non riesco a comprendere siamo giunti a questo? Io credo che proverebbe ancora maggiore meraviglia se entrasse in un ministero, uno dei tanti, e osservare che per il restauro di una casa ci vuole una procedura complicatissima, nonostante la richiesta fosse semplicissima.
Permessi, controlli di capi divisione, capi sezione, ecc…, fino ad arrivare al protocollo; sì,perché nell'era della digitazione bisogna protocollare, timbrare, accertarsi e poi lasciare che le cose prendano il loro verso sperando nella fortuna.
Così tra una truffa, una guerra, una catastrofe naturale, le ruberie
l’uomo nonostante tutto ha portato la comodità dove prima non esisteva. Ha fornito prova di un grandissimo ingegno nel servirsi e appropriarsi di tutti i mezzi che gli ha dato e offerto la natura e, nel superare le forze inerti a lui contrarie con il prodigio della tecnologia ha modificato pure il corso della natura contribuendo al cambiamento climatico del pianeta.
Da questa cima dove mi sono fermato e dove ora il panorama si allarga a perdita d’ occhio dopo il diradarsi della condensa in compagnia con questi pensieri, ho il privilegio di osservare uno dei più splendidi spettacoli della natura che essa regala a chi ama camminare per i monti e a chi ama veleggiare nei mari. Ecco, su questo regalo che mi regala la natura testimonio, il mio sbalordimento, ogni volta che mi si presenta l’ occasione.
Solo la natura riesce a farmi da guida e non mi disperdo in nessun tipo di congetture di carattere politico, non ne vale la pena.
Proviamo a pensare se a Tommaso gli facessero leggere un accozzo di articoli circa il cambiamento delle regole costituzionali che hanno retto la Repubblica fino ad oggi e che in modo sostanziale vogliono essere la legge o la regola per tutta la nazione, e aggiungiamo pure il condimento in varie salse a secondo il partito che governa.
Io penso che il santo direbbe che il cambiamento che si vuole operare offenderebbe i padri della Costituzione Italiana.
Accostatevi con la vostra fantasia al santo come faccio io dall’alto della cima e domandategli in confidenza che cosa pensa di tutto questo.
E’ santo, è dottore della chiesa, quindi presumibilmente loquace, lo dirà.
In buona sostanza statene certi che il suo dire verso la positività dei progressi meccanici e scientifici che tanto l’ hanno meravigliato, troverebbe la sua benedizione.
In tutto il resto forse siamo più indietro di quel che si fosse ai suoi tempi. Ed io aggiungo dall'alto del monte che morale, governo e religione sono i pilastri su cui si poggia un mondo che non apprezza la natura, la libertà, lo spirito libero.
E il mio libero pensiero, dalla cima lo getto a valle.

*

Bestia e Pietro

Giunto alla soglia dei quaranta Pietro scelse la compagnia della natura e si trasferì in montagna; suo unico compagno un labrador che aveva battezzato con il nome di Bestia.
Un cane giovane cui Pietro aveva insegnato come portargli le pantofole e andare a prendere il giornale alla vicina e unica edicola del paese e di tutto il circondario montano che si trovava a pochi metri dalla residenza dei due amici.
L’ammirazione di Pietro nei confronti di Bestia non era dovuta alla fedeltà che egli considerava una qualità limitativa dell’esuberanza quanto il fatto che nonostante tutti i tentativi di insegnargli a mingere negli spazi aperti che non mancavano in quel paese di montagna; Bestia era ostinatamente perseverante nel fare almeno due pisciatine al giorno nella stanza che Pietro aveva adibito a una piccola e personale biblioteca dove conservava i suoi libri preferiti.
Quest’aspetto particolare di Bestia non faceva infuriare Pietro che tuttavia era geloso di quei libri che per lui rappresentavano la cosa più nobile della vita: il sapere.
Si sforzava di capire il comportamento del labrador e in una serata grigia di autunno i suoi sforzi basati sulla riflessione di questo particolare aspetto ebbero la logica soluzione.
Bestia forse voleva mettere in guardia l’uomo che la gelosia del sapere non merita altro che una calda consacrazione. Fu come risvegliarsi da tanti anni di torpore, spesi a esclusiva conoscenza.
Bestia aveva aperto una breccia nella sua mente.
Da quel momento Pietro cambiò atteggiamento nei confronti del labrador e lo colmò di accarezzamenti e pasti curati per avergli dato quella sorta di ammonimento.
Fu’ in quella stagione autunnale che assieme a Bestia e in compagnia di svettanti Faggi egli si sforzava in ragionamenti che fino allora non lo avevano mai sfiorato. In quel ragionare, spesso ad alta voce chiacchierando con Bestia la gente del paese lo considerava pazzo. Egli della pazzia ne aveva un grande rispetto perché chi era prigioniero di quello stato mentale, non mentiva mai, anzi si avvicinava senza secondi fini e parlava liberamente.
A volte pure in modo confuso, ma in quel parlare c’era una sorta di verità atavica che egli segnava sul suo notes. Da quell’autunno aveva compreso la ragione del sapere: condividere.
Fu in una mattinata soleggiata che scese in paese invitando giovani e anziani a un pomeriggio in sua compagnia, il riscontro di questa sua apertura alla vita sociale fu’ sorprendente; si presentò alla porta della sua abitazione una quarantina di persone, gli fece entrare e presentò loro Bestia che dimostrava interesse per quella moltitudine di persone che affollavano i vani della casa di Pietro. Offrì caffè d’orzo agli adolescenti. Vino rosso a giovani e anziani.
Gli accompagnò nella sua biblioteca privata mostrando loro i volumi ai quali lui era particolarmente affezionato e mise a disposizione quei testi a chi aveva voglia di leggere e di apprendere.
La cosa si sparse nei dintorni e presto la casa di Pietro fu’ invasa da molti che volevano in prestito un libro da leggere. La cosa lo riempiva di orgoglio, ma i libri ormai erano davvero pochi rispetto all'interesse che aveva contagiato gli abitanti dell’intera vallata.
Ancora una volta fu Bestia fonte d’ispirazione per Pietro che nel corso di una passeggiata pomeridiana fu trascinato a forza dal labrador nei pressi del municipio e, in disprezzo di ogni buona creanza, alzò la zampa nei pressi del monumento ai caduti per una pisciata che sembrava un torrente in piena.
E nel momento della minzione del labrador la lampadina si accese.
Doveva conferire con il Sindaco del paese, per proporgli l’apertura di una biblioteca pubblica cui avrebbe donato i suoi libri. L’occasione di conferire con il primo cittadino non mancò nel corso del lungo pomeriggio quando i due s’incontrarono all'osteria del paese.
La proposta di Pietro fu accolta dal Sindaco con entusiasmo e promise che sarebbe stata messa al primo punto della seduta del primo consiglio Comunale. Il sindaco aggiunse che avrebbe proposto che a curare la biblioteca fosse proprio Pietro.
Si congedarono con una calorosa stretta di mano e Pietro assieme a Bestia che nel corso della discussione era rimasta allungata sul pavimento dell’osteria stuzzicando quello che i commensali gli gettavano si avviò a passo lesto verso la via di casa, soddisfatto
dell’esito della sua proposta. Bestia era felice
per l’aperitivo fuori programma prima della cena.
Due settimane dopo l’incontro con il Sindaco, ricevette una raccomandata.
Aprì la busta mentre Bestia approfittando della concentrazione di Pietro sulla busta per andare nella stanza dove erano custoditi i libri a fare la sua minzione quotidiana.
La proposta era sta accolta a maggioranza dai consiglieri comunali e ora la giunta doveva ratificarla per renderla al più presto esecutiva. In aggiunta un post scritto informava che la responsabilità della biblioteca sarebbe stata affidata a Pietro.
L’indomani mattina Pietro accompagnato
dall'inseparabile Bestia si avviò verso il palazzo comunale. Bestia si mise accucciato ai piedi di un albero mentre Pietro si rivolgeva all'usciere chiedendogli di voler conferire con il Sindaco.
L’usciere si mise in contatto telefonico con la segretaria del primo cittadino e dopo una breve conversazione posò il telefono e invitò Pietro a salire al secondo piano. Il Sindaco l’avrebbe ricevuto. Nemmeno il tempo di prendere fiato che la porta
dell’ufficio si aprì e Pietro fu’ invitato a entrare.
Con un cenno il sindaco gli indicò di accomodarsi sulla poltrona posta di fronte alla sua scrivania e gli espose in tono amichevole ma, formale gli atti che il Consiglio aveva deliberato in merito alla sua proposta. Tutto filava per il verso giusto.
L’unico momento di tensione arrivò quando il sindaco prospettò l’ipotesi che Pietro doveva essere assunto come dipendente comunale.
Svolgere quel tipo di mansione richiedeva aver conseguito un diploma di maturità, che egli stesso aveva ottenuto nel corso degli studi presso il liceo classico Marconi di Chiavari e proseguendo gli studi si era laureato in filosofia presso la facoltà di lettere di Genova.
La tensione era dovuta al fatto che per Pietro il sapere non doveva essere pagato ma donato in modo gratuito e con quest’argomentazione si offri di svolgere quel compito gratuitamente mettendosi a disposizione delle persone che risiedevano nella vallata.
Il Sindaco rimase colpito da quest’atto di generosità nei confronti della comunità e s’impegnò personalmente ad attivare le risorse che consentissero al volontario Pietro di operare nella prossima apertura della biblioteca comunale; a tale proposito il sindaco si rivolse a Pietro e lo invitò a seguirlo.
Lasciarono l’ufficio ed entrarono in un locale abbastanza spazioso che la giunta comunale aveva individuato come locale da utilizzare allo scopo.
Uscito dal palazzo comunale, recuperò Bestia che aveva fatto amicizia con due bambini e s’incamminò verso casa a passo spedito con il labrador che svogliatamente lo seguiva.
Entrato in casa, mise nella scodella la zuppa per Bestia, poi con lentezza si preparò la cena.
Finito di cenare radunò le stoviglie nel lavandino e si mise con rinnovata energia a compiere quel rito serale prima di uscire nel porticato con il suo fidato Bestia. Quella sera seduto su una panchina di marmo e imbacuccato a dovere per il vento che soffiava, estrasse dalle tasche il notes e annotò alcune sue considerazioni sulla giornata trascorsa che era stata produttiva come non mai.
Rientrò in casa e con ispirazione compose una poesia, questa volta non nella solitudine consueta ma, in compagnia di una sensazione positiva dovuta al fatto che aveva incominciato a socializzare.
Prima di allora affidò i suoi scritti al fuoco.
Si disse che questo non doveva più accadere.
Sarebbe stata la perpetuazione di una forma di egoismo narcisista.
EPILOGO
La vigilia di Natale era il giorno dell’inaugurazione. Fu una giornata intensa per Pietro.
Furono recapitati cinque colli del peso di trenta chili ognuno. Contenevano una tale quantità di libri che
l’amministrazione provinciale su invito del sindaco aveva donato alla biblioteca.
MORALE
Bestia, fece capire a Pietro che il Sapere si deve donare. E da buon filosofo Pietro, si mise a insegnare.

*

Vestita a lutto

Vestiva di nero e stava bene un bel contrasto che si addiceva ai suoi capelli biondi e ricci.
La stranezza era che camminava con gli occhi chini, un vero peccato. Sempre vestita di scuro e raramente era in compagnia mentre passeggiava per le vie della cittadina.
La incontravo a Chiavari nei pressi della Piazza N. S. dell’ Orto, sede della curia vescovile, dove il movimento di comunione e liberazione aveva la sede organizzativa.
Le linguacce che stavano sedute all’ interno dei bar dalla vetrata osservavano e commentavano, non erano in grado di intaccarne il credito che riusciva ad avere negli ambienti della curia vescovile.
Del resto per quello che si osservava, la bella signora non frequentava la notte, sembrava che non coltivasse amicizie intime e frequentava la diocesi con quotidianità.
Erano passati due anni e avevo dimenticato quella bella donna vestita di nero, ero delegato al congresso nazionale della Federazione Giovanile Socialista a Venezia nelle giornate del 26, 27, 28, 29 aprile.
La mattina del 25 Aprile raggiungo la stazione ferroviaria di Chiavari da dove il treno partiva, una vera odissea, non esistevano ancora le tratte direttissime e il viaggio si svolgeva con numerose coincidenze. Era una mattinata calda, la stazione era quasi vuota; salito nel vagone e preso posto vicino alla porticina opposta a quella da cui ero salito.
Non volevo trovarmi con il battito del sole in volto.
Un mio coetaneo mi chiamò domandandomi dove ero diretto. Affacciato al finestrino, parlavo con l’ amico che restava comunque a distanza di sicurezza dal padre che lo accompagnava a Genova.
Nel vano della porta rimasta aperta vidi entrare un braccio maschile, era quello di un facchino che caricava i bagagli sotto la ricompensa di una lauta mancia, al contrario il suo compito sarebbe terminato nel posare le valigie sul marciapiede che dava accesso al treno. In cuor mio ringraziai l’ amico che mi aveva evitato la sorpresa, perché conversando, fui in grado di osservare chi saliva nel vagone subito dopo il facchino. Era Lei. Vestita di scuro.
Lasciavo che il mio amico parlasse a ruota libera, non lo ascoltavo, mi domandavo, dove fosse diretta.
Il locomotore fischiò, i bigliettai chiusero le porte
e l’amico mi salutò strillando il mio nome.
Notai che la bella signora, drizzò la testa con una certa curiosità. Preso posto e timidamente salutai, la signora contraccambiò accennando a malapena a guardarmi negli occhi. Fuori dalla galleria, il sole si faceva sentire e disegnava con i suoi raggi forme oblique all'interno della carrozza, seguivo quelle forme, ma ancor più le fattezze della signora. Non mi degnava di uno sguardo, ma notai un movimento di ritirata nelle sue gambe; con la mia sfrontatezza la fissai più intensamente, colsi solo un impercettibile movimento dei suoi occhi che si riabbassarono all'istante. Sicuramente aveva colto dalla mia espressione
l’ammirazione della sua bellezza che certamente sapeva di avere.
Non sembrava imbarazzata, d'altronde nessuna donna intelligente si offende, se la osservano.
Non sapevo come prendere l’ iniziativa per imbastire una conversazione, osservavo, poi come d’ incanto ecco l’ idea, a ispirarmi fu il sole che stava sorgendo, mi alzai e abbassai la tenda parasole rivolgendomi alla signora: da fastidio avere la visuale coperta?
Ero certo di rimanere a lungo in attesa di una risposta, al contrario di quanto pensassi sentii le sue parole: il sole mi abbaglia. Rimasi sorpreso, la bella signora aveva pure alzato lo sguardo, il gioco era fatto, si poteva conversare.
Le parole fluivano fluide, non ebbi nessuna remora a dirgli che l’ avevo vista spesso nei pressi della cattedrale a Chiavari, e la mia curiosità fu soddisfatta, faceva parte del movimento cattolico di comunione e liberazione, mi rese dotto sul suo ruolo all'interno del movimento, era una responsabilità amministrativa.
La chiacchierata si spostò sulle bellezze della nostra Liguria e poi la conversazione prese i toni accesi della discussione. Tutto era legato a una veduta della società da due estremità che non avevano punto
d’ incontro.
Almeno questa era la prima impressione.
Il viaggio era lungo, e il dialogo aveva delle battute di arresto, ma ogni volta che ci si scambiava la parola e lo sguardo inevitabilmente s’ incrociava sembrava che una certa confidenza prendesse il sopravento.
Forse mi sbagliavo. Non ne avevo la certezza.
Mi resi conto che un qualcosa era cambiato quando la signora mi punzecchiava con insinuazioni ironiche e le mie risposte o argomentazioni diventavano piccanti al punto di urtare la suscettibilità della mia compagna di viaggio che con fare garbato m’invitava a restare nei limiti del lecito e a non usare riferimenti che avessero un doppio senso.
Cambia il modo di propormi agli occhi della bella signora, con un linguaggio diverso, facevo leva sugli aspetti tipici della sensibilità a ogni riferimento che si sviluppava nella nostra chiacchierata. E questo cambiamento aveva sortito gli effetti da me desiderati. Mi resi conto che mentre parlavo lo sguardo della signora s’ incontrava per un attimo con il mio per poi sfuggire nuovamente, forse un modo per non darmi il motivo di giungere a conclusioni che non erano nelle desiderate della signora, ma certamente nelle mie.
Il viaggio era concluso. Arrivati alla stazione centrale di Venezia in piazza Roma, aiutai la signora nel modo più naturale possibile.
Mentre si slanciava per prendere la sua valigia, la anticipai sfiorandole con la mano la spalla;
lasci, ci penso io. Una volta scesi dal treno, percorso il sottopasso che portava in piazza, ci fermammo per scambiarci i saluti, le direzioni ora si dividevano.
Ero atteso nei locali della federazione provinciale del Partito socialista Italiano per incontrare i delegati veneziani al congresso e dove fosse diretta la signora, non lo sapevo, durante le nostre chiacchierate in carrozza ero stato attento a non essere invadente, non tanto perché non avessi la voglia di soddisfare la mia curiosità ma perché volevo giocare su un terreno basato sulla spontaneità.
Questo doveva apparire. In sostanza avevo studiato la tecnica.
Nel momento in cui le nostre mani s’ incontravano per uno scambio di saluti, le chiesi, dove era diretta. Non ricevetti una risposta immediata, al contrario il suo sguardo vagava sulla piazza, poi alzando la testa e con un sorriso spontaneo, così come lo umettarsi le labbra con la lingua, disse: dove vuoi.
Avrebbero dovuto aspettarmi per tutta la giornata nella federazione veneziana, soltanto il giorno successivo raggiunsi l’albergo, dove si svolgeva il congresso che seguii in modo parziale, del resto la politica ha i suoi tempi, il desiderio ha necessità impellenti che vanno colte al momento. Ho trascorso quei tre giorni a Venezia in modo spensierato, e ogni volta che con la signora si concordava un appuntamento, i momenti scorrevano.
Terminati i lavori congressuali, dovevo rientrare, mi attendeva il lavoro in fabbrica; incontrai la sera precedente alla partenza la mia occasionale compagna di viaggio e con grande classe da parte sua, mi ripeté che il nostro incontro non avrebbe avuto nessuna ripercussione nel nostro futuro, mi ripeté che era sposata e non voleva nessun tipo di complicazione nella cittadina di Chiavari, quindi dimostrassi gratitudine per i momenti passati insieme senza spettegolare o vantarmi con gli amici.
Da parte mia ci fu silenzio assoluto, non raccontai a nessuno questo spaccato di gioventù se non in questo racconto a distanza di decenni dall'accaduto e la Signora che è stata una meteora nella mia gioventù riposa in pace nel cimitero di Chiavari. E così sia.

*

In quel 1974. L’inizio

Avevo compiuto sedici anni il 24 di gennaio e luoghi così caratteristici non ne avevo mai visti. Tra la valle romagnola del Montone scendendo a San Godenzo, le case a differenza delle nostre costruzioni sul mare mi apparivano misere e tristi. Una ragione a questa mia impressione c'era, eccome.
I venti sembrano scatenare la loro furia e le case hanno finestre così piccole che pare non passi neppure l’ossigeno.
Lungo la strada e per un tratto di alcuni metri ci sta un muraglione massiccio con un’ iscrizione che spiega il perché l’ ultimo granduca avesse fatto costruire quel muro di pietra affinché il vento non travolgesse più le carrozze, i cavalli e i viandanti nei burroni che fiancheggiavano la vallata.
L’ ultima delle minuscole case che stanno sul valico è l’osteria della gioventù, dove arrivammo all'imbrunire. Ai Poggi, poco lontano, c’ era stata in quei giorni una fiera e la strada, davanti all'osteria, erano affollate.
Notai con mio stupore una bella ragazza che poteva avere all'incirca la mia età buttarsi a capofitto nella rissa che si stava scatenando, mi accorsi istantaneamente che era intervenuta in quel modo così veemente per difendere il fratello, che nella concitazione del momento chiamava per nome “ Giuseppe” per strapparlo dalla mischia.
Il nostro arrivo forse incuriosì e sortì l’ effetto di calmare la burrasca che si era scatenata. Volemmo sapere quale era la causa scatenante della rissa anche per evitare senza proposito di scatenare noi stessi una zuffa visto il nostro carattere estremamente goliardico.
Fu inutile il nostro tentativo. Nessuno, nemmeno i più accaniti, seppero spiegare il perché della rissa. Non rimase che dar la colpa al vino. Consigliammo di far portare nuovi fiaschi e la nostra ricetta si rivelò azzeccata. Noi, che avevamo sulle gambe qualche decina di chilometri di strada montana e dovevamo alzarci alle due del mattino per salire la Falterona e scendere a Stia in Casentino,decidemmo di abbandonare quella inusuale e inattesa compagnia ritirandoci nelle nostre camere.
Avevamo appena chiusi gli occhi, che il capo gita venne a bussare urlando che era tempo di partire. A malincuore, lasciammo il letto.
L’ aria della notte si faceva sentire e ci intirizziva le ossa; il capo gita armato di torcia elettrica come tutti noi cominciò ad inerpicarsi per la cresta sassosa del monte dei Tramiti e a raggiungere in fretta la schiena dell’ Alpe di San Benedetto.
Questi sono i chilometri più antipatici in una escursione. Vengono delle tentazioni di tornare indietro, che non sono altro che ribellioni della pigrizia contro la volontà. Alcune nostre irritazioni nervose che sembrano figlie dell’ energia in realtà sono dello scoraggiamento. Non c’è che un rimedio: passo lento e non fermarsi se non per un sorso di cognac. I passi risuonano sulle rocce nude e nel silenzio; poi si cammina sull'erba soffice, sui muschi che paiono velluto, senza alcun rumore. Ci si accorge di voltare, di salire, di scendere, e qualche volta si percepisce di passare vicino ad un albero o ad uno scoglio, senza vederlo.
Il mistero non ci abbandona mai, stimola l’ attenzione, affina i sensi. All’alba giungemmo ad una casa di pastori, proprio sotto al giogo della Falterona.
Una donna col fischio chiamò le capre e munse il latte caldo e spumante che noi tutti bevemmo con gran piacere. Il monte stava davanti a noi con le sue coste chiazzate di prati verdi e di abetaie quasi nere. Salire dritti alla cima non è facile. Quindi direzione verso levante per avvicinarci alla punta di Modina e dal Pian delle Fontanelle guadagnare la vetta.
A 1280 metri di altitudine mangiammo lamponi cogliendoli sul margine del sentiero; a 1650 metri perdemmo la parola davanti ad uno spettacolo immenso. Eravamo sull’ ultima vetta della Falterona, e sotto di noi, per quanto l’ occhio poteva, non vedevamo che un mare di monti! Tutto l’ Appennino centrale dal Sasso della Verna al Cimone di Fanano era sotto i nostri piedi, e più lontano, sfumate nell'azzurro, facevano capolino vette più alte.
L’ Adriatico luccicava a levante, e a mezzogiorno, verde, ridente quasi ci tendesse le braccia. Si apriva ai nostri occhi il Casentino fino ad Arezzo.
Si può vivere cent’anni ma quell’istante non si può più dimenticare.
Arriva un momento, nel silenzio solenne della montagna, che il sublime ci sgomenta e ci si sente costretti a chiudere gli occhi per la vertigine dell’ immenso.
La vita ha poche ore così piene, così grandi. Scendere è un dolore.
In ogni caso scendemmo e intorno alla sorgente dell’ Arno bevemmo tutti l’ acqua limpida e gelata del fiume che nasce in Falterona. Poi, procedemmo ancora più a valle, tra le chine sassose e le ginestre dai fiori gialli, sui sentieri arsi e bianchi che portano a Stia. Una frazione del comune di Prato vecchio. Entrati nella piccola frazione la gente ci guardava con molta curiosità, quando un giovane ci venne incontro chiedendoci se fossimo soci del Club Alpino.
Rispondemmo di sì e precisammo che la nostra sede era a Chiavari una ridente cittadina della riviera ligure. Era socio pure lui del club alpino e subito si stabilì un rapporto di fraterna amicizia. Il collante era la passione per la montagna.
Arturo, questo il nome del giovane, ci indicò un posto dove cenare e passare la notte a un prezzo di assoluto favore. Il mattino seguente si presentò alla locanda dove avevamo alloggiato per la notte e fece una abbondante colazione assieme a noi poi, ci accompagnò per un buon tratto di via nella nostra salita per l’eremo. Eravamo diretti alle sorgenti del Tevere. Questa però è un’ altra storia con gli stessi personaggi che mi onoro di citare; Vittorio, Carletto, Giuseppe, Francesco, Mauro, e il grande balla,
il nostro capo gita.